Il Triplete è (anche) merito mio / 13

(prima che il calcio vero ci fagociti, ho ancora un po’ di cosucce in sospeso. Tipo tre storie di Triplete (anche) merito altrui che ci tengo a pubblicare una dopo l’altra. Il mio libretto intanto ha compiuto quattro mesi e si prende ancora la sue soddisfazioni: domani sera, venerdì 11 settembre, sarò in un luogo segreto e a un orario imprecisato a presentarlo – Covid, non è che l’hai sempre vinta tu, eh! -. E domenica 13 settembre, ore 23.30, se mamma Rai non ci ripensa – ne avrebbe tutti i diritti, mica sono Nick Hornby -, sarò ospite alla Domenica Sportiva. Praticamente, per me, come la Notte degli Oscar). (Intanto, vi lascio con Francesco) (e poi Federico).

di FRANCESCO D.

Vialetto della scuola, ali di studenti beffardi ai lati, tutti impegnati a urlare prese in giro al mio passaggio: aspettavano solo il mio arrivo, a quanto pare. Io, per non sentire, accelero sui pedali della bicicletta e alzo al massimo il volume del lettore cd. Lettore cd? Be’ sì, siamo negli anni 2000, io ero alle medie… per l’esattezza, era il 2002. Allora il giorno l’avrai già capito, vero? 6 maggio 2002, uno dei lunedì peggiori di sempre per un interista di qualunque età che vada al lavoro, a scuola, ovunque. Fu un giorno tremendo.

Insomma, mi presento, ho 32 anni, sono di Ferrara (non vorrei rubare ad altri la battuta su nebbia, nutrie eccetera, ma in effetti sono l’ennesimo ferrarese che ti scrive: si vede che c’è affinità!) e no, non tifo per la Spal. Sarà che nella mia famiglia di ferrarese non c’è neanche un’astina di DNA, ma per la Spal non provo che uno scialbo affetto distratto e occasionale: sono solo interista, interistissimo. Di quelli più duri, accaniti, intransigenti, che hanno difeso l’Inter anche quando era indifendibile, che si ricordano tutti gli aneddoti e i giocatori, dai più fenomenali ai più orrendi. E sì, ho voglia di contribuire con ciò che ricordo del Triplete!

Ma andiamo con ordine, e pur con qualche fitta torniamo al 2002. Niente, dovetti aspettare, io e tutti quelli che come me non avevano visto lo scudetto del 1989, erano ancora troppo piccoli per le coppe UEFA del ’91 e del ’94 e non gioirono che per quella del 1998. L’attesa ci porta al 2007: finalmente vinciamo lo scudetto sul campo. Quindi okay, risolto, lieto fine?

Macché! Chi di noi si è sentito veramente ripagato da quel campionato da record? O risarcito dal titolo a tavolino dell’anno precedente? Qualcuno forse sì, magari a ragione. Io personalmente no. Per me Calciopoli ha rovinato tutto, tutto, sia prima che dopo il 2006. Prima, sappiamo come; dopo, perché ha infangato e annacquato una vittoria che è parsa scontata, facile, regalata, «senza avversari» (già, perché dal 2013 a oggi di avversari quotati ce ne sono stati, hai voglia…), quando noi avremmo voluto vincere e meritato di vincere in un altro modo.

Poi, ecco il 2010. In quegli anni ero studente universitario e le mie finanze non mi permisero grosse trasferte, perciò i miei racconti non sono avventurosi come altri di questa rubrica: seguii le partite per lo più davanti alla televisione, con fratelli e amici interisti, e fu ugualmente straordinario. Da febbraio a maggio, dal Chelsea al Bayern, ma infiliamoci pure la Dinamo di novembre, i due derby, il gol di Samuel col Siena e sempre col Siena il giorno dello scudetto. Quel giorno – era il mio compleanno – ero in Portogallo e la partita la guardai a Lisbona, con mio fratello e altri amici, in un bar vicino al porto cui implorammo di trasmetterla. E a partita finita, tutti a cantare «José Mourinho – lalalalalàlla», proprio per le strade della
regione del Vate di Setúbal!

Fu un sogno. Quando tu (possiamo darci del tu, vero, tra noi…?) e tutti quelli che hanno scritto in queste settimane su Settore dite: «il Triplete è merito mio», credo che abbiate proprio ragione. In quel momento noi eravamo l’Inter, io ero l’Inter, io con amici e famigliari a incastrare impegni e metterci d’accordo per guardare ogni partita di quella spettacolare cavalcata, noi che arrivavamo con l’adrenalina a mille nell’ultimo trittico di partite Roma-Siena-Bayern (ma mettiamoci pure il 4-3 da brivido col Chievo) e stanchi quasi come fossimo stati in campo. Ero proprio io, proprio tu e chi ha scritto qui sopra: eravamo proprio noi! Milito che corre ed esulta agitando le braccia per me è tutto l’interismo che si scrolla di dosso il 2002, i sei gol presi nel derby, l’Helsingborg, l’Alavés, il Villareal, i vari Chievo e qualche Lazio qua e là a rovinare sempre tutto, Vampeta, Pacheco, Pirlo e Seedorf, Lippi, Ronaldo ingrato che se ne va e il sogno mai realizzato di vedere lui, Baggio e Vieri insieme in attacco. Zanetti che piange di gioia cancella lo Zanetti in lacrime per il doppio pareggio europeo col Milan di sette anni prima.

Il calcio avrebbe dovuto fermarsi lì, non c’era più nulla da dire! Invece da dire c’era, perché è continuato, di lì in poi abbiamo visto disastri in serie ma tutto sommato con voglia sempre rinnovata di una nuova stagione in cui riscattarci (Nick Hornby nel suo Fever Pitch – Febbre a 90° – dice qualcosa come: «Per fortuna c’è sempre un’altra stagione», o una roba simile: quanto è vero!). Ritrovarmi a urlare per l’incornata di Vecino a Roma, insieme a sette-otto persone assiepate nel salotto davanti alla tv a scaricare anni di troppe amarezze, mi ha ricordato quanto ci siamo divertiti nel 2010 e, nel contempo, mi ha confermato che il Triplete in fondo non serve. Guai se non ci fosse stato ma, con o senza, l’Inter ci sarebbe comunque, e tifarci è proprio bello. Lo capiranno mai, i tifosi delle altre due, che credendosi furbi dicono: «Ormai vi è rimasto solo il Triplete»?

Piccolo epilogo. Adesso insegno proprio nelle scuole medie e ogni tanto vedo tra gli alunni qualche astuccio, diario o zaino nero e blu e spero di riconoscere in qualcuno di loro – finora senza gran successo – lo stesso interista di belle speranze del 2002, che sia capace di aspettare e di innamorarsi quasi senza accorgersene della squadra più meravigliosa di tutte.


RUBRICHE CHE CONTINUANO. Piccola appendice anche di “Uomini che piacciono alle donne”. Federico mi manda la sua foto avvinto dalla lettura e mi scrive che mi darebbe minimo il Pulitzer: “Il libro l’ho letto di pari passo con l’Europa League e mi è piaciuto moltissimo e quasi quasi speravo che la lettura ci portasse al trionfo (solo le ultime pagine, quelle in memoriam mi hanno messo un po’ di magone, e mi sono chiesto se era giusto finire con un po’ di amaro una storia così esaltante: a noi interisti c’è sempre un qualcosa che ci impedisce di godere fino in fondo, anche nei libri)”. Dopodichè mi scrive dieci righe su Muntari e lo ringrazio: cioè, qualcuno vi ha mai scritto dieci righe su Muntari?

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Ricominciamo (‘nata vota)

Non era un sogno irraggiungibile. Era un obiettivo raggiungibile, da giocarsi ad armi pari con un avversario tosto. Considerazione che paro paro valeva anche per il Siviglia. E infatti alla fine ha deciso un piede mosso d’istinto, epilogo randomico di una partita spigolosa e non necessariamente bella come lo sono molte finali. Se Lukaku avesse messo il 3-2 in contropiede avremmo urlato a sfinimento e saremmo qui a fare festa senza pensare troppo all’estetica, anzi, forse saremmo ancora sul balcone con le birre e i tricche tracche. Invece Romelu – nella serata in cui eguaglia Ronaldo e allunga il suo record di gol in Europa League – fa il re Mida al contrario e decide (per il Siviglia) l’ultima partita stagionale, quella che ci avrebbe consentito di spolverare la bacheca dopo nove stagioni. Niente, ci sarà qualcosa di simbolico anche in questo: l’Uomo dell’anno diventa per un quarto d’ora un disastro ambulante. Ma ti possiamo solo dire grazie, Romelu, nient’altro.

Il Siviglia vince la sua sesta coppa in sei finali nell’arco di 14 anni, specialista Uefa/Europa League per eccellenza, e forse anche questo ha contato. Non si sono mai persi (noi sì), hanno gestito l’ansia e il nervosismo (noi meno): anche senza strafare potevamo vincere 5-4, abbiamo perso 3-2. E’ il calcio, la palla è rotonda, a volte una rovesciata alla cazzo ti finisce su un piede e vaffanculo.

Si potrebbe rimuginare per ore sulla partita, non fosse che Conte davanti ai microfoni si è lasciato andare alla seconda sparata contro la società nel giro di 20 giorni, stavolta andando anche oltre nei toni drammatici e nei temi. Ha parlato al passato, ha ringraziato, ha detto cose inequivocabili. Ha buttato lì tre o quattro questioni misteriose, qualche frase enigmatica ma inquietante (la famiglia, la famiglia!), e poi tanti saluti. La finale persa con il Siviglia è passata in archivio nel giro di un’ora. Potevamo fare ragionamenti sul giudizio definitivo da dare alla stagione, potevamo organizzarci mentalmente a ripartire da lì, da una finale persa ma pur sempre finale, aria che non respiravamo da un tot. E invece bòn, forse siamo già senza allenatore.

Conte ha aspettato di finire il campionato per fare la prima sparata, e poi di finire la coppa per fare la seconda, probabilmente anche se l’avessimo vinta. Saranno contenti gli anti-contiani e quelli che consideravano una sfregio avere assunto un ex gobbo. A me, in questo momento, deprime un po’ l’idea di dover ricominciare un’altra volta daccapo, o quasi. Al netto di questioni filosofico-sportive generali che rispetto ma non del tutto condivido, e al netto di un suo talebanismo professionale a volte dannoso, a Conte riconosco il merito di averci riportato a un livello decoroso: secondi in campionato e finalisti di Europa League, due cose che non lasceranno traccia negli albi d’oro ma che ci hanno riportato a calcisticamente a galla dopo anni di sprofondo. Adesso, dunque, si ricomincia? A che prezzo? E con chi?

Indietro non si torna, mi veniva da dire fino a un’ora fa. Secondi in campionato, finalisti in Europa League, semifinalisti in Coppa Italia: in mano non ci resta niente ma è una base importante. Adesso torna tutto in discussione. Tra pochi giorni si ricomincia, non c’è la solita estate di mezzo per rimettere insieme i cocci. Vado a dormire amareggiato per la coppa e preoccupato per il futuro. Ci credevo, sentivo che ci avremmo provato seriamente, la sentivo già mia. Sognavo Messi che comprava casa anche a Pavia, così, per starsene un po’ fuori dai coglioni. Neanche una nutria ai piedi del letto mi distrarrà dal fissare il soffitto nella penombra alla ricerca di un’illuminazione e di un perchè. Forza Inter (sospiro).

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Fino alla finale

In due mesi un concentrato di emozioni – le più diverse – che si solito sono contenute in una stagione intera. Il calcio del dopo lockdown è stato questo: irreale e poi quasi normale, avendo fatto il callo all’assenza di pubblico. Incredibile – nel senso di non credibile – e poi incredibile, in quel senso lì. Un tutto, persino troppo, dopo il vuoto assoluto. Due mesi che sembrano due anni, ma sono inconfutabilmente due mesi, 60 giorni, una manciata di settimane.

Due mesi e quattro giorni fa giocavamo un’altra semifinale, quasi impossibile, e mi ricordo – visto che poi l’impresa si era rivelata assolutamente possibile – l’incazzatura per avere rinunciato così a una finale di Coppa Italia contro la Juve, visto che di finali non ne giocavamo da 9 anni. Un mese e mezzo fa ero in Toscana sul cocuzzolo di un colle e mi sputtanavo metà dei giga mensili per vedere Inter-Bologna sul telefonino, in un climax al contrario che mi ha portato ad un passo dal lanciare il Samsung in un altoforno e dal disdire Dazn e lo stesso contratto telefonico fino alla settima generazione, per poi sparire e cibarmi di bacche. Meno di un mese fa giocavamo con la Fiorentina la partita della resa definitiva in campionato, uno 0-0 che – non accadde, ma solo per un eccesso di relax – consegnava lo scudo alla Juve con quattro giornate di anticipo, con la lista degli sprechi che ci faceva roteare gli zebedei a mille.

Proprio con la Fiorentina – alzi la mano chi ci avrebbe giocato 5 euro alla Snai – finiva un’Inter e ne iniziava un’altra. Era il 22 luglio. Del 2020, sì. Non sembra passato un pezzo? Vabbe’, quella sera di 27 giorni fa abbiamo spento la tv e ci siamo coricati guardando il soffitto e pensando che, per il terzo campionato di fila, saremmo probabilmente arrivati quarti. E invece tre vittorie di fila in campionato, secondo posto, miglior risultato dal 2011. E poi tre vittorie di fila in Europa League, finalissima. Non è meraviglioso?

Nelle 10 partite post Bologna (8 vinte e due pareggiate) mettici in mezzo la qualunque – partite ottime, partite discrete e partite demmerda -, compreso un clamoroso sfogo di Antonio Conte le cui conseguenze non sono ancora del tutto definite. Sta di fatto che, tirando le somme, la nostra stagione si protrarrà fino al 21 agosto (quasi un anno da quando era iniziata, Inter-Lecce 4-0, 26 agosto 2019) per giocarci una finale (non capitava da nove anni) europea (non capitava dal 2010, dal Triplete).

Ogni altra considerazione, prospettiva, previsione ecc. ecc. sarebbe in questo momento del tutto fuori luogo. E dire quanto siamo stati bravi buoni e belli contro il Botafogo Donetz potrebbe essere un onanismo a perdere. Fermiamoci qua e ricarichiamo per l’ultima volta le pile. A definire la stagione dell’Inter manca ancora una partita, e i bilanci si tireranno solo venerdì notte. Resta solo da fare una cosa: ringraziare i ragazzi per avere protratto le nostre emozioni fino al penultimo giorno disponibile e avvertire Christopher Nolan che questo tempo denso e compresso della stagione Covid meriterebbe una sceneggiatura delle sue.



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‘o Gufo e ‘o Lione

Nella settima stagione di onorata attività, ai Gufi è toccata un’esperienza nuova: la gufata d’agosto. Aduso a esperienze invernali, primaverili e tardo primaverili, con qualche raro e stravolgente sconfinamento a giugno, il manipolo di coraggiosi antijuventini si è così dato appuntamento nella prestigiosa location baronale con un dress code del tutto inedito: viveri, bermuda e ascella pezzata. Del resto l’impresa che aspettava gli intrepidi controtifatori era tra le più ardue: sopportare una temperatura di 92 gradi Fahrenheit e sostenere appassionatamente il Lione (settimo nel campionato francese, cioè una chiavica) contro la Ronalda, squadra in maglia bianconera composta da un allenatore a caso e dieci giocatori a caso, più Lui, l’Uomo che salta più in alto di Fosbury.

Le premesse non erano delle migliori. Del gruppo di soci fondatori, reduce dalla stepitosa serata del 2019 con l’Ajax, bruciava la prima storica rinuncia di Er Monezza, in vacanza nei mari del Sud. Così come il nostro cappellano, er Pagnolada, ci mandava una cartolina da una località lontana confidando nella nostra comprensione e assicurando la sua intercessione con l’Altissimo.

Rispondevano invece alla chiama del ct Er Pomata gli altri componenti del Bilderberg della gufata: Er Condominio, Er Quadricipite e il qui presente Er Blogghe. All’appuntamento si aggiungevano via via alcune vecchie conoscenze: i fratelli M., i Dalton dell’interismo, giunti dal Piacentino, e lo Scudiero der Condominio, giunto dal Comasco dopo lungo e periglioso viaggio.

Come i re Magi, ognuno porta un dono ar Pomata: io una torta, Er Condominio e lo Scudiero un paio di meloni, Er Quadricipite un vino trasportato in una curiosa borsa termica che lo fa assomigliare a Jesus Quintana del Grande Lebowski, e i Dalton quattro pizze che mettono sul tavolo e, intortando gli altri ospiti con aneddoti e valutazioni immobiliari, si mangiano praticamente da soli lodando il pizzaiolo, dicendo Juve merda e liberando un sonoro rutto finale in Dolby stereo.

Al fischio di inizio ci scheriamo intorno alla tv cercando le migliori posizioni scaramantiche. Er Pomata posiziona gufi in ogni angolo della sala e, custodito in un prezioso scrigno, porta a Er Quadricipite lo stuzzicadenti che aveva in bocca nel 2014, quando tutto iniziò (qui la storia completa delle gufate). Breve cerimonia di consegna. Si può iniziare.

Nell’aria c’è quella puerile serenità delle occasioni migliori: nessuno crede all’impresa del Lione, ma ci spera da morire. E così, quando un imprevisto allineamento di pianeti vede la Juve subire un rigore e il rigorista metterlo con un cucchiaio, nel salone delle festa scoppia, appunto, la festa.

“Gaaaaaaaaaaaaaa”

fanno i bimbi in coro, mentre Er Pomata comincia a urlare frasi sconnesse. Anzi, una frase sconnessa: “Er Cucchiaio, ahahahah, er Cucchiaio, ahahahah”, ripetuto in loop per una dozzina di minuti. Finchè, a metà del primo tempo, un primo piano del regista toglie l’uso della parola a Er Pomata.

Maxence Caqueret. Una strana creatura a metà tra Rodolfo Valentino e Attilio Fontana. Da tempo non si vedeva un uomo così pettinato in campo. Una cofana perfetta, chili di gel sparsi con sapienza. Er Pomata sprofonda in una crisi tipo invidia del pene. Continua ad alzarsi e ad andare in bagno a specchiarsi. “Non è possibile”, mormora accarezzandosi la chioma ed eseguendo alcuni ritocchi con un puntatore laser.

Quando torna al suo posto, in un atmosfera di lassismo generale, cede al nervosismo e perde il controllo: “Metti via quel cazzo di telefonino, tu al cesso ci vai quando te lo dico io, concentratevi!”. Quando il Divino sigla il pareggio trasformando il più orribilmente fantasioso dei rigori, sul salone cala una cappa di sana realismo. Ma la Juve, insomma, ne deve per sempre fare ancora due.

I 15 minuti di intervallo servono ai Dalton per affettare i due meloni, facendone sparire alcune fette. Ma nessuno mangia, il nervosismo monta e quando CR7 la mette dal limite lo spettro della remuntada inizia a incombere sulla variopinta compagnia. Però è la Juve che ci toglie dall’imbarazzo: con 30 minuti ancora a disposizione per fare qualsiasi cosa, ecco, non fa più un cazzo. Non c’è nemmeno gusto a gufare così. Ma alla fine, come rituale vuole, è festa, nonostante una Juve che non aveva bisogno di gufate. Non ci tradisce mai, ormai le siamo quasi affezionati.

(rumore di tuoni)

“Niente ragazzi, scusate, un pensiero così. Leviamo i calici, Juve merda!”, dico mentre riprendono le libagiorni. La gufata in epoca Covid ha così termine in un clima da festa delle medie. La nostra settima stagione finisce così, in gloria, come le precedenti sei. Albo d’oro: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real, 2018 Real, 2019 Ajax, 2020 Lione. Un pugno di uomini, una grande missione.


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(Far) away

COMUNICATO INTER FC.  La nuova divisa da trasferta di FC Internazionale Milano per la stagione 2020-21 presenta una reinterpretazione innovativa dello stile tradizionale del club. Dopo una stagione di trasferte in color acquamarina, l’Inter ritorna alla tradizionale maglia bianca, questa volta accompagnata da una nuova grafica a rete nerazzurra che rappresenta la community di Milano, che guarda al futuro della città e del Club con spirito aperto all’innovazione. Basandosi sul tema centrale della divisa Home del club, anche il kit da trasferta è “Made of Milano” ispirandosi al movimento post-modernista milanese, che negli anni ’80 ha cambiato il volto dell’arte e del design in tutto il mondo. La nuova maglia Away dell’Inter ha una base bianca con linee nere e blu che formano un motivo a rete che si estende sulla parte anteriore, posteriore e sulle maniche. Lo scollo a V della maglia è blu e nero con blocchi di colore che si sovrappongono al centro e nella parte posteriore, in corrispondenza della nuca. I pantaloncini bianchi completano il look insieme alle calze bianche con la scritta “Inter”. “Le linee alternate di nero e blu creano un’interpretazione davvero innovativa del tipico look da trasferta del club e ne confermano l’identità nerazzurra”, afferma Scott Munson – VP Nike Football Apparel. La nuova divisa Away di FC Internazionale Milano per la stagione 2020-21 sarà disponibile a partire dal 22 luglio su nike.com, store.inter.it e presso Nike Milano – Corso Vittorio Emanuele II e Inter Store Milano – Galleria Passarella 2. Dal 22 al 25 luglio la vendita della maglia sarà dedicata ai titolari di tessera Siamo Noi, abbonati, membri Inter Club e Nike members. A partire dal 25 luglio la vendita sarà invece libera.

TRADUZIONE DI SETTORE. No, dai, sinceri: preferivate il color acquamarina? Non vi sentite post-modernisti milanesi? Uh, che noiosi. Comunque non sono “quadri”, madonna quanto siete rozzi: si chiama “grafica a rete” e rappresenta – ma davvero non ci arrivate? – la community di Milano (sospiro). Vabbe’, l’importante è che dal 22 la comprate a palla di tuono. Ci rivediamo tra un annetto con un’altra reintepretazione innovativa. Ehi, chi ha detto prrrrrrrrrrrrrr?

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Uomini che piacciono alle donne (e viceversa) (e animali che piacciono a tutti) / 4 – Il Gran Finale

“Il Triplete è merito mio” è un libro di successo, questo è notorio. Nessuno però si sarebbe aspettato un’accoglienza trionfale anche nel mondo animale. Nelle foto, due esemplari bianconeri nell’aspetto ma, come si vede, di assoluta fede nerazzurra. A destra il gatto Cocò, a lettura appena ultimata. A sinistra il cane Sbirro, il cui proprietario nutre peraltro qualche sospetto: “Per farlo sedere e mettersi in posa ho dovuto dargli un biscotto, vuoi vedere che questo bastardo è un gobbo?”

Dai cani e gatti ai cavalli. A sinistra, eccomi mentre poso con l’amico A. durante una pausa del Grand Prix d’Amerique all’ippodromo di Vincennes, vicino a Parigi, dove sono stato invitato per una conferenza su “Forza Inter, Juve merda: criticità e prospettive”. A destra Massimo Cavalli, che aveva scritto qui la storia del suo Triplete. In piena trance agonistica, ne ha realizzato un altro acquistando tre copie del libro. E’ un tipo strano: ieri ha comprato tre biglietti per il cinema, ma poi ci è andato da solo.

Qui sfioriamo le vette del sublime. E’ il quadruplete dei B. Brothers.
A sinistra con il cappellino Enzo, ex podista poi ciclista ora cicloviaggiatore, presente a Madrid quel 22 maggio, abbonato da svariati anni e tuttora perso per José Mourinho (pare che se su Google digitate “Orgasmou” vi apparirà una prima pagina di Marca: indovinate chi regge lo striscione). Vuole andare in bici fino a Setubal e prostrarsi in avenida Special One. Sotto c’è Daniela, altra malata e abbonata nerazzurra, pure lei a Madrid ma in altra tragica circostanza: aprile 1985, è in viaggio di nozze e va al Bernabeu per quel Real-Inter in cui i galacticos de mierda ribaltano lo 0-2 dell’andata e ci fanno tre pere con Santillana e Michel. Poi c’è Roberto, podista tapascione, star del calcetto del venerdì, classe 1954, l’anno scorso ha tagliato il traguardo dei 50 anni di abbonamento ininterrotto, un eroe civile che andrebbe premiato minimo con l’Ambrogino di platino. Anche lui girando l’Italia in viaggio di nozze, nel 1983 passa da Cesena (campo neutro con San Siro squalificato) per assistere con la neo-sposa al ritorno di un 32esimo di Coppa Uefa fra Inter e Trabzonspor (2-0: Altobelli, Collovati) . Alessandro, quello giovane, è l’ultimo arrivato in famiglia, proprio nel 2010: è fidanzato della figlia di Enzo, che col cazzo gli avrebbe concesso la mano di Chiara se fosse stato un gobbo o un cacciavite. Eh no, eh?

Esercizi di fantasia. A sinistra, il caro G. si inventa la fascetta dei miei sogni (oh, se un giorno dovesse mai avverarsi, ti offrirò una birra nello skybox che mi sarò comprato al Meazza). A sinistra, D. mi scrive dalle Mauritius dicendo che il libro gli è piaciuto un casino (poi ho guardato bene la foto, potrebbe essere tipo Centocelle).

Opposte fazioni, ma con grande sportività. A sinistra Carlo, pugliese, interistissimo, non ci conosciamo ma è come se fossimo amici. A destra Andrea, marito a Patrizia, interistissima. Andrea è (rumore di tuoni) milanista ma, come lo definisce Patrizia, “obiettivo”. E’ una foto che gronda amore: io, per dire, se mi chiedessero di fare una foto con il libro di Chiellini, boh, non so.

Ale B. è citato nel capitolo di Inter-Chievo, dove ci incontrammo tra il primo e il secondo tempo. E’ un collezionista feticista di alto livello: mi ha messo sul tetto del mondo, praticamente. Cioè, guardate bene la foto. Dove cazzo avrà trovato tutto ‘sto bendiddio?

E rimanendo al capitolo di Inter-Chievo, tra gli incontri di quel festoso pomeriggio – tutti rigorosamente citati nel libro – c’è anche quello con Alessio. A sinistra, Alessio oggi con maglietta di Madrid e Triplete letterario. A destra – figata – la foto scattata 10 anni fa prima di Inter-Chievo, nell’esatto punto in cui ci siamo trovati: poco dopo questo scatto, io avrei imboccato le scale che vede dietro Alessio e mi sarei sentito chiamare “Settore!” da uno che non mi aveva mai visto. Cioè, poi ditemi che è brutto essere interisti.

Mi scrive Emanuele da Napoli: “Ciao Settore, finalmente dopo settimane sono riuscito posare le mani sulla copia ormai introvabile del tuo libro (dovresti secondo me fare delle ristampe con copertina in pelle di biscione, ecopelle, s’intende). Il racconto del mio triplete non è purtroppo epico ed emozionante, in genere andavo a casa di un amico e guardavamo la partita insieme, il problema però è che io e lui nello stesso posto portavamo una grandissima sfiga. Provammo a vederne qualcuna insieme durante il girone di Champions, ma visti i non incoraggianti risultati decidemmo di non vederci più fino a fine coppa. Quindi la finale la vidi a casa mia, da solo, con la TV rigorosamente a tubo catodico adornata di ogni santino disponibile in quel momento. Come si evince dalla foto allegata, oltre all’ovvia presenza della sciarpa c’erano 2 quadretti, uno con la formazione che vinse la Coppa Uefa ’98 e l’altra con il Capitano ancora nel fiore dei suoi anni; completa il tutto una tazza dell’Inter che nel contesto non aveva molto senso, ma più santini c’erano meglio era. Al triplice fischio ho urlato come un ossesso, sono uscito fuori al balcone scuotendo qualsiasi cosa avevo a portata di mano con le mie urla che si perdevano nel silenzio (vivo in campagna, e gli altri condomini del palazzo erano comprensibilmente indifferenti, essendo tifosi della squadra locale). Ti allego anche la mia foto con l’agognata copia del libro e la maglia di Cordoba (la mia preferita quando gioco a calcetto): il mio sguardo da reprimenda è dovuto proprio al fatto che ti sei appropriato della sua identità sulla copertina del libro, ma è così bella che per stavolta posso lasciar correre”. Iddio ti benedica, Emanuele. Per non coprire il tuo sguardo da reprimenda, non ti nascondo gli occhi. Se avessi problemi di privacy, ci rimetto mano. Se questo sguardo ti procurasse una scrittura a Hollywood, voglio il 15 per cento.

Chiudo con questa immagine, una medaglia al valore del mio interismo. S. mi perdonerà se gioco un po’ anche con lui. Gli lascio l’onore di chiudere questa carrellata di amici con la stessa piccola e scherzosa penitenza che ho imposto a (quasi) tutti gli altri, la pecetta sugli occhi. Chi è S.? Diciamo che ha firmato alcuni pezzi che sicuramente avrete fischiettato anche voi. Ehi, chi ha detto “Pazza Inter”? No no, cosucce andate anche a Sanremo. Tzè, l’interismo è un crogiuolo di qualità.

INFORMAZIONI DI SERVIZIO. Ricevo quintalate di mail (non è vero: una, forse due) e milioni di messaggi Whatsapp (non è vero: tre o quattro) sul tema “Oh, ma quando lo presenti?”. Non lo so, adesso vado in vacanza. Cioè, io sono pigro (infatti stavo così bene nel lockdown), ma se vi vengono strane idee in mente, se avete voglia di prendere iniziative, se avete una libreria, un circolo culturale, una biblioteca, una libreria, un centro massaggi cinese, fatemelo sapere a r.torti@gmail.com. Non so, faccio un esempio. Il proprietario del Forte Village vuole organizzare una presentazione, mi dice “Hai voglia di venire fin qua a parlare 20 minuti del libro? Ti riservo un bungalow sette stelle per 10 giorni”, cioè, magari potrei anche andarci. Comunque. Nella sua versione cartacea il libro è presente in libreria a Pavia e Voghera, le due città più importanti del mio piccolo mondo, e a Milano (vedi sopra, Libreria dello Sport), ed è in vendita on line su Ibs.it e anche su Libreria dello Sport, Libreria Universitaria, LaFeltrinelli e Unilibro. Poi c’è anche la versione eBook che è disponibile tipo su Ibs, Amazon, Mondadori Store, Kobo, Libreria Universitaria, Librerie.Coop, Hoepli, Il Libraccio, LaFeltrinelli, Rizzoli e siti del genere. Infine, è disponibile un’opzione simpaticamente old style, una roba dal volto umano: scrivere direttamente all’editore, giorgio.macellari@alice.it, e ricevere soddisfazione. Nel senso che Giorgio – uomo efficiente, paziente, onesto e interista – il libro cartaceo ve lo spedisce anche in un batter d’occhio direttamente al vostro domicilio (dietro pagamento, immagino. E’ il mercato, direbbe Keynes).

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E con lo zigo zago / tu m’hai rotto l’ago / m’hai ferito il cuore / mi farai morir

MILANO – FC Internazionale Milano e Nike presentano la nuova divisa Home del club. Il kit per la stagione 2020-21 si ispira agli elementi chiave della cultura e dei valori della città di Milano, attraverso una particolare reinterpretazione dello stile tradizionale del club. L’unicità dell’Inter è radicata nelle sue origini e si rispecchia anche nello spirito innovativo della città. Prendendo ispirazione dal movimento artistico degli anni ’80, la nuova divisa Home dell’Inter celebra la città di Milano attraverso un’estetica che simboleggia l’identità condivisa dal club e dalle persone che rappresenta. Il kit è ‘Made of Milano’ volendo rappresentare il senso di unità con il capoluogo lombardo e con le persone, parte di una grande community che condivide il senso di orgoglio per la città e il desiderio di innovazione. Il design della maglia riprende forme e colori caratteristici dello stile tribal-pop e reinterpreta le iconiche righe nerazzurre con onde e zig-zag. Sviluppandosi dalla parte superiore a quella inferiore della maglia, le spesse righe a zig-zag nerazzurre riprendono anche il Biscione, storico simbolo del club. La nuova maglia girocollo dell’Inter è caratterizzata da bande nere sui fianchi, con il logo del club e lo swoosh bianco posizionati sul petto. Pantaloncini neri e calze blu completano il kit, mentre la parola “Inter” è inserita sulle calze e all’interno della maglia. “Siamo sempre al lavoro per reinterpretare l’identità a strisce del club. Questa volta lo abbiamo fatto prendendo ispirazione da una delle principali correnti artistiche di Milano“ ha affermato Scott Munson, VP di Nike Football Apparel. “La grafica a zig-zag è alla base del design post-modernista ed è anche un richiamo al Biscione. Il risultato è un kit sorprendente che ben si combina con l’unicità del club.”
(comunicato Inter.it)

traduzione di Settore: “Ciao a tutti! Siete pronti? Siete caldi?? Come sapete, noi della Nike dobbiamo creare una maglia nuova ogni anno, così voi ve le comprate a nastro: si chiama marketing. Lo facciamo anche con le altre squadre, sure!, non ce l’abbiamo con voi! Però non è che con le strisce verticali nerazzurre possiamo inventarci chissà cosa, abbiate pazienza. Quest’anno vi prendete lo zig zag che simboleggia il senso di unità del (risa soffocate) in uno stile tribal-pop (risa ancora più soffocate) che muhahahahahahahah, no, scusate, ma buttare giù un comunicato credibile è quasi più difficile che disegnare una maglia. Vabbe’, tranquilli: nei prossimi anni alterneremo il disegno classico che vi piace tanto a qualche altro design post-modernista, tipo scacchi o righe diagonali o la maglia della Juve di quest’anno, ahahah, non vedo l’ora, voi no?? Del resto, siamo sempre al lavoro per reintepretare l’identità a strisce del club! (pernacchia dal fondo) Ehi, fuckin’ hell, chi è stato?”

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Parmageddon (anzi no)

Buonasera. Per chi non avesse seguito la partita, un breve riussunto emozionale (servizio offerto in esclusiva da Settoreinter.it).

Minuto 1-14: ma dai, cazzo, solito inizio un po’ così, ma che formazione è?, che flemma, no dai, non si può. Argh! Ecco, ha visto che gol che ha sbagliato Gervinho? Sveglia!

Minuto 15: gol di Gervinho. Argh! Ma li hai visti? Estate di merda. Non potevano assegnare il titolo con l’algoritmo del cazzo?

Minuto 16-68: no, non possiamo farcela. Davanti non la mettiamo, dietro facciamo schifo. Ma non avevamo la difesa più forte dell’universo? Adesso sembrano quei vecchietti che cerca “Chi l’ha visto?”, sai, quelli che non hanno la contezza di sè, come dice la Sciarelli. Ecco, merda!, era rigore ma l’alluce di Godin era in fuorigioco. L’alluce! Argh! Cornelius, hai visto cos’ha sbagliato? Dai, basta, datevi una mossa, non vi si può guardare.

Minuto 69: espulsione di Berni. No, ma fammi capire: due espulsioni in stagione? Senza giocare? Ma quanto prende Berni all’anno? Se rinasco, voglio essere Berni.

Minuto 70-80. Massì, Sanchez facciamo entrare al novantesimo, dai. Conte, basta, torna quello pre-Covid. Fai qualcosa, incàzzati, fai atti di luddismo in tribuna, dai un fottuto segnale a questi rubastipendi. Fai qualcosa. Cosa avete fatto durante il lockdown, tornei di burraco? Voglio morire ora, qui, sul divano, davanti alla tv. Così daranno la colpa a voi, sant’iddio, e ve la sarete meritata. Fate ca-ca-re. Arriveremo quinti, forse sesti. Guardiamoci alle spalle: meno male che abbiamo vinto lo scontro diretto con la Samp.

Minuto 81. Gol di De Vrij. Gaaaaaaaaa! Roba da matti.

Minuto 82-86. Cambi, proteste, espulsioni a sorpresa, bevute di acqua. Arbitro, recuperare!

Minuto 87. Gol di Bastoni. Gaaaaaaaaa! Banzai! Forza ragazzi! Arbitro, tempo!

Minuto 88-96. Arbitro tempo! Arbitro tempo! Arbitro tempo! Arbitro tempo! Arbitro tempo!

Minuto 97. Fine partita

Dopopartita. Stellini: “Abbiamo meritato”.

(fine)

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Due partite, un giramento di palle

Ieri sera, in suggestiva successione, ho assistito sul mio apparecchio televisivo agli incontri di giuoco calcio Inter-Sassuolo e Liverpool-Crystal Palace. Ok, chiaro, le due partite non erano esattamente sovrapponibili nè nelle motivazioni (per noi, restare aggrappati a una labile speranza di rientrare in corsa; per i Reds, vincere uno scudetto dopo 30 anni) nè, purtroppo, nell’impietoso raffronto tra le squadre in sè. Avendo visto le due partite da cima a fondo, tranne che per quel quarto d’ora in cui si sono sovrapposte, ecco, si è abbastanza sovrapposto il giramento di coglioni.

Parto dalla fine, cioè dalla partita di Anfield. Premier League, 31esima giornata. Il Liverpool ieri sera aveva 20 punti di vantaggio: doveva vincere per mettersi tranquillo stasera davanti alla tv, Chelsea-City, col City costretto a vincere sennò a Liverpool saranno fiumi di birra attesi per tre decenni. Tre giorni fa, la prima partita dei Reds dopo il lockdown era stato il derby con l’Everton, 0-0, con il City che rimonta due punti. Klopp fa un modestissimo turnover (in pratica toglie le tre riserve che aveva schierato: due che si sono infortunati, più Minamino) e mette in campo con il Crystal Palace del nostro caro Hodgson (nono in classifica, qualche assenza, poche ambizioni) praticamente la formazione tipo. Ricapitolando: 20 punti di vantaggio (insomma, se non lo vince stasera lo vincerà la prossima volta, o la prossima ancora, who cares?), stadio vuoto, voglia di un titolo atteso 30 anni, ok, ma tutt’altro che in pericolo. Beh, non so se l’avete vista anche voi: il Liverpool ha attaccato dal primo minuto all’ultimo, anche quando era in vantaggio 4-0. 74% possesso palla. 21 tiri in porta contro 3 (manco me li ricordo, Alisson giocava a Ruzzle col telefonino per ingannare il tempo). 6 corner a 0. A un certo punto Klopp a destra a posto di Alexander Arnold fa entrare un ragazzo di 19 anni, all’esordio in Premier, e poi uno di 17 a sinistra al posto di Manè. Niente, uguale: il Liverpool ha aggredito abbestia fino al 93′, l’arbitro fischia, tutti a casa belli sorridenti.

Mi è venuto da piangere.

Io avevo appena visto un’altra partita. Quella di una squadra, la mia, che ha subito tre gol ridicoli (e almeno un altro paio li poteva prendere con una difesa svagata e lenta come l’ho vista raramente) epperò poteva vincere senza problemi, avendo avuto due occasioni gigantesche (per quella di Gagliardini, in verità, non esiste un aggettivo adatto) per chiuderla sul 3-1 e sul 4-2 e avendole buttate miseramente nel cesso. Il ragazzo all’esordio in Premier, dopo un inizio timido, ha cominciato a sgroppare e a inserirsi che era una bellezza, tirando in porta tipo tre volte in venti minuti (uno dei tiri respinto con un miracolo). È lì che mi è apparso Gagliardini. “Eh dai, càpita”, potrebbe dirmi qualcuno. Una roba così io l’ho vista raramente, però può darsi che sia capitata, certo. Ma ho rivisto in questa azione surreale (così come nel successivo scavetto in contropiede di Candreva, invece di sfondare la rete come Gigi Riva) la stessa mollezza mentale e spirituale di Joao Mario che ha la palla per risolvere un derby a tre metri dalla porta e non ci si butta a corpo morto. Non so dove pensiamo di andare senza buttarci a corpo morto su qualche pallone, sull’avversario (in senso figurato), sulle partite, sugli obiettivi, su tutto.

Qui non si parla solo di uomini (servirebbe un tomo a parte). Certo, restando al Liverpool: lasciando stare le superstar, ci “basterebbero” Alexander Arnold, Robertson ed Henderson al posto di Candreva, Biraghi e Gagliardini non solo per battere 9-3 il Sassuolo, ma per essere in testa al campionato e vincere l’Europa League. Ma parlare a cazzo di uomini non è granchè produttivo. Parliamo, almeno, di testa. Dopo il lockdown ho visto l’Inter non-vincere a Napoli una partita che valeva la finale di Coppa con la Juve. Poi ho visto l’Inter fare venti minuti di futbol bailado con la Samp e cagarsi in mano per tutto il secondo tempo. Poi ho visto l’Inter risparmiare il Sassuolo e poi stendergli tappeti rossi manco fossero d’accordo. No, chiedo per un amico: così dove vogliamo andare?

E mi spiace dirlo, ma Conte oggi sta fallendo esattamente nel campo dove nei primi tre-quattro mesi di stagione era stato il fattore decisivo. Qui non contano gli stadi vuoti o la triste stranezza di questo calcio Covid, non contano il caldo e le zanzare (le condizioni sono uguali per tutti). Qui conta che la stagione è ricominciata e noi con la testa non ci siamo. Ieri l’Atalanta ha recuperato due gol alla Lazio e ha vinto 3-2. Noi con il Sassuolo abbiamo fatto una figura patetica ed è ora – lo dico a Conte – di tornare al vecchio e sempre valido metodo dei calci in culo. Altrimenti, con un po’ di impegno, proviamo ad arrivare quinti: entreremmo nella storia, dalla porta del retro.

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Mariolino

Nell’anno della mia iniziazione al calcio vero, quello di San Siro, avvenuta sui miei eternamente cari gradoni dei distinti dietro la porta (odierno primo blu), Mario Corso faceva parte di quei monumenti in maglia nerazzurra e pantaloncini neri che i miei zii trattavano con affetto e deferenza. La mia avventura interista iniziava nell’autunno del 1970, da un Milan-Inter 3-0 con esonero dell’allenatore, cioè non benissimo – ma da quel giorno partì la cavalcata verso lo scudetto, l’undicesimo. Quell’Inter di Invernizzi era un’appendice della Grande Inter che i miei zii avevano respirato a pieni polmoni, la formazione alternava leggende a forze fresche e nuovi arrivi. Vieri, Bellugi, Facchetti; Bedin, Giubertoni, Burgnich; Jair, Bertini, Boninsegna, Mazzola, Corso. Vincerà lo scudo, farà una finale di Coppa Campioni l’anno dopo contro la debordante Ajax di Cruijff, e declinerà fino al nuovo ciclo di Bersellini.

Mario Corso era il meno incasellabile di tutti. Ecco, sopra ho scritto la formazione in vecchio stile, mettendo i punti e virgola che ne scandivano la metrica non solo recitativa ma anche tecnica. I numeri di maglia, salvo rari casi, allora ti dicevano già tutto o quasi di qualsiasi squadra e qualsiasi giocatore. Ma Mariolino di sicuro non era, come voleva il suo 11, una semplice ala sinistra. Era un fantasista, una mina vagante, un uomo con un piede solo, ma che piede santiddio, che piede.

Fa impressione pensare che la prima volta che lo vidi – già piuttosto stempiato, i calzettoni abbassati, un fisico normale – aveva 28 anni. Ai miei occhi di bambino mi sarà apparso come uno di quei quarantenni ancora in forma che fanno i fenomeni al torneo dei bar di Voghera. Invece no, era ancora nel pieno della sua carriera. Aveva già vinto due Coppe dei Campioni (segnando il primo dei tre gol della mitica semifinale con il Liverpool) e due Intercontinentali (decidendo lui la seconda, infinita, ai supplementari della partita con l’Independiente nel ’64) e in quella stagione avrebbe vinto il suo quarto scudetto.

I miei zii lo adoravano, anche nelle sue pigrizie: “Guardalo guardalo, va a cercare l’ombra”, mi dicevano quando lo vedevano piazzarsi nella parte di campo non battuta dal sole del pomeriggio. Ne inventava sempre una. Ho visto dal vivo, dietro quella porta, una delle sue punizioni a foglia morta, era un’Inter-Torino nel 1972, vincemmo 2-0. Gol!, dissi io. I miei zii invece erano in delirio, tipo chessò, se avessero visto una punizione di Corso.

Per chi minimamente frequenta le serate degli Inter club, Mariolino Corso l’avrà incrociato di sicuro. Archiviata la sua carriera di allenatore mai davvero decollata, rientrato nei quadri societari, si era prestato con garbo e passione anche a questo ruolo di uomo-immagine, un pezzo della storia dell’Inter – uno dei pezzi più pregiati – che incontra il popolo nerazzurro. Ho anch’io un paio di foto con lui, forse un giorno troverò dove le ho scaricate. Ma mi piace ricordarlo un giorno a Torino, al vecchio Comunale. Inverno 1978, Juve-Inter, finirà 1-1, gol di Beppe Baresi e del Bonimba (per loro, mannaggia).

Ero con i miei zii e mio cugino, more solito. Siamo in tribuna, a un certo punto passa Mario Corso. No dico, Mario Corso! Rimaniamo impietriti, tranne mio zio Aldo che fa una cosa normalissima, d’istinto, gli dice “Ciao Mario” e Mario gli dice “Ciao”. Lo zio si gira verso di noi, aveva uno sguardo che avrei io oggi se incrociando Scarlett Johansson in Strada Nuova le dicessi “Ciao Scarlett” e lei mi rispondesse “Hello, very beautiful boy of this hugly mosquito’s city”. Io e Luca, mio cugino, ci guardiamo basiti: “Ma davvero gli ha dato del tu? A Corso?”. E niente, Mario, tocca dirti ciao anche stavolta, l’ultima. La foglia è morta.

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