A noi ci ha rovinato Elisabetta Caporale


Scrivo questo post in quanto atleta (poco) agonista tesserato Fidal, categoria Master, tessera n. CH049899, quindi non rompetemi i coglioni (cioè, era per dare un contorno ben definito alla cosa)
Sabato, penultima giornata dei mondiali di atletica, il peggiore della storia azzurra come somma di ogni singolo risultato dei 36 atleti iscritti alle gare (un terzo e un sesto posto su strada, un solo finalista – decimo – in pista), con un occhio guardavo le gare e con l’altro mi dedicavo a una delle più interessanti letture sportive degli ultimi 10-15 anni. “Repubblica” dedicava mezza paginetta di intervista a tale Liz Nicholl, 65 anni, una tipica signora inglese col capello biondo e corto e con l’aria discretamente cazzuta. L’intervista, che è moooolto interessante per capire come vanno le cose nel mondo e come vanno invece in Italia, la potete leggere integralmente qui. Intanto sintetizzo.
La signora Nicholl è a capo di una società che in Italia non esiste e che invece, in Gran Bretagna, fa da tramite tra lo Stato e il Comitato olimpico nazionale. In soldoni: in Italia il finanziamento dello Stato va al Coni che poi lo destina alle varie federazioni; in Gran Bretagna è la Uk Sports (la società di cui la signora Nicholl è Ceo) a decidere a chi dare il finanziamento dello Stato prima che se ne occupi il Comitato olimpico, secondo un crudelissimo criterio meritocratico. Fai risultati, o mi garantisci di avere una più che ragionevole certezza di farne a breve? Ok, ti do i soldi. E comunque tranquillo che tra un annetto torno e vedo come li hai spesi, se sei migliorato, che risultati hai avuto, che gare hai fatto e come procede la tua preparazione in chiave olimpica. Non hai combinato una cippa? Arrivederci e grazie. Anzi no, ringraziami tu se non ti chiedo indietro i soldi.
Tutto questo perchè in Gran Bretagna si erano un pochino preoccupati dopo le disastrose Olimpiadi di Atlanta: un solo oro, 15 medaglie in tutto. No, dico: la Gran Bretagna. Roba da vergognarsi per secoli. E invece si sono vergognati giusto per qualche mese e poi sono passati alla fase pratica di ricostruzione di un movimento sportivo olimpico che aveva toccato il fondo. 12 anni dopo, Pechino 2008, la Gran Bretagna è quarta nel medagliere. 16 anni dopo, Londra 2012, la Gran Bretagna ospita le Olimpiadi e vince 65 medaglie, terza nel medagliere. Quattro anni dopo, a Rio, ne vince 67, seconda nel medagliere.
La signora Nicholl non guarda in faccia a nessuno: ha segato nazionali di sport altisonanti (volley e basket) perchè non facevano risultati, rischiando l’impopolarità ha segato addirittura nazionali paralimpiche (tipo quella di rugby) per lo stesso motivo e perchè non guarda in faccia a nessuno. Cito solo un interessante passo dell’intervista: “Non siamo un ente di beneficenza. Investiamo sul futuro e dove si vince. Finanziamo gli sport con soldi pubblici, quindi abbiamo una responsabilità. Non ci dobbiamo occupare di far fare movimento alla popolazione, ma della programmazione olimpica. Trattiamo con il governo, presentiamo un piano, otteniamo fondi – per Tokyo 2020 sono 385 milioni di euro – e li ridistribuiamo senza tanti giri inutili, a chilometro zero. Paghiamo direttamente gli atleti e forniamo loro tutto quello di cui hanno bisogno in termini di assistenza tecnica, logistica, medica. Ma entrare nel programma non è un matrimonio. Ognuno di loro è sottoposto a continua verifica. E se i risultati non sono in linea con le aspettative, escono dal programma. Noi non dobbiamo essere politicamente corretti o fare buone azioni, ma costruire una leadership sportiva. UK Sport è un organismo governativo, indipendente dal comitato olimpico britannico e dalle federazioni sportive. Noi non partiamo dalla base per andare alla ricerca del risultato, facciamo l’opposto, partiamo dal risultato, e mettiamo in campo tutto il necessario per sostenerlo. Altrimenti azzeriamo gli aiuti”.
Mentre mi innamoravo del decisionismo della signora Nicholl, ripensavo a nazioni meno farlocche della nostra, tipo la Francia che a Londra 2017 ha preso tre ori e uno, in particolare, con un ragazzo che negli 800 metri a un certo punto è andato in testa e non ce n’è stato per nessuno. O tipo la Norvegia, no dico, la Norvegia, che prende l’oro con un pazzo che nei 400 ostacoli parte come un forsennato, stacca tutti i neri e vince nello stupore generale, compreso il suo. 27 nazioni hanno vinto un oro, in pista ha vinto una medaglia anche la Siria: perchè noi no? Perchè noi mai?
Ecco, veniamo all’Italia e all’atletica in particolare, la regina degli sport olimpici. A noi, alle Olimpiadi, la scherma e il tiro salvano sempre il culo, ma negli altri sport andiamo un po’ a sbalzi e nell’atletica siamo all’anno zero. Ma non da Londra 2017, eh? Da decenni. Se togliamo la strada (marcia e maratona), sono vent’anni che facciamo letteralmente ridere. Restando ai Mondiali, l’ultimo oro in una corsa è del 1999 (Fabrizio Mori, 400 ostacoli), l’ultimo oro in pista è del 2003 (Gibilisco, asta), l’ultima medaglia in pista è del 2011 (Di Martino, alto femminile, bronzo). Negli ultimi 5 mondiali abbiamo vinto 4 medaglie (zero ori): oltre al bronzo della Di Martino, altri due dalla marcia (Rubino e Palmisano) e l’argento di Valeria Straneo nella maratona di Mosca 2013. Nell’intera storia dei mondiali (il primo fu nel 1983) abbiamo vinto solo 11 ori (gli Usa ne hanno vinti 10 solo la scorsa settimana), di cui 5 nella marcia.
Quest’anno abbiamo portato 36 atleti, di cui 29-30 senza alcuna speranza di medaglia, la metà senza nemmeno quella di andare in finale. In quattro hanno fatto il loro personale, sette o otto – loro compresi – hanno fatto il primato stagionale. Gli altri manco quello. Ho letto, dopo la fine dei Mondiali, le interviste al presidente della federazione e al commissario tecnico della nazionale. Si dimostrano delusi e preoccupati, promettono che da adesso si cambia davvero (cosa che mi sembra di avere già sentito nel corso degli ultimi lustri), che si ragionerà solo in proiezione dei grandi eventi, che cambierà la programmazione degli atleti, che saranno più seguiti, che si eviterà di farli allenare da soli o per telefono ecc. ecc.
Vabbe’, si vedrà. Magari hanno letto anche loro l’intervista alla signora Nicholl e una mezza ispirazione gli verrà. Intanto oggi questi siamo, un’accozzaglia di atleti volenterosi e mediamente non molto ambiziosi, sempre più melting pot, dove gli atleti militari (mantenuti da noi) vanno peggio dei non militari, dove gli atleti vecchi vanno meglio dei giovani (no, dico, ci si è lamentati dell’assenza di Fabrizio Donato nel triplo: ma figa, ha 41 anni!), dove l’intera squadra su pista è stata umiliata da Marco Lingua, il martellista, 39 anni, unico finalista delle spedizione, uno che è uscito dal gruppo della Finanza e si allena da solo in una società che ha il suo nome e dove è l’unico iscritto, fa i pesi sotto il portico di casa e i lanci nel campo di suo zio.
Dice il presidente della federazione: troppi ragazzi si accontentano di fare il minimo per le grandi manifestazioni e stop, come se l’obiettivo fosse raggiunto così. Vero, è una vergogna, una vergogna concettuale. Vai ai mondiali e manco fai il tuo primato stagionale: forse ha ragione la signora Nicholl, la prossima volta dai retta a me, bimbo, stai a casa e guardali dal divano. Ma il minimo non è il solo obiettivo di questi ragazzi. Ce n’è un altro, più subdolo, più irritante, più inutile: arrivati ai mondiali o agli europei, fare la propria gara, essere (di solito) eliminati e andare in zona mista a farsi intervistare da Elisabetta Caporale.
Qui va in scena un teatrino grottesco, dove questi ragazzi (e soprattutto le ragazze) si guardano nel monitor, si sistemano la chioma e partono con una sequela di giustificazioni del tutto irrilevanti e spesso puerili, in cui la frase chiave è “non so come mai” e poi chiedono se possono salutare a casa. Mi sono visto tutti i mondiali e questo schema – vado da Elisabetta Caporale, piagnucolo, mi scuso, saluto e me ne vado – l’ho visto mimino quaranta volte. Con rare eccezioni, tipo la Trost che ha definito la sua gara “non decorosa”, centrando in pieno la definizione. Ma la sincerità, nel medagliere, fa sempre zero. E comunque don’t worry, se hai fatto cagare c’è Elisabetta Caporale che ti garantisce il suo compatimento e la sua assoluzione: “Ti capisco”, “Abbiamo sofferto anche noi”, “Coraggio” eccetera eccetera, in un cameratismo psicoterapeutico che diventa fastidioso al secondo giorno di gara e al decimo ti costringe a fermarti appena prima di gettare il televisore in cortile urlando
“Bastaaaaa, mi avete rotto il cazzo, siete la rovina dell’Italia”!
In questo sprofondo tecnico e morale della nostra atletica leggera, mi sono così creato una mia intima convinzione: che a noi ci ha rovinato Elisabetta Caporale. E adesso sarà difficile togliermela. Io in Italia applicherei in toto il piano Nicholl a partire da domani mattina, ma eliminare la zona mista potrebbe essere un primo passo verso la rinascita di un movimento allo sbando.

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Capire Spalletti (o almeno provarci)

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Alla sollecitazione del cronista “C’è un grande entusiasmo intorno alla squadra”, Mourinho probabilmente avrebbe risposto con un “Ci fa molto piacere il calore dei tifosi”, Mancini con un “Ottimo, siamo contenti, è un buon inizio”, Stramaccioni con un “Ahò, bene bene!”. Luciano Spalletti, nell’immediato post-partita di Inter-Villarreal, l’ultima amichevole, ha invece risposto così:
“Mi sembra giusto, stanno recependo la serietà dei ragazzi e di come lavorano, il messaggio che hanno mandato ogni volta che escono fuori dal recinto di casa nostra è che si dà a vedere che si vuol fare sul serio, si vuol fare quello quello che obbliga il professionismo, cioè la competenza, noi siamo competenti, vogliamo essere competenti per il nome che portiamo e la professione che facciamo”,
riassumibile con un:
“La squadra ha dato un segnale e il pubblico lo ha recepito”,
ma espresso con il quintuplo delle parole necessarie e con una carpiatura dei concetti che, complice l’ipnotico e suadente eloquio del nostro condottiero, non si riescono a cogliere in diretta ma solo dopo un’attenta rilettura. E siccome in diretta ci sembra sempre di capire qualcosa, cogliendo qua e là parole familiari (squadra, pallone, difesa, gol) che ci rassicurano, è piuttosto qui, nell’attenta rilettura, che ci si apre un mondo. Come parla Spalletti, e cosa vuole dirci esattamente?
Ora, noi potremmo accontentarci di un fatto sostanziale, che renderebbe tutto il resto davvero marginale: cioè che in quale modo, un modo qualsiasi, Spalletti si faccia capire dalla squadra e che la squadra capisca Spalletti. Possiamo nutrire la ragionevole certezza che, nel rude lavoro quotidiano, Spalletti alla Pinetina non urli da bordocampo qualcosa del tipo
“Nagatomo, ascoltami, il tuo movimento difensivo dovrebbe evolvere in una direzione che ti consenta di esprimere al meglio le tue doti di velocità e nel contempo alla nostra difesa di poter contrastare con efficacia la fase offensiva dei nostri avversari!”
ma un più sintetico
“Yuto, santiddio, la diagonale!”
Ecco, appunto: la sintesi. Diciamo che, davanti a telecamere e taccuini, non è la dote principale di Spalletti. E noi, tutti noi interisti, dovremo adeguarci. Senza necessariamente capire. Che in sè è una situazione non priva di un fascino perverso. Ci toccherà cioè affidarci a occhi chiusi a un flusso di parole non sempre traducibili. Ci toccherà fare, nel nostro intimo, quello che già molti siti fanno ora: sbobinare e mettere in bella copia, perchè l’elaborazione esatta dello Spalletti-pensiero (oltre ad affrontare il rischio di travisare concetti importanti e offrirne una versione non autorizzata) è superiore alle forze di tutti.
Torniamo brevemente alla frase post-Villarreal. Nel replicare alla più innocua e scontata delle domande, Spalletti esagera ed entra addirittura in un territorio inesplorato, come se a un chiterrista avessi chiesto un giro di do e quello ti rispondesse con l’assolo di “Little wing”. Spalletti parla di “competenza”. Ma chi, riferendosi a dei calciatori, si è mai azzardato a parlare di competenza? Per l’universo mondo i calciatori sono forti, fortissimi, scarsi, pippe, anarchici, disciplinati, straripanti, modesti, inadeguati eccetera eccetera. Ma competenti, quando mai si era sentito? Competenti. Rendiamocene conto: è straordinario.
Spalletti può regalarci emozioni concettuali che gli altri se le sognano. Prendiamo a titolo di esempio quest’altra frase eleborata in una delle conferenze stampa del tour in Oriente. In Italia esce il calendario e in sala stampa gli chiedono cosa ne pensa e come vede la corsa allo scudetto e alle coppe europee. Una domanda che avrebbe fatto un bambino dell’asilo. Ma Spalletti, in queste situazioni così scontate, sa trovare il modo di stupire:
“Abbiamo avuto la conferma anche di altre squadre che possono accorciare il gap che c’è ad oggi con la Juventus. Sarà il tempo a dire chi lavora nella maniera corretta per aspirare a quelle quattro posizioni ma noi vogliamo esserci”,
riassumibile con un:
“Puntiamo ai primi quattro posti, la Juve è favorita ma avrà vita dura”
ma il nostro mister aggiunge sempre il tocco del maestro. Per dire: da chi cazzo avrà mai avuto la conferma che ci sono altre squadre che possono accorciare il gap con la Juventus? C’è una intelligence che lavora per fornire informazioni sule ambizioni della squadre di vertice? Tutto ciò ci inquieta, e un po’ ci piace.
Scontiamo, a livello comunicativo, i recenti cambi societari. Abbiamo un padrone che si esprime con un elementare “Fozza Inda”, un presidente che parla per interposto interprete. E questo un po’ ci deprime, dopo una lunga stagione in cui potevano identificarci in un signore milanese perennemente disposto a rilasciare dichiarazioni e nei suoi concetti-base del tipo
“Non è una cosa simpatica nell’insieme”,
adattamento morattiano di un più grezzo
“Ci stanno proprio rompendo i coglioni”.
Che nostalgia. Ma adesso è arrivato lui, Spalletti, con le sue frasi senza virgole e con mille parole (di cui 950 superflue). E siamo solo all’inizio, ragazzi. Solo all’inizio.

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Il G7 del Gufo Real(e)


“Tutti a casa mia il 3 giugno, tenetevi pronti. Prendete le ferie. Nel caso, licenziatevi. Avvertite già ora mogli e fidanzate. Nel caso, lasciatele. Non si accettano scuse”.
La convocazione per la gufata delle gufate, in vista del possibile Triplete della gufata estrema (dopo Juve-Benfica, 2014, eliminazione in semifinale di Europa League con finale prevista a Torino, e Juve-Barcellona, finale Champions League, Berlino 2015, cui si aggiunge come gufata interlocutoria la magica notte dei supplementari col Bayern), era stata fatta in netto anticipo, praticamente al pranzo natalizio del Clan dell’Asado 2.0, quando dopo i sorteggi degli ottavi era ormai chiaro a tutti che la Juve culattona sarebbe andata in finale senza colpo ferire. Nel frattempo si erano via via dissolte le speranze che qualcosa o qualcuno complicasse il campionato dei gobbi, così come erano durate una decina di minuti – confermando la tesi della sostanziale inutilità intrinseca delle squadre romane – le speranze che la Lazio li inculasse in Coppa Italia, vanificando almeno il Triplete.
Per cui, quasi sei mesi dopo quella convocazione fatta un po’ così, confidando intimamente che potesse non servire, il 3 giugno 2017 sei interisti coi i nervi a pezzi da altrettante diverse località della Lombardia prendono la via della casa del Barone, a cui si uniscono alla spicciolata formando una inedita formazione a sette.
“Siamo il G7 della gufata”
dice il padrone di casa fingendo ottimismo durante una frugale apericena, durante la quale i sette gufi in realtà già si ammazzano di scaramanzie.
“Scusa, due anni fa quante fette di salame avevi mangiato?”
“Otto o nove. Solo che adesso ho 349 di colesterolo e quindi preferirei…”
“Ma ti sembra il caso di formalizzarti per minchiate del genere? Qui si fa lo Storia o si muore”
“Giusto”, dice il gufo deglutendo una fetta di salame intera.
Il Barone intanto ci mostra con l’entusiasmo di un bambino perfettamente pettinato l’armamentario acquistato il giorno prima a Grazzano Visconti (Pc) al celeberrimo Festival dei Gufi, probabilmente accendendo in loco un mutuo Findomestic:

  • numero indefinito di birre artigianali 33 cl con gufo nell’etichetta
  • sottobicchieri per predette birre con il motto “bevi come un gufo”
  • decalcomanie di gufi appollaiati per l’auto
  • pigiama in seta con gufo cucito sulla patta
  • gufo artigianale scolpito in marmo di Carrara e dipinto a mano del peso di 70 kg

Il detto statuario gufo viene posizionato di fianco al televisore, a sua volta posizionato in terrazzo con emiciclo di sedie e divanetti a simulare la curva di uno stadio.

Verso le 20.15 il padrone di casa si presenta con sette birre e convoca tutti davanti al televisore per il rito della gufata. Al suono dell’inno del Madrid, uniamo al cielo le sette birre cantando in spagnolo:
“Madrid Madrid Madrid
¡Hala madrid!
Y nada más
Y nada más
¡Hala madrid!”
Un vicino di casa chiama i carabinieri, senza successo. Uno dei gufi, con le lacrime per la commozione, fa notare:
“La birra è un po’ calda”
“Riportiamola in frigo”
Quattro rampe di scale a scendere, quattro a salire.
“Sete! Le birre!”
“Vamonos!”
Quattro rampe di scale a scendere, quattro a salire.
“Eccole!”
“Ancora un po’ caldine!”
“Riportiamole in frigo!”
La scena si ripete sei volte in dieci minuti, dopo i quali due gufi avvertono i primi classici sintomi dell’infarto al miocardio. Alle 20.40 finalmente beviamo.
“Avete notato?”, faccio io per stemperare la tensione mentre a Cardiff organizzano una specie di Festivalbar prepartita.
“No”, fanno gli altri sei, di cui uno ruttando.
“Il ramo artigianale su cui è appollaiato il gufo artigianale”, dico io.
“Eh”, fanno gli altri sei macerati dalla tensione mentre cercano di leggere le formazioni.
“Guardate bene. E’ un evidente simbolo fallico”, dico io.
“Uh”, fanno gli altri sei.
“Cioè, è un cazzo! Capite? Cazzo. C-A-Z-Z-O”
“Cazzo dici?” mi fa uno dei sei.
“Non capite un cazzo”, faccio io.
“Che cazzo dovremmo capire, cazzo?”, fa un altro, in un’ormai insopportabile loop della parola cazzo.
“Ma è un evidente messaggio subliminale, dai! Tipo quelli che inseriscono nei film della Disney tra un fotogramma e l’altro, massì, non sapete proprio niente… oppure simboli fallici manifesti, dai, tipo la rupe del Re Leone che se la guardi bene è un enorme cazzo e le mamme al cinema si eccitano ed escono dalla sala e comperano il triplo dei pop corn che avrebbero voluto e…”
“Ora però basta, cazzo! Sta iniziando”, dice uno degli altri sei
“Cazzo, inizia! Cazzo!”, conferma un altro
“Ecco – dico io – vedete che il cazzo vi ha già suggestionato e…”
“Basta con quelle scritte in sovrimpressione, basta, BASTA!”. A., in piena trance agononistica, se la prende con Mediaset Premium: la partita è iniziata da soli 10 secondi e il clima è insopportabile. In più, nei primi minuti la Juve se la prende con il Real e sul terrazzo cala un preoccupato silenzio.
“E’ finita, è finita, argh!” fa uno dei gufi già in crisi nervosa, valutando il posto migliore del terrazzo da cui buttarsi senza speranza di sopravvivere. Il disfattismo sta ormai calando di brutto sull’intero terrazzo quando Cristiano Ronaldo la mette.
“Gaaaaaaaaaaaaaa”.
Sette gufi si abbracciano come bambini dell’asilo, però pesanti tipo 80 chili. Infatti io avverto una fitta all’emitorace sinistro, dove sento distintamente sbriciolarsi quattro costole, forse cinque.
Al che mi rivolgo al Barone: “Ti spiace se chiamo il 118? Non è tanto per le costole, ma vorrei essere sicuro che non ci siano perforazioni al polmone”
“No, non è previsto dal protocollo. Puoi chiamare solo dopo le 23”.
Nel mentre Mandzukic, con una rovesciata a caso, pareggia.
“Argh! E’ finita!”, piagnucola uno del G7 prefigurandosi una vita di stenti dall’indomani. Una leggera brezza spira intanto a fasi alterne nella serata oltrepadana, facendo oscillare la temperatura sul terrazzo tra i 27 e i 5 gradi. Dopo essersi tolto e rimesso la felpa per 17 volte, un gufo della tribuna laterale decide di seguire il resto della partita a torso nudo. Dopo tre minuti chiede però al padrone di casa:
“Ho un principio di assideramento e una prostatite di quarto grado. Posso andare a mingere con urgenza nel tuo bagno?”
“Solo nell’intervallo”.
“Ma mancano 20 minuti”.
“Non mi cagare il cazzo e siediti”.
La tensione si taglia con il coltello e si stempera sono nel’intervallo, quando tre o quattro gufi svuotano la vescica e altri la riempiono con una nuova birretta gufa. Le cose peraltro nella ripresa si mettono progressivamente meglio.
“Gaaaaaaaaa”
“Casemirooooo!”
“L’hanno deviataaaaaa!”
“Meglio ancoraaaaaa!”
La gufata continua in un crescendo rossiniano. Al quarto gol, stremati, esultiamo con misura. Siamo pervasi da una tranquillità innaturale che cerchiamo di trascinare fino al 90′.
“Giuro, non avrei mai detto che…”
“Cazzo, stai zitto! Non è finita! Cazzo!”
“Ma mancano due minuti e sono sotto di tre gol e…”
“Si gufa fino al triplice fischio, sant’iddio”.
Al triplice fischio, diligentemente, parte la festa. Arrivano altri gufi in pellegrinaggio da paesi limitrofi. Il terazzo di trasforma in una Terrazza Martini dalla gufata galattica. Spumante a fiumi, torte, abbracci, baci, inni alla gioia. Si torna gradatamente alla normalità. Si va a pisciare senza chiedere permesso, si parla anche d’altro.
A. batte una forchettina di plastica su un bicchiere di cristallo di Boemia del 1700.
“No, volevo dirvi che per strada un giorno ho visto Laura Barriales”.
” E quindi?”
“No, è una figa esagerata. Niente, tutto qua”.
E si mette a piangere in un angolo del terrazzo mentre noi bridiamo al Real, all’Uefa e alla prossima stagione che speriamo ricca di tante soddisfazioni.

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Tifare contro: il dibattito più ipocrita che ci sia


Alla concatenazione di eventi della serata di sabato 3 giugno (finale Juve-Real, caos  in piazza San Carlo a Torino, attacco terroristico a Londra) è seguita una concatenazione di commenti sui social che ha confuso, intrecciato e – curiosamente – bilanciato quanto ad acredine i tre tipi umani bersagli dell’ondata di sdegno: 1) i pezzi di merda dell’Isis che uccidono persone inermi; 2) i subumani che provocano il panico in una piazza stipata all’inverosimile e gestita alla cazzo da presunti umani;  3) gli italiani molto stronzi che hanno tifato contro la Juve che, poverina, ha perso senza appello la sua ennesima finale.
Trattasi, come è evidente, di due questioni molto serie e di una poco seria. Non c’è nulla di comparabile alla morte e al terrore di Londra, così come non c’è nulla di triste come una festa collettiva che si trasforma in una notte di paura. Si potrebbe archiviare quindi il punto numero 3 per evitare inutili sprechi di attenzione e di energia intellettuale. Però anche no. Non avendo  ricette contro il terrorismo internazionale di stampo islamista, nè contro il panico indotto o la stupidità imposta, il punto 3 è in realtà l’unico su cui si può discutere con un fine nobile: abbattere un muro di ipocrisia che Trump, al confronto, maneggia Lego.
Massì, certo: la questione del tifo contro la Juve è ovviamente e clamorosamente secondaria rispetto a cose ben più importanti e profonde, ma riesce a sprizzare una tale insopportabilità da assumere una sua valenza. E’ una questione, diciamolo, patetica, molto patetica, incastonata com’è in un dibattito tra persone che, per quanto intellettualmente disoneste (parlo dei tifosi, me compreso), sono pur sempre adulte.
Affrontiamola per gradi.
Fair play. “Il fair play, il fair play!”. Il fair play non c’entra un emerito cazzo. Stiamo parlando di tifo, la cosa più lontana dal fair play che si possa concepire. Il fair play è un’altra cosa: è stringere la mano all’avversario alla fine della partita, è concedere un punto dubbio, è non approfittare di una condizione di vantaggio, è riconoscere la sconfitta, eccetera eccetera. Non è tifare per una squadra che non è la tua: ma dove sta scritta una robaccia del genere, chi se l’è inventata? Ognuno tifa per sè fino alla morte, poi se si è persone civili si fa il terzo tempo. Il 28 novembre 2004, in possesso di due abbonamenti in tribuna arancio gentilmente prestati, ho invitato a un’Inter-Juve non uno dei cento interisti a cui avrei potuto dirlo ma un mio amico d’infanzia juventino. Abbiamo riso, smoccolato, esultato, commentato, smadonnato e deriso l’altro per 90 minuti di una partita finita 2-2, in uno spicchio di stadio molto interista in cui la sciarpa bianconera del mio amico stonava un casino, ma tutti quelli che ci erano attorno sono diventati complici del nostro clima assai disteso. Una bella serata (no dico, era il 2004, la Juve si comprava le partite!) in cui io tifavo Inter alla morte e il mio amico tifava Juve alla morte, e poi  siamo usciti enumerando i mille motivi per i quali ognuno dei due avrebbe voluto/dovuto vincere e infine ci siamo abbracciati alla fermata del tram.  Questo è fair play. Se il mio amico avesse finto di tifare Inter (o io di tifare Juve) non sarebbe stato fair play, sarebbe stata una merda. Il tifo e il fair play non c’entrano un cazzo.
Tifosi. Un altro doveroso distinguo personale. Io tifo contro la Juve, ma  non ce l’ho con i tifosi della Juve. Oddio, certo, compatisco i negazionisti, conto fino a cento quando sento volare cifre assai inesatte riguardo gli scudetti vinti, alzo gli occhi al cielo di fronte a certe banalità o falsità. Ma sono tifosi (vedi paragrafo precedente) e non posso farci niente, e molto probabilmente loro pensano la stessa cosa di me e quando mi sentono parlare dell’Inter si sentono morire dentro. Con estrema sincerità, anzi, dico che ho invidiato l’ultimo mese dei tifosi juventini. Un mese trascorso a vincere campionati e coppe, a preparare la trasferta di Champions, cercare i biglietti per Cardiff, partire con i mezzi più astrusi e con i chilometraggi più incredibili, allestire gruppi d’ascolto, comprare bandiere, birre e salamelle. Mi sono rivisto sette anni fa, in un mese vissuto paro paro, e sì, li ho invidiati, perchè arrivare a giocarsi una finale di Champions è, come dire?, molto bello. Non ce l’ho con i tifosi della Juve. Non ce l’ho tanto più dopo aver visto quello che è successo a Torino, in una piazza dove si va a fare festa e si rischia la vita. Il tifo comunque è questo, prendere o lasciare. Se lo prendi, lasci che tifino anche gli altri, nei limiti del codice penale.
Juve (giocatori della). Sempre io, per esempio, non ce l’ho nemmeno con i giocatori della Juve. Oddio, certo, non appenderei mai nella mia cameretta una loro foto, e non seguo con particolare afflato le loro prestazioni. Ma li ammiro in senso oggettivo, riconosco il loro valore di singoli e di squadra, mi faccio una ragione tecnica e umana del fatto che siano arrivati trenta punti avanti i miei giocatori preferiti, quei fantasmini con la maglia nera e blu. Mastico calcio e mi pregio di un minimo di obiettività critica: non dico mica che Gabigol vale Dybala, o che Palacio vale Higuain, o che Nagatomo vale Dani Alves. Mostrarmi la foto di  giocatori della Juve è come presentarsi da un vampiro con in mano un mazzo d’aglio, lo ammetto, ma non ce l’ho affatto con loro, se non per i banali motivi legati a quella orribile maglia optical che indossano.
Libertà di coscienza. L’equazione “gioca una squadra italiana, quindi un italiano deve tifare per lei” è una cagata immane. No, perchè allora dovrei anche applaudire un discorso di Borghezio a Bruxelles, o una conferenza stampa di Cesare Battisti in Brasile. Cioè, spiegatemi: in quanto italiano sono obbligato a tifare Juve? Ma per favore! Facciamo che, al limite, si lascia libertà di coscienza. Sei interista (milanista, romanista, albinoleffista), giocano Juve-Real, ecco, fai come ti pare. E lascia che io faccia come pare a me e non mi rompere i coglioni. Io odio una squadra italiana tutto l’anno (la Juve, per dire) e nella serata clou della stagione all’improvviso mi bevo il cervello e mi avvolgo in un bandierone  bianconero? Ma dai.
Tifo contro. Per concludere e per essere chiari fino alla fine (#finoallafine), io non ho tifato Real. Ho tifato contro la Juve. Il che, nel caso di Cardiff, ha comportato esultare ai gol del Real, di cui però mi frega assai meno della Juve. Non ho alcun interesse nei riguardi delle parabole umane e sportive di un Casemiro o di un Carbajal. Non me ne frega una cippa della loro duodecima. Piuttosto, ho sperato che la Juve perdesse. Ho fortemente, appassionatamente, incommensuarabilmente desiderato che la Juve perdesse. E qui, cari i miei ipocritoni, arriviamo al punto: perchè sono così malvagio (e con me qualche milionata di tifosi assortiti)? Andiamo al punto successivo.
Juve (Football club). Usciamo, vi prego, da questa ipocrisia buonisto-nazional-popolarista: il tifo contro esiste da quando c’è il tifo e non ci si deve affatto vergognare nè giustificare nè prendere pause dalla propria militanza. Io, interista, non pretendo che uno juventino tifi per noi anche solo una volta l’anno, e mi vergognerei (senza riuscire a giustificarmi) a tifare occasionalmente Juve, che trovo una cosa contro natura e contro la Storia. La Juve del calcioscommesse, la Juve del doping, la Juve del moggismo, la Juve di Ronaldo e Iuliano, la Juve dei 35 scudetti, la Juve (l’elenco prosegue all’infinito): e io dovrei tifare, anche solo per un’occasione speciale, questa roba qui? Questa roba che mi fa incazzare abbestia ogni volta che ci penso? Ma perchè? Comunque, oltre che in democrazia, ci muoviamo nel campo del futile: fate come vi pare. Ma piantiamola di fare i patetici, di invocare l’amor di patria, di dare patenti di menagramo, di impartire lezioni di sportività. Facciamo i tifosi tout court: siamo una sottocategoria dell’umanità, non diamoci più importanza di quella che abbiamo. Io tifo Inter e, ogni due anni, la Nazionale: il resto per me è un mare magnum di squadre che vorrei solo veder perdere. Soprattutto, savasandìr, quelle che giocano contro l’Inter. E poi soprattutto la Juve, sempre e comunque. Una società che da quando esiste prende per il culo il mondo e poi si aspetta che il mondo una notte di giugno la sostenga come nulla fosse. No dico, ma che gente è? E voi, che gente siete?

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Il marketing ai tempi del colera

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E’ più facile, secondo una consunta metafora, vendere un frigorifero agli esquimesi del Polo Nord, o un abbonamento alla nuova stagione dell’Inter a gente – cioè tutti noi – devastata dalle ultime sette orripilanti esibizioni, al culmine di una stagione che (fatto un meticoloso rapporto squadra/qualità/ambizioni/classifica reale) si è trasformata nel corso della primavera da “mezzo miracolo” a “peggior momento in assoluto dopo il Triplete?”
Il marketing ha le sue scadenze, indipendenti dagli sprofondi della squadra e dai suoi ammutinamenti morali, ma l’effetto di far partire la campagna abbonamenti subito dopo Genoa-Inter è stato decisamente comico. Schermata dopo schermata, un crescendo: “Rinnova e risparmia!” (sì, ma devo risparmiare proprio tanto tanto!), “I vantaggi di essere abbonato” (tipo: doverle vedere tutte?), “Abbonarsi è solo il calcio d’inizio” (magari…), “Acquista come vuoi, quando vuoi” (anche no?), fino al capolavoro d’umorismo dell’help desk: “Hai bisogno di aiuto? C’è una squadra qui per te”.
Dio mio, è terribile.
Battute a parte, il sincronismo non è stato dei migliori. E del resto è tutta una questione di tempi da rispettare. Che tu abbia battuto la Juve o perso con il Crotone, la campagna abbonamenti 2017/2018 deve pur partire. E così è stato. Con il freddo automatismo di un clic, con la noncuranza burocratica di una data fissata da chissà quanto, dopo un mese e mezzo di apocalisse l’Inter non si scusa ma rilancia: chiede ai suoi tifosi l’ennesima apertura di credito, l’ennesimo atto di sperticata fiducia.
Da un lato, verrebbe da pensare che dopo la fantastica serie Torino-Samp-Crotone-Milan-Fiorentina-Napoli-Genoa qualcuno l’abbonamento se lo sia masticato e ingoiato o l’abbia bruciato in un falò davanti a un gruppo di familiari e amici increduli. E verrebbe anche da pensare che forse, all’epoca, sarebbe stato più facile vendere vino dopo lo scandalo del metanolo, o carne dopo lo scoppio di Mucca pazza. Una sorta di marketing temerario, questa campagna abbonamenti.
Poi però succede qualcosa, e succede subito, nel giro di qualche ora. No, non prendiamo Messi. Ci limitiamo a esonerare l’allenatore – per il quinto cambio stagionale in panchina – e a ingaggiare un super ds di gruppo. E a diffondere, sollevando Pioli dall’incarico, un comunicato che termina così:
(…) La società inizierà fin da ora a lavorare in vista della prossima stagione sportiva.
Che è una frase potente, quasi rivoluzionaria, il vero claim della campagna abbonamenti. “Io mi sto preparando, è questa la novità”, cantava Dalla. Oh, anche l’Inter. Che – un’enorme novità – ci certifica che ben prima della metà di maggio sta lavorando per il futuro ormai alle porte. Al pensiero di cosa è successo lo scorso anno tra maggio e novembre, la sola prospettiva di partire con un’idea – una qualunque, purchè con contorni definiti – ci fa mettere in coda per il rinnovo, pensando che con la Samp vabbe’ può capitare, a Crotone è stato un approccio sbagliato, che la Fiorentina non è poi così male, che il Genoa era più motivato, che con il Napoli due ritocchi e siamo lì.
Perchè, anche se a volte è dura ammetterlo, lei ci fa girar come fossimo bambole. E noi sempre lì, come un mantra, a dire che l’amiamo. E ci abboniamo, cascasse il mondo o le perdessimo tutte (sì, tipo adesso).

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Non vi sopporto più


(…) E poi ci siamo noi che andiamo a Torino. Delle sette partite, forse la più difficile (o meno facile) tocca a noi. Ci arriviamo avendone vinte 11 delle ultime 13 e senza grandi alternative: in fondo, quella di non poter/dover fare calcoli può essere una situazione a suo modo virtuosa, se hai la giusta gradazione di palle. Appuntamento domani alle 18, l’orario più di merda che ci sia. (Venerdì 17 marzo, ore 13)
Mi verrebbe da dire “ma guarda come è stato lungimirante questo imbecille”, se non fosse che l’ho scritto io. Era la chiosa finale a un pezzo in cui dicevo che il 5-1 al Cagliari e il 7-1 all’Atalanta, a parte divertirci un tot, non erano serviti a un cazzo perchè – eccetto l’Atalanta, ovvio – avevano vinto anche tutte le altre. Il titolo del pezzo era “Se non vinci sei fottuto”. Era l’invito di un tifosotto – con un quinto posto da difendere e con qualche ulteriore prospettiva faticosa ma non impossibile, con una serie comunque strepitosa alle spalle e 10 partite ancora da giocare – a farsi poche seghe dopo due domeniche da sballo e a non mollare.
Il commento, sette giornate dopo, potrebbe ora limitarsi a un “muahahahahahaha” e bòn, chiudiamola qui, arrivederci al primo giorno di ritiro, o magari all’ultimo giorno di mercato (ecco, sì, meglio)
Ma un paio di giorni fa ho appreso da un’intervista di D’Ambrosio che proprio in quella partita lì, proprio in quel Torino-Inter di un sabato alle 18, l’Inter ha mollato. Ha mollato dopo una partita bruttarella ma che a confronto di Genoa-Inter sembrava un’esibizione degli Harlem Globetrotter. Ha mollato non dopo uno 0-5 in casa, ma dopo un 2-2 in trasferta. Ha mollato il 18 marzo quando il campionato finisce il 28 maggio. Ha mollato “perchè la Champions si è allontanata troppo”, poverini, ma c’erano ancora 27 punti in palio.
Dopo Torino, l’Inter ha fatto un punto in sei partite. Senza voler pretendere 18 punti, se solo ne avesse fatti 10, 8, anche 6 (cioè pochissimi) adesso sarebbe ancora in corsa per l’Europa League senza doversi macerare dopo ogni partita. Ma l’Inter, ci dice D’Ambrosio, aveva mollato.
L’intervista di D’Ambrosio fotografa la stagione dell’Inter meglio di qualsiasi analisi. Mi tocca anche, da tifosotto, ridurmi a pensare che noi gente normale non possiamo permetterci di mollare mai, mentre questi mammalucchi – che il più sfigato prende un milione l’anno -mollano noi (milioni di tifosi) e i datori di lavoro (che onorano contratti imbarazzanti) a due mesi dalla fine del campionato così, senza un perché. Un perchè che abbia un senso.
Al 2-2 di Torino sono seguite una partita da prenderli a sberle (Samp), una vergogna totale (Crotone), un derby regalato, una vergogna ancora più totale (Firenze), una partita da inferiori (Napoli) e infine la sconfitta con la squadra messa peggio in campionato, una squadra talmente messa male che l’allenatore una settimana fa aveva pianto in conferenza stampa confessando di non sapere più cosa fare.
Il mio solo rimpianto, oggi, è di non essere andato alla Snai. Forse anch’io, coglione tra i coglioni, speravo in un segnale. Che c’è stato, certo, in negativo, ancora in negativo: due mesi dopo averci fatto urlare al miracolo, siamo sprofondati nel ridicolo.
L’intervista di D’Ambrosio mi ha svelato quello che siamo oggi, un’accozzaglia di mezzi uomini che non sa più vincere una partita. Anzi no, peggio: che le partite – avendo mollato – non è nemmeno più interessata a vincerle.
Non sopporto più le interviste post partita di Pioli, le trovo grottesche. Non sopporto più la sufficienza (o il panico, è uguale) di giocatori come Candreva – la ferocia con cui ha calciato il rigore! – o del suo collega Perisic, cui forse basta abbozzare la solita finta di culo e il solito gioco di gambe (cui non abbocca più nessuno) per pensare di aver sfangato la giornata.
Non sopporto più la vista di Medel scherzato in difesa da chiunque, la modestia fisiologica di Eder, Gabigol che si scalda e non entra. Non sopporto più di dovermi accontentare che Kondogbia riconquisti un pallone (sulla fase 2 – farne qualcosa – resta da lavorare).

Non sopporto più la faccenda cerbiatto ma anche le finte facce da macho (Banega) o le vere facce da zuzzurellone (Brozovic). Non sopporto Nagatomo, Ansaldi e i loro cross sbilenchi (anche se il recordman dei cross di merda è Candreva, percentuale di successo 1 ogni 12 tentativi, a stare larghi). Da alcune domeniche, roba da matti, non sopporto più nemmeno Gagliardini, il nostro futuro, che meno di due mesi fa era la reicarnazione di Gerrard e adesso è un ragazzo che vaga per il campo con una scopa nel culo.

Questa per me è una pessima situazione, non mi piace scrivere queste cose nè mettere nero su bianco i miei mugugni da tifosotto frustrato. Ma è così che mi hanno ridotto, e mi sembra più nobile vomitare disappunto che mollare a 9 giornate dalla fine di un campionato.
Forza Inter. Ma non questa. Mai più questa.

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Calci in culo. In alternativa: tabella scudetto


No eh?, astenersi decoubertiniani e suffragette e pacifisti. Fa bene la societá a prendere provvedimenti contro la squadra e a sputtanarla con un comunicato scritto in collaborazione con Kim Jong-un. A parte che, santa madonna, questi imbecilli bisognerebbe prenderli tutti a calci in culo da Appiano Gentile a Nanchino. Ma la questione è un’altra e molto più terra a terra. Mancano ben cinque partite alla fine del campionato e la tensione nella squadra va tenuta alta perchè gli obiettivi sono ancora tutti possibili. Vediamo come.
Qualificazione Europa League.
L’Inter, pur facendo profondamente ca-ca-re da un mese e rotti, è ancora in grado di acciuffare la qualificazione alla competizione che abbiamo profondamente onorato nella prima parte di questa stagione. Possiamo arrivare quinti se
– vinciamo sempre
– il Milan non fa più di 12 punti
– l’Atalanta non fa più di 7 punti
e addirittura arrivare quarti se la Lazio non fa più di 6 punti.
Cioè, è praticamente fatta. Ma non finisce qui, uomini di poca fede.
Qualificazione preliminari Champion League
Non ingannino i 19 punti di distacco dalla Roma e i 15 dal Napoli. L’Inter può qualificarsi per i preliminari di Champions League se:
– vinciamo sempre
– il Milan non fa più di 12 punti
– l’Atalanta non fa più di 7 punti
– la Lazio non fa più di 6 punti
– il Napoli le perde tutte e lo battiamo 4-0 nello scontro diretto.
Ma attenzione.
Qualificazione diretta Champions League
L’Inter può ancora arrivare seconda se:
– vinciamo sempre
– il Milan non fa più di 12 punti
– l’Atalanta non fa più di 7 punti
– la Lazio non fa più di 6 punti
– il Napoli le perde tutte e lo battiamo 4-0 nello scontro diretto
– la Roma si ritira dal campionato oppure le perde tutte e viene penalizzata con effetto immediato di 2 punti per una qualsiasi cazzata che al momento, per scaramanzia, non precisiamo ma che sicuramente la Roma è in grado di fare.
Ma attenzione.
Scudetto
Non ingannino i 27 punti di distacco dalla Juve. La vittoria in campionato è ancora possibile se:
– vinciamo sempre
– il Milan non fa più di 12 punti
– l’Atalanta non fa più di 7 punti
– la Lazio non fa più di 6 punti
– il Napoli le perde tutte e lo battiamo 4-0 nello scontro diretto, e comunque per sicurezza viene penalizzato di un punto per dichiarazioni di De Laurentiis lesive dell’onorabilità di qualcuno  o per la mancanza di acqua calda nello spogliatoio degli arbitri al San Paolo (promemoria per Zanetti: contattare un idraulico compiacente in zona Napoli)
– la Roma si ritira dal campionato in solidarietá con Totti che si ritira, e viene penalizzata di 2 punti per essersi ritirata dal campionato per futili motivi, presenta ricorso ma lo ritira
– la Juventus per prepararsi al meglio per la Champions non si presenta alle ultime 5 partite e viene penalizzata ogni volta di 3 punti
– Vettel vince, o arriva secondo ed Hamilton arriva terzo, o arriva terzo ed Hamilton arriva quarto, o arriva quarto ed Hamilton arriva quinto
– che al mercato mio padre comprò.
Quindi, ragazzi, adesso andatevene in ritiro alla Cayenna e poi sguainate i coglioni. Tutto è ancora possibile, nonostante voi. Forza Inter, viva Suning, ok alle pene corporali, abbasso tutte le altre a parte la Juve (nel senso che per questo caso particolare il blando “abbasso” va rimpiazzato dal suffisso “merda”).

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Perdere a Crotone, quando si fa sera


Ci eravamo illusi? Beh, ne avevamo ben donde: dopo Napoli e fino alla sbornia con l’Atalanta, se la tua squadra su 13 partite ne vince 11 illudersi è concesso, anzi, è quasi un dovere. Se in condizioni del genere non ci si illude come bambini dell’asilo, santiddio, allora che gioco è? Allenatore nuovo, spirito nuovo, aria nuova e quanto ce n’è (o quanto ce n’era): 11 vinte su 13 è una media che firmeresti fino alla notte dei tempi (e nelle prime 10 di queste 13 partite abbiamo subito solo 3 gol, la sintesi di una macchina quasi perfetta). Il problema è che, guardando il calendario a ritroso, alla serie vincente se n’è via via sovrapposta una molto più mediocre di cui abbiamo tardato ad accorgerci. Noi ancora facevamo i calcoli dal dopo Napoli-Inter in poi, e invece l’Inter aveva già imboccato una strada declinante. Da Juve-Inter (compresa) a oggi, abbiamo fatto 13 punti in 9 partite. E’ una media da dodicesimo posto, quella che avevamo con De Boer. E’ una media che abbiamo cominciato a tenere proprio all’apice del nostro campionato, quando eravamo arrivati al quarto posto a un tiro di schioppo dalla Champions.
La sera della 22ima giornata, la classifica era questa: Juve 54, Roma 47, Napoli 45, Inter 42, Lazio 40, Milan 40, Atalanta 39, Fiorentina 37.
Prendiamo la classifica della 31ma, facciamo due sottrazioni con la calcolatrice del telefonino e scopriamo che in queste ultime nove giornate la Roma ha fatto 24 punti, la Juve 23, il Napoli 22, la Lazio e l’Atalanta 20 (dunque, 5 squadre hanno tenuto una media superiore ai 2 punti a partita), il Milan 17, la Fiorentina 15. L’Inter 13. Nove giornate in cui la Champions si è allontanata anni luce e in cui, per restare a obiettivi meno lisergici, abbiamo perso 7 punti da Lazio e Atalanta e 4 dal Milan. Fino ad arrivare alla classifica piagnucolosa di stasera, che ci vede settimi, fuori da tutto.
Bei tempi, quando ci si illudeva. Alzi la mano chi non si era illuso almeno un pochino. Io mi inebriavo di illusioni, sognavo il terzo posto – come minimo – e Icardi, Gagliardini e Gabigol sul podio del Pallone d’Oro. In un angolo del cervelletto avevo confinato i due grandi dubbi che nutrivo e che confidavo timidamente solo agli amici più cari, col risultato di sentirmi dare del menarogna:

  1. oggettivamente, tra tante vittorie non si poteva non notare che con le squadre più forti le prendevamo regolarmente (con Pioli, perso con Napoli, Juve, Roma e nel dentro/fuori con la Lazio in Coppa, in casa) e incontestabilmente, magari facendo buone partite ma senza abbreviare le distanze.
  2. soggettivamente, temevo che prima o poi avremmo pagato il conto dei primi 4 folli mesi della stagione, con i quattro allenatori, i casi umani, le tragedie di Europa League, i casting eccetera eccetera, non fosse altro per la fatica di stare continuamente in bilico sullo strapiombo, che se vinci è ok e se non vinci è un disastro epocale, concetto che mi è apparso ben chiaro la sera del 2-2 col Toro.

Ora, su cosa sia successo in queste ultime tre partite potremmo discutere per ore. Dopo i quattro mesi in bilico, è bastato mettere il piede in fallo un paio di volte di fila per crollare miseramente. Male a Torino, ma almeno con la forza di rimetterla in piedi. Malissimo con la Samp, vittimi della nostra supponenza, una supponenza irritante se rapportata alle intime certezze (zero) e al raggiungimento degli obiettivi (meno di zero). Epocalmente disastrosi a Crotone, contro una squadra che tre settimane fa era retrocessa, presi a pallate senza colpo ferire, un primo tempo da vergognarsi per generazioni.
Un disastro che coinvolge tutti i giocatori e l’allenatore, che ha perso completamente il controllo della situazione e al quale va la nostra compassione (non è facile restare in balìa di una rosa con un tasso di personalità del limite della decenza) ma fino a un certo punto (perchè ormai anche per lui è arrivata la resa dei conti, e i conti ora sono in rosso). Le scelte delle ultime due partite inquadrano impietosamente Pioli, così come impietosamente hanno inquadrato l’Inter.
Giocatori spremuti (Candreva), altri lontani dalla forma (Icardi, Perisic), altri in via di perdizione (Brozovic) o ormai persi almeno per questa stagione (Joao Mario) o per sempre (Gabigol), reparti planati dalla massima efficenza allo sbando (la difesa), fondamentali che in Lega Pro forse curano meglio (il cross)… Pioli e l’Inter si sono coalizzati per dare il peggio dopo aver vissuto, e averci fatto vivere, un inverno a tratti magico. Da qui in poi sono tutte finali per il quinto posto, con tutta la tristezza che questa frase porta con sè. Del resto le ultime due partite hanno detto tutto: questa Inter giustifica l’uso dell’atomica e Suning forse sta già muovendo la sua portaerei verso le acque di Appiano Gentile e corso Vittorio Emanuele.

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Se non vinci sei fottuto


Cosa ha fruttato all’Inter vincere due partite segnando 12 gol e bailando futbol? Non moltissimo. Hanno fatto contemporaneamente 6 punti anche Napoli e Lazio, purtroppo, anche senza segnare gol a carriolate e senza nemmeno troppo bailare. Dovremmo ringraziare la Juve (ovviamente col cazzo che la ringraziamo, era giusto per dire) se abbiamo distanziato il Milan di tre punti, mentre possiamo ringraziare un po’ la Fiorentina e molto noi stessi se l’Atalanta in queste due partite ha fatto un solo punto e quindi possiamo segnare un bel +5 nei confronti del Leicester italiano dell’allenatore più bravo del mondo. La morale però rimane sempre quella: in questo campionato spezzato in tre (le 7 davanti, le 10 in mezzo nel limbo, le ultime 3 con l’elettroencefalogramma piatto), gli scontri diretti valgono quintuplo e tutto il resto ha un valore molto vago: le devi vincere e probabilmente la tua vittoria vale zero, mentre se non le vinci sono cazzi.
L’ultima giornata con un po’ di pepe è stata la 22ima, era l’ultima domenica di gennaio e noi abbiamo pescato un jolly epocale: mentre a San Siro si vinceva in fin troppa scioltezza col Pescara, la Roma si suicidava a Genova con la Samp, la Lazio si faceva battere in casa dal Chievo e il Napoli pareggiava in casa col Palermo. Troppa grazia per noi, come aver tirato i dadi due volte mentre gli altri saltavano il turno.
Il problema è che poi, nelle successive sei giornate, non è più successo praticamente nulla.
Hanno mosso la classifica solo gli scontri diretti (e noi ne abbiamo persi due su tre) e – ripeto, in sei (6) giornate – solo tre (3) partite fuori dal giro degli scontri diretti sono andate totalmente o parzialmente contro pronostico: Milan-Samp 0-1, Atalanta-Fiorentina 0-0, Udinese-Juve 1-1. Tutte le altre partite, le prime sette della classifica le hanno vinte.
Ora, tra domani e domenica, per la prima volta nelle ultime sette giornate, non si giocheranno scontri diretti. Le prime sette della classifica affronteranno squadre della fascia “ok, scendiamo in campo perchè dobbiamo, magari ci divertiamo pure, ma in realtà non ce ne frega un emerito cazzo”.
Le partite non sono proprio tutte uguali, per carità. La Juve (ammesso che abbia ancora un senso guardare con interesse alle partite della Juve) va a Genova dalla Samp, probabilmente una delle 3-4 squadre più in forma del campionato: metti anche che non vinca, vabbe’, se lo può permettere. Il Napoli va a Empoli, una squadra che in teoria dovrebbe avere un po’ di pepe al culo ma che facendo 1 punto nelle ultime 7 partite ne conserva ancora 7 di vantaggio sulle terzultima (facendo un punto in 7 partite se ne è visti rimontare ben 4: la lotta per non retrocedere più moscia dalla creazione del calcio a oggi). La Lazio va a Cagliari contro una squadra che potrebbe fare tutto e il contrario di tutto, ma che di solito ne becca quattro o cinque e va bene così. Roma, Atalanta e Milan giocano in casa con Sassuolo, Pescara e Genoa: partite che la Snai avrà difficoltà a quotare.
E poi ci siamo noi che andiamo a Torino. Delle sette partite, forse la più difficile (o meno facile) tocca a noi. Ci arriviamo avendone vinte 11 delle ultime 13 e senza grandi alternative: in fondo, quella di non poter/dover fare calcoli può essere una situazione a suo modo virtuosa, se hai la giusta gradazione di palle. Appuntamento domani alle 18, l’orario più di merda che ci sia.

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Il lodo Bacca, ovvero: l'importanza di essere vestito bene


“Per avere, al termine della gara, nel recinto di giuoco, già sostituito ed in abiti civili, protestato in maniera plateale e veemente nei confronti di un Arbitro Addizionale, avvicinandosi con atteggiamento aggressivo nei confronti del medesimo, finché non veniva trattenuto ed allontanato a forza dai dirigenti e dall’allenatore della propria squadra”, Carlos Bacca (Ac Milan) è stato squalificato per una giornata (più multa di 10mila euro).
Apperò.
Scusa, proseguo. I dirigenti Adriano Galliani e Rocco Maiorino “per avere rivolto, al termine della gara, nell’area antistante gli spogliatoi, frasi offensive nei confronti dei tesserati della squadra avversaria”, sono stati ammoniti con diffida,  mentre la società pagherà un’ammenda di 5.000 euro “per avere omesso di impedire l’ingresso nel recinto di giuoco di un dirigente non inserito nella distinta di gara” (una roba da calcio minore, sono lì che gli tremano le palle per il closing e non mettono i dirigenti in distinta). E poi mettici, negli spogliatoi, lo sgabello sfasciato e i due scudetti imbrattati col pennarello, che non costituiscono materia per il giudice sportivo ma, come dire, aggiungono un po’ di colore a quello che è successo alla fine di Juve-Milan. Cioè, per dire.
Alla fine di Juve-Inter, dove si coglieva di sicuro un bel po’ di tensione ma nessuno cercava di aggredire nessuno nè di imbrattare scudetti virtuali, succedevano comunque cose che portavano all’espulsione al 49° minuto di Perisic (diciamolo, Ivan, una cazzata) e che causavano per il medesimo una squalifica di 2 giornate “per avere ripetutamente proferito espressioni gravemente irriguardose nei confronti del Direttore di gara”. Mauro Emanuel Icardi “per avere, al termine della gara, rivolto ad un Arbitro Addizionale un’espressione ingiuriosa accompagnata da gesti, nonché per avere calciato il pallone in direzione del Direttore di gara, senza colpirlo” veniva squalificato per 2 giornate, confermate in appello (mentre a Perisic ne veniva abbuonata una).
Ora, ci sarà sicuramente qualche sfumatura leguleia che renderà tutto questo legittimo agli occhi di qualche togato con la fissa del cavillo, ma a quelli di noi normali tifosotti?
No, perchè se queste due sentenze fanno giurisprudenza, il rapporto dei giocatori con gli arbitri, addizionali e non, assume contorni normativi del tutto inediti. Per esempio, volendo mandare affanculo in relativa tranquillità un addizionale, o addirittura fare un po’ di guapparia e tentare di aggredirlo, è meglio farsi sostituire, fare una doccia e mettersi gli abiti civili. A quel punto, tu torni in campo e puoi divertirti con il tuo addizionale preferito. “Ehi, quello mi ha mandato affanculo e voleva uccidermi a mani nude”, “Ma com’era vestito?”, “In abiti civili”, “Ah vabbe’, non ti incazzare”.
Perisic, al 49° del secondo tempo, in un’atmosfera non meno provocatoria – parlando del comportamento arbitrale -, manda affanculo l’arbitro (quello vero, non l’addizionale) ma senza avere l’accortezza di farsi sostituire – qui è evidente anche l’errore di Pioli: se un tuo giocatore vuole mandare affanculo un arbitro a caso, devi sostituirlo, non ci sono cazzi. Quindi, essendo ancora in campo negli undici effettivi, viene espulso. Cornuto, mazziato, squalificato. Negli spogliatoi, Perisic fa la doccia e si mette in abiti civili. Al che va da un dirigente e, sistemandosi il nodo della cravatta, gli chiede:
“Mi scusi, posso tornare in campo a mandare affanculo il primo arbitro che trovo, fosse anche l’addizionale?”
“Ivan, scusa, ma ci sono due ordini di problemi: hanno già spento i riflettori – no, dico, ci hai messo mezz’ora a fare la doccia, e chi sei, Kim Kardashan? – e poi non è ancora ben chiara questa faccenda del mandarsi affanculo dopo la doccia. Direi di aspettare che si verifichi un caso del genere, per poter avere un precedente. Non so se mi sono spiegato”.
Guarda caso, càpita ancora a Torino. Dove la figura dell’arbitro addizionale assume evidentemente un’importanza centrale (accanto a quella dell’arbitro titolare, ma non c’era bisogno di sottolinearlo). Tu puoi sfasciare gli spogliatoi o fare atti di onanismo o rubare le autoradio, ma lascia stare l’addizionale. E, soprattutto, controlla come sei vestito. Del tipo che anche Icardi non si era ancora cambiato mentre insultava l’addizionale e, nel contempo, cercava di colpire l’arbitro con una pallonata tipo al campetto.
“Ehi, chi è stato?”
(silenzio)
Tra l’altro, qui si apre un fronte piuttosto particolare e che avrebbe molto a che fare con l’essenza del calcio, se non fosse che ci mettiamo lì a fare gli azzeccagarbugli dei miei coglioni. Come mai non è stato premiato il gesto tecnico di Icardi, che insulta l’addizionale e tira una pallonata verso l’arbitro, quindi un classico no look? Ma qui, in Italia, nella patria della moda, si privilegia un aspetto puramente estetico (l’abito civile) a uno prettamente tecnico (insulto più pallonata no look, una sciccheria). Massì, andiamo avanti così. Poi lamentiamoci se ci sbattono fuori dai mondiali.
“Guarda che Icardi è argentino”.
Sì, ma io ne faccio una questione generale. Domani un bambino italiano cosa capirà di questa vicenda, cosa ne trarrà? Che qui non gliene frega un cazzo a nessuno nella sua bravura, ma se sei vestito in abiti civili va bene tutto.
E per concludere io credo che il punto stia tutto qui: che questa ridicola vicenda di doppiopesismo giuridico sportivo abbia una sola vera causa, l’insopportabile influenza della lobby degli abiti civili. E andatevene tutti affanculo.
“Anche l’addizionale?”
Massì, tanto sono vestito, cazzo me ne frega?

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