Scrivo questo post in quanto atleta (poco) agonista tesserato Fidal, categoria Master, tessera n. CH049899, quindi non rompetemi i coglioni (cioè, era per dare un contorno ben definito alla cosa)
Sabato, penultima giornata dei mondiali di atletica, il peggiore della storia azzurra come somma di ogni singolo risultato dei 36 atleti iscritti alle gare (un terzo e un sesto posto su strada, un solo finalista – decimo – in pista), con un occhio guardavo le gare e con l’altro mi dedicavo a una delle più interessanti letture sportive degli ultimi 10-15 anni. “Repubblica” dedicava mezza paginetta di intervista a tale Liz Nicholl, 65 anni, una tipica signora inglese col capello biondo e corto e con l’aria discretamente cazzuta. L’intervista, che è moooolto interessante per capire come vanno le cose nel mondo e come vanno invece in Italia, la potete leggere integralmente qui. Intanto sintetizzo.
La signora Nicholl è a capo di una società che in Italia non esiste e che invece, in Gran Bretagna, fa da tramite tra lo Stato e il Comitato olimpico nazionale. In soldoni: in Italia il finanziamento dello Stato va al Coni che poi lo destina alle varie federazioni; in Gran Bretagna è la Uk Sports (la società di cui la signora Nicholl è Ceo) a decidere a chi dare il finanziamento dello Stato prima che se ne occupi il Comitato olimpico, secondo un crudelissimo criterio meritocratico. Fai risultati, o mi garantisci di avere una più che ragionevole certezza di farne a breve? Ok, ti do i soldi. E comunque tranquillo che tra un annetto torno e vedo come li hai spesi, se sei migliorato, che risultati hai avuto, che gare hai fatto e come procede la tua preparazione in chiave olimpica. Non hai combinato una cippa? Arrivederci e grazie. Anzi no, ringraziami tu se non ti chiedo indietro i soldi.
Tutto questo perchè in Gran Bretagna si erano un pochino preoccupati dopo le disastrose Olimpiadi di Atlanta: un solo oro, 15 medaglie in tutto. No, dico: la Gran Bretagna. Roba da vergognarsi per secoli. E invece si sono vergognati giusto per qualche mese e poi sono passati alla fase pratica di ricostruzione di un movimento sportivo olimpico che aveva toccato il fondo. 12 anni dopo, Pechino 2008, la Gran Bretagna è quarta nel medagliere. 16 anni dopo, Londra 2012, la Gran Bretagna ospita le Olimpiadi e vince 65 medaglie, terza nel medagliere. Quattro anni dopo, a Rio, ne vince 67, seconda nel medagliere.
La signora Nicholl non guarda in faccia a nessuno: ha segato nazionali di sport altisonanti (volley e basket) perchè non facevano risultati, rischiando l’impopolarità ha segato addirittura nazionali paralimpiche (tipo quella di rugby) per lo stesso motivo e perchè non guarda in faccia a nessuno. Cito solo un interessante passo dell’intervista: “Non siamo un ente di beneficenza. Investiamo sul futuro e dove si vince. Finanziamo gli sport con soldi pubblici, quindi abbiamo una responsabilità. Non ci dobbiamo occupare di far fare movimento alla popolazione, ma della programmazione olimpica. Trattiamo con il governo, presentiamo un piano, otteniamo fondi – per Tokyo 2020 sono 385 milioni di euro – e li ridistribuiamo senza tanti giri inutili, a chilometro zero. Paghiamo direttamente gli atleti e forniamo loro tutto quello di cui hanno bisogno in termini di assistenza tecnica, logistica, medica. Ma entrare nel programma non è un matrimonio. Ognuno di loro è sottoposto a continua verifica. E se i risultati non sono in linea con le aspettative, escono dal programma. Noi non dobbiamo essere politicamente corretti o fare buone azioni, ma costruire una leadership sportiva. UK Sport è un organismo governativo, indipendente dal comitato olimpico britannico e dalle federazioni sportive. Noi non partiamo dalla base per andare alla ricerca del risultato, facciamo l’opposto, partiamo dal risultato, e mettiamo in campo tutto il necessario per sostenerlo. Altrimenti azzeriamo gli aiuti”.
Mentre mi innamoravo del decisionismo della signora Nicholl, ripensavo a nazioni meno farlocche della nostra, tipo la Francia che a Londra 2017 ha preso tre ori e uno, in particolare, con un ragazzo che negli 800 metri a un certo punto è andato in testa e non ce n’è stato per nessuno. O tipo la Norvegia, no dico, la Norvegia, che prende l’oro con un pazzo che nei 400 ostacoli parte come un forsennato, stacca tutti i neri e vince nello stupore generale, compreso il suo. 27 nazioni hanno vinto un oro, in pista ha vinto una medaglia anche la Siria: perchè noi no? Perchè noi mai?
Ecco, veniamo all’Italia e all’atletica in particolare, la regina degli sport olimpici. A noi, alle Olimpiadi, la scherma e il tiro salvano sempre il culo, ma negli altri sport andiamo un po’ a sbalzi e nell’atletica siamo all’anno zero. Ma non da Londra 2017, eh? Da decenni. Se togliamo la strada (marcia e maratona), sono vent’anni che facciamo letteralmente ridere. Restando ai Mondiali, l’ultimo oro in una corsa è del 1999 (Fabrizio Mori, 400 ostacoli), l’ultimo oro in pista è del 2003 (Gibilisco, asta), l’ultima medaglia in pista è del 2011 (Di Martino, alto femminile, bronzo). Negli ultimi 5 mondiali abbiamo vinto 4 medaglie (zero ori): oltre al bronzo della Di Martino, altri due dalla marcia (Rubino e Palmisano) e l’argento di Valeria Straneo nella maratona di Mosca 2013. Nell’intera storia dei mondiali (il primo fu nel 1983) abbiamo vinto solo 11 ori (gli Usa ne hanno vinti 10 solo la scorsa settimana), di cui 5 nella marcia.
Quest’anno abbiamo portato 36 atleti, di cui 29-30 senza alcuna speranza di medaglia, la metà senza nemmeno quella di andare in finale. In quattro hanno fatto il loro personale, sette o otto – loro compresi – hanno fatto il primato stagionale. Gli altri manco quello. Ho letto, dopo la fine dei Mondiali, le interviste al presidente della federazione e al commissario tecnico della nazionale. Si dimostrano delusi e preoccupati, promettono che da adesso si cambia davvero (cosa che mi sembra di avere già sentito nel corso degli ultimi lustri), che si ragionerà solo in proiezione dei grandi eventi, che cambierà la programmazione degli atleti, che saranno più seguiti, che si eviterà di farli allenare da soli o per telefono ecc. ecc.
Vabbe’, si vedrà. Magari hanno letto anche loro l’intervista alla signora Nicholl e una mezza ispirazione gli verrà. Intanto oggi questi siamo, un’accozzaglia di atleti volenterosi e mediamente non molto ambiziosi, sempre più melting pot, dove gli atleti militari (mantenuti da noi) vanno peggio dei non militari, dove gli atleti vecchi vanno meglio dei giovani (no, dico, ci si è lamentati dell’assenza di Fabrizio Donato nel triplo: ma figa, ha 41 anni!), dove l’intera squadra su pista è stata umiliata da Marco Lingua, il martellista, 39 anni, unico finalista delle spedizione, uno che è uscito dal gruppo della Finanza e si allena da solo in una società che ha il suo nome e dove è l’unico iscritto, fa i pesi sotto il portico di casa e i lanci nel campo di suo zio.
Dice il presidente della federazione: troppi ragazzi si accontentano di fare il minimo per le grandi manifestazioni e stop, come se l’obiettivo fosse raggiunto così. Vero, è una vergogna, una vergogna concettuale. Vai ai mondiali e manco fai il tuo primato stagionale: forse ha ragione la signora Nicholl, la prossima volta dai retta a me, bimbo, stai a casa e guardali dal divano. Ma il minimo non è il solo obiettivo di questi ragazzi. Ce n’è un altro, più subdolo, più irritante, più inutile: arrivati ai mondiali o agli europei, fare la propria gara, essere (di solito) eliminati e andare in zona mista a farsi intervistare da Elisabetta Caporale.
Qui va in scena un teatrino grottesco, dove questi ragazzi (e soprattutto le ragazze) si guardano nel monitor, si sistemano la chioma e partono con una sequela di giustificazioni del tutto irrilevanti e spesso puerili, in cui la frase chiave è “non so come mai” e poi chiedono se possono salutare a casa. Mi sono visto tutti i mondiali e questo schema – vado da Elisabetta Caporale, piagnucolo, mi scuso, saluto e me ne vado – l’ho visto mimino quaranta volte. Con rare eccezioni, tipo la Trost che ha definito la sua gara “non decorosa”, centrando in pieno la definizione. Ma la sincerità, nel medagliere, fa sempre zero. E comunque don’t worry, se hai fatto cagare c’è Elisabetta Caporale che ti garantisce il suo compatimento e la sua assoluzione: “Ti capisco”, “Abbiamo sofferto anche noi”, “Coraggio” eccetera eccetera, in un cameratismo psicoterapeutico che diventa fastidioso al secondo giorno di gara e al decimo ti costringe a fermarti appena prima di gettare il televisore in cortile urlando
“Bastaaaaa, mi avete rotto il cazzo, siete la rovina dell’Italia”!
In questo sprofondo tecnico e morale della nostra atletica leggera, mi sono così creato una mia intima convinzione: che a noi ci ha rovinato Elisabetta Caporale. E adesso sarà difficile togliermela. Io in Italia applicherei in toto il piano Nicholl a partire da domani mattina, ma eliminare la zona mista potrebbe essere un primo passo verso la rinascita di un movimento allo sbando.
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