Europei

Arrivo agli Europei di calcio (sport di cui avevo dimenticato l’esistenza) (o almeno, ci avevo provato) dopo essere passato dalle elezioni europee e dagli Europei di atletica. Cioè, è stato e sarà un periodo molto europeo. Ma ogni volta che si parla di Europa nello sport, a me vengono spontanei una specie di sospirone e un’alzata di spalle: vabbe’, mi dico, sono gli Europei, pazienza, facciamo finta che. Non so se è per l’età che avanza (si diventa malmostosi, non c’è un cazzo da fare) o perchè in un mondo sempre più globalizzato – cioè, pardonnez moi, in un mondo sempre più mondiale – l’Europa è solo una parte del tutto e quindi sempre più una provincia del mondo, ecco, vabbe’, tra Europa e mondo già mi sono incartato. Comunque ci siamo capiti: vabbe’, sono gli Europei, mica i Mondiali.

Prendiamo gli Europei di atletica, dove abbiamo fatto un’impresa epica sbriciolando ogni precedente record: 24 medaglie (10 d’oro) su 49 gare in totale, uno sballo totale, una squadra giovane, multietnica, simpatica, fortissima eccetera eccetera. Tutto bello, ma ogni volta a me parte un meccanismo (devo avere una app nel cervello, forse me l’hanno innestata quando ho fatto AstraZeneca, l’ho letto su internet) per cui, mentre il medagliato in questione fa il giro di campo con la bandiera e tutti lo applaudono e anch’io dovrei essere lì bello rilassato a gioire con lui, ecco, io sono già lì con la mia app cerebrale che fa la ponderazione:

“Ok, ma se fossero i Mondiali o le Olimpiadi?”

Eh, certo. Con il tempo della sua medaglia d’oro, Jacobs non arriva tra i primi sei a Parigi (o magari non va nemmeno in finale), sappiatelo. Con il tempo della sua finale d’argento, Tortu a Parigi non arriva nemmeno quinto in semifinale. Mezzofondisti e fondisti (Crippa e la fantastica Battocletti) dando il massimo arriveranno dietro uno stuolo di africani e africane, più altri extraeuropei fortissimi. Tamberi, Fabbri e Simonelli, ecco, questi sì che hanno fatto performance di livello mondiale e olimpico (sono primi o tra i primi tre del 2024, favoriti d’obbligo per il podio), i marciatori hanno sempre discrete chance, è tradizione. La 4×100 è di livello assoluto, ma in Europa vince facile: tra poco troverà Usa, Giamaica, Canada, Giappone ecc. ecc. e come andrà?

(gli Europei di atletica sono stati divertenti, c’era quel bel clima del giocare in casa, del fare gruppo. Il massimo della frustrazione sono gli Europei di nuoto, dove quasi sempre facciamo incetta di medaglie che a livello olimpico o mondiale diventeranno poco o nulla – d’altronde cos’è il nuoto, sport globalissimo come l’atletica, senza americani, australiani, brasiliani, cinesi? Cosè l’atletica senza americani, caraibici, africani, cinesi?)

E gli Europei di calcio, cosa sono?

Beh, qui potremmo parlarne per ore. Oppure potremmo dire che gli Europei di calcio sono i Mondiali senza “solo” Argentina e Brasile, o comunque un semi-Mondiale a cui manca un continente, l’America appunto (o almeno la sua metà Sud), perchè nonostante tutte le nostre attese – datate ormai decenni – da Africa e Asia arriva sempre troppo poco per considerarle vere interlocutrici. Però, insomma, la mia app cerebrale mi fa sempre considerare questa competizione un po’ zoppa di default. Europei di pallavolo: sì, ok, bello, ma gli Usa, il Brasile, la Cina, il Giappone, Cuba? Europei di basket: sì, ok, bello, ma gli Usa, il Brasile, l’Argentina, il Canada? Portorico? No, dico: Portorico?

“No scusa, Setto’, la finale dei Mondiali di basket l’anno scorso è stata Germania-Serbia”.

E lo so, certo. Forse mi rovina Elisabetta Caporale. Quando agli Europei di atletica o di nuoto il medagliato di turno va tutto tronfio a farsi intervistare da Elisabetta Caporale, io inizio a sudare freddo e dico tra me e me: “Perché lo illude? Perché?”. Il fatto che Elisabetta Caporale non segua il calcio non risolve la questione: quanto contano gli Europei di calcio? (vabbe’, ma chissenefrega. Viva l’Italia).


(per l’angolo Podcast, giunto all’episodio #70, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato, il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Anzi, no: per tre puntate – corrispondenti alle tre partite dell’Italia nel suo girone – parleremo appunto di Italia. Perché sarà un podcast molto europeo. Nella puntata #70 abbiamo dato le istruzioni)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Querce

Essere di proprietà di un fondo comporta anche questo: che quando il fondo nomina un presidente non può sceglierlo nell’elenco delle bandiere, delle vecchie glorie, dei nomi evocativi o delle personalità indipendenti. Non può fare una scelta sentimentale un fondo, orsù, ma dove l’avete mai visto? Sarebbe, diciamo così, come se un sceicco comprasse il Pavia per portarlo dall’Eccellenza alla Serie A e nominasse presidente il tesoriere della Pro loco o un poeta dialettale o un professore emerito ultranovantenne che una volta giocava a pallone. No, questi di Oaktree agiscono per schemi rigorosi, entrano nel cda (che ormai è il loro cda) con sei membri su dieci e con un atto elegante scelgono un presidente italiano ed espressione della precedente gestione. Scelgono, nella loro ottica, la soluzione migliore. Scelgono il migliore.

Ascolta “Un podcast in 3 puntate (minimo) – Plebisciti e albanesi che non lo erano” su Spreaker.

Per noi, in tutta questa ventata di novità, è un altro inedito: un dirigente operativissimo – e senza pedigree interista, anzi – che scala di un posto e va a sedersi a capotavola. Adesso è inutile stare qui a fare ragionamenti che vadano oltre chessò, dopodomani. Mi limiterei a festeggiare Giuseppe Marotta e ad aggiornare l’elenco dei presidenti della storia dell’Inter, che non sono mica tanti – Beppe è il decimo degli ultimi 82 anni, un italiano dopo due stranieri – e che dunque rappresentano per noi un significativo step di una storia che va avanti.

Per esempio: chi si preoccupava del vaticinio di Marotta – “tra due anni tono a occuparmi di giovani” – adesso sarà più propositivo, perché potrebbe essere un incarico che gli allunga la carriera a Milano (certo, se Oaktree non trova prima uno sceicco a cui venderci, convincendolo che l’Inter ha più prospettive del Pavia). Ma qualche nube già si addensa sui nostri poveri crani: se Marotta diventa presidente, vuol dire che (rumore di tuoni, fulmini, saette, trombe d’aria, bombe d’acqua, esplosioni nucleari) non si occuperà più di mercato?

Ascolta “Puntata di addio (?)” su Spreaker.

Qui debbo citare un noto scrittore, tra l’altro un bell’uomo (*), che ha appena curato l’aggiornamento di un libro sulla storia dell’Inter scrivendo i capitoli sul ventesimo scudetto, la seconda stella, Inzaghi, Lautaro e, appunto, Marotta. Il cui capitolo inizia così:

Dalla luce laterale di Caravaggio all’uovo di Cracco, dal Nessun dorma di Pavarotti alla trivela di Quaresma, la storia è piena di uomini più o meno famosi e delle loro più o meno famose specialità. E l’elenco andrà presto aggiornato, perché tra i moonwalk di Michael Jackson e i tagli di Fontana è giunta l’ora che trovino posto i parametri zero di Beppe Marotta, una lunga serie di piccoli capolavori tecnici e contabili che fanno dell’amministratore delegato dell’Inter un fuoriclasse al pari di quelli che in campo fanno trepidare i tifosi. (…)

Io non credo che a Marotta saranno tagliate le tube di Falloppio della sua autorevolezza, lungimiranza e creatività sul mercato, che in questi anni sono stati un valore aggiunto per l’Inter. Anche questo è un assett che Oaktree avrà cura di non svalutare. Marotta è contento, o almeno dice di esserlo. Ma l’aggettivo che più sottolineerei è “orgoglioso”, perchè è importante. “Desidero ringraziare Oaktree per la fiducia dimostrata nel darmi questa opportunità di lavorare al fianco loro e del Consiglio di Amministrazione. Questa nomina è un riconoscimento del fantastico lavoro svolto dalle molte persone che hanno gestito il Club negli ultimi tre anni. Sono orgoglioso di far parte dell’Inter e ribadisco il mio impegno nei confronti della Società”. Ecco, Marotta sarà anche un inatteso presidente dell’Inter. Sarà anche uno che nelle vita tutto avrebbe pensato tranne che diventare presidente dell’Inter (la presidenza non è un mero incarico dirigenziale, è un’altra cosa). L’importante è che ne sia orgoglioso, è un passaggio fondamentale.

Io spero che resti così, come nella foto in alto: non voglio vederlo alla prima della Scala, ma con il telefonino continuamente all’orecchio.

E il nostro nuovo cda? Insieme ai confermati Marotta e Antonello, e oltre agli indipendenti Marchetti e Carassai, entreranno nel CdA Alejandro Cano (Managing Director e Co-Head Europe per la strategia Global Opportunities di Oaktree), Katherine Ralph (Managing Director per la strategia Global Opportunities di Oaktree), Renato Meduri (Senior Vice President per la strategia Global Opportunities di Oaktree), Carlo Ligori (Associate per la strategia Global Opportunities di Oaktree), Delphine Nannan (Senior Vice President per l’ufficio di Oaktree in Lussemburgo) e Fausto Zanetton (AD di Tifosy Capital & Advisory). Ripongo il dizionario di inglese e comincio a pensare ad altro. Buon lavoro Oaktree, benvenuto tra noi Presidente.

(*) Roberto Torti (e altri), “Fc Inter – le storie. Nuova edizione Seconda stella”, ed. Hoepli, in libreria e on line.

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Come sono cunzato

Castellammare del Golfo (Tp), 24 maggio 2024

Solo una volta mi era capitato di essere in vacanza e lontano da casa nel giorno in cui succedeva una cosa molto importante per l’Inter. Era il 26 luglio 2006 e mi trovavo a Gressoney: ora di cena, le mie figlie sedute a tavola – sapete, quelle scene tenere tipo uccellini implumi nel nido che aspettano che il papà arrivi dal cielo con qualcosa da mangiare – stavo scolando la pasta quando il Tg3 mi informava che ci avevano assegnato lo scudetto, tolto come giusto che fosse alla banda Bassotti. Festeggiai così, molto sobriamente – mi stappai una birra, se non ricordo male. Vabbe’, era già tutto nell’aria, ma era un momento clamorosamente importante per almeno due motivi: 1) si ristabilivano alcune regole elementari nel vivere civile e sportivo, e 2) si vinceva uno scudetto dopo 17 anni. Poi c’era il problema del blog. Ero ancora nella fase anonimato assoluto, totale, familiari compresi. Per cui durante quella breve vacanza in montagna ogni tanto commettevo il reato di abbandono di minore: “Ragazze, vado al supermercato” e invece andavo nell’unico internet point del paesello a scrivere di getto i post e tornavo. “Scusa, non hai comprato niente?” “No, era chiuso per una valanga”, “Ma è il 26 luglio”, “Pare si sia staccato un iceberg dal ghiacciaio”, “Ah”.

Ascolta “Sarago” su Spreaker.

Stavolta succede un cataclisma societario del tutto inedito e io sono nella lontana Sicilia, che è una terra molto ospitale soprattutto se rapportata a Pavia, la città meno ospitale dell’emisfero boreale, dove l’ultimo sorriso di una commessa di un negozio è stato registrato nel secolo scorso, durante il primo governo Prodi. Qui invece il ristoratore più musone ti racconta la sua vita e ti offre un liquore fatto in casa a fine cena, un evento che a Pavia risale al 1976 (e probabilmente il ristoratore era siciliano). E siccome queste vacanze fuori stagione sono un piccolo lusso – meno casino, meno caldo, meno code – me le sto godendo. Nel momento in cui era chiaro che Zhang non avrebbe restituito quei tipo 400 milioni a Oaktree e che Oaktree si sarebbe tenuto l’Inter – l’Inter! la mia Inter! -, io ero a San Vito lo Capo, una località che tra qualche settimana sarà una specie di Gallipoli siciliana ma che adesso è a misura di uno schizzinoso come me, e siccome stavo alternando brevi bagni in una delle acque più limpide mai viste a brevi merende a base di pane cunzato, quando ho letto sullo smartphone le ultime news mi sono messo a sedere sul bagnasciuga e ho detto:

“Minchia”.

Nelle ultime ore, la situazione non è migliorata. Non ho capito un cazzo del comunicato ufficiale, una roba che ci vuole un master alla Bocconi e io ho fatto il classico a Voghera. Le conseguenze mi sono invece chiare, ma a me questi di Oaktree potrebbero anche stare simpatici se manterranno quello che promettono. Mi provoca un sussulto interiore parlare di Inter come di un asset, ma va bene così: cari ‘mericani, tenete alto il più possibile il valore del vostro asset, noi siamo solo contenti.

Ascolta “Il podcast siete voi! (letteralmente)” su Spreaker.

Cosa si prova a essere di proprietà di un fondo? Cosa ci succederà di preciso nei prossimi mesi? Io sono fiducioso. Credo sia l’ultimo bicchierino di marsala homemade al profumo di carruba, ma sono fiducioso. Quanto a Zhang, la stranezza di questo calcio moderno ci costringe a salutare frettolosamente un presidente che ha portato in bacheca lo stesso numero di trofei di Moratti padre (anche se non dello stesso peso) ed è secondo nella nostra storia solo a Moratti figlio. L’era cinese poteva essere meravigliosa ma l’incanto è durato poco, per i noti motivi. Ma gli Zhang hanno onorato l’impegno con l’Inter riportandoci ai massimi livelli. Non potevamo continuare così, questo era chiaro. Il futuro è tutto da scrivere, ma siamo in buone mani – parlo della liquidità, della solidità, anche se gestire prestigiose società di calcio non rientra nelle loro strette competenze.

Comunque, finchè sono in Sicilia posso far finta che non sia successo niente. Guardare attonito il soffitto sarà la mia prima occupazione al ritorno a Pavia. Adesso sono sereno: niente Gazza e solo pane cunzato, non potete capire che razza di sciccheria è.


(per l’angolo Podcast, giunto all’episodio #66, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato, il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Cioè, tifate Inter, avete venti scudetti e due stelle, siete di proprietà di un fondo: avrete un sacco di argomenti, no?)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Ci riuscirebbe anche uno juventino)

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Péngschtméindeg

I debiti mi angosciano. Mi ricordo ancora di quella volta che sono andato nel negozio di una nota catena specializzata in elettronica. Obiettivo: comprare il mio primo televisore senza tubo catodico (quindi cosa sarà passato? 15 anni, 20 anni?). Guardo quelli in esposizione, scelgo quello che fa al caso mio per prezzo, numero di pollici, caratteristiche tecniche, anche il colore del profilo. Estraggo la carta di credito ma l’addetta mi ferma con risoluta gentilezza:

“Facciamo il finanziamento”.

“Ma no, dai, pago subito”, faccio io con un fare un po’ alla Briatore.

“No, è in vendita con il finanziamento”

“Vabbe’, ma io glielo pago subito e bòn”, faccio io con un fare un po’ alla Gianluca Vacchi.

“No, è in vendita solo con il finanziamento”.

Mi indica il cartello e realizzo la cosa. Tra l’altro, erano finanziamenti a tasso zero e tutt’ora, a distanza di anni, faccio fatica a capire l’operazione. Me ne andai a casa con il mio televisore piatto con schermo a led, del peso di 15 tonnellate nonostante le contenute dimensioni, e con 12 comodi bollettini con cui pagarlo. Comodi un cazzo, perchè mi toccò andare 12 volte in posta per una cifra ridicola (stiamo parlando di un’epoca in cui o pagavi così o ti arrivava la guardia civile a casa) e ogni volta che tornavo a casa mi veniva voglia di prendere a calci ‘sto televisore di merda, senonchè mi si sarebbe aperta la prospettiva di comprarne uno nuovo con un altro finanziamento, e mi sarei suicidato ingoiando i bollettini. Dopo aver pagato il dodicesimo, volevo dare una festa affittando il castello di Pavia, ma ho soprasseduto. Ricevo tutt’oggi lettere pubblicitarie dall’azienda del finanziamento, anche questa notissima (ah ecco, certo, ho capito l’operazione).

Ascolta “A Cannes siamo o non siamo Allegri?” su Spreaker.

Vabbe’, volevo parlare dell’Inter e dei suoi debiti girandoci un po’ attorno. Da un lato, la presenza dei debiti nel mondo del calcio è nota ai tifosi di qualsiasi latitudine, ordine e grado. Tutti, dal City all’Asd Penarol (squadra di Pinarolo Po, terza categoria pavese), sappiamo di muoverci su una specie di lago ghiacciato: sì, ok, ci dicono di stare tranquilli, ma fino a un certo punto. Dall’altro, che prima o poi questi debiti sia necessario onorarli resta un concetto un po’ più vago. La parola magica è rifinanziamento, cioè altri debiti che ti consentono di tirare avanti ancora un po’ (applicato al mio televisore: invece di pagarlo 1.000 euro in un anno lo pago 4.000 euro in quattro anni. Beh, buono no?) (No). Una volta c’era Moratti che si presentava all’assemblea degli azionisti e appianava tutto. Bei tempi. Non funziona più così da quando non c’è più lui, quindi da un po’.

Per dire: voi eravate sereni in assoluto? Nel bearvi della meravigliosa contabilità marottiana – fare mercati clamorosi in autosussistenza – non pensavate mai, proprio mai, allo sprofondo che comunque c’è dietro? O al fatto che il vostro amato e simpatico presidente manca dall’Italia ormai da quasi un anno e ha celebrato lo scudetto con un video invece che facendosi innaffiare di champagne sul pullman scoperto?

Debbo confessare che a me non dispiace – se non sono io che ci metto il culo, ovvio – procedere un po’ verso l’ignoto. Per esempio: non è fantastico che siamo tutti qui a celebrare la Péngschtméindeg, cioè la Pentecoste, che in Lussemburgo è festa nazionale (cade lunedì 20 maggio quest’anno) e che allungherà così di 24 ore le trattative tra Zhang, Suning e Oaktree magari consentendo di trovare una quadra? La vita ci riserva sempre snodi meravigliosi. Poi chissà, boh. Martedì sera o mercoledì potremmo essere ancora tutti qui agli ordini di Zhang. Oppure potremmo essere diventati proprietà di un fondo, com’è già successo al Milan – mai prendere troppo per il culo gli altri, non si sa mai. Un fondo che si ritroverà in mano un oggetto di grande valore, l’Inter, e quindi se ne occuperà perchè è prezioso e perchè non si deprezzi, non c’è dubbio. E poi lo venderà al miglior offerente, per ricavarne il più possibile. Magari a uno sceicco che finanzia Hamas ma ci prende Bellingham, Foden e Brambilla (è il centravanti dell’Asd Penarol).

Quindi non moriremo tutti, nè ci iscriveremo alla terza categoria (per quanto la trasferta di Pinarolo Po già mi attizzava parecchio). I nostri nemici non si libereranno mai di noi. Ripartiremo per vincere lo scudetto. Però prepariamoci a qualche cambiamento e a qualche notte insonne, a fissare il soffitto. In ogni caso, l’Inter rimarrà sempre l’Inter. Non saranno cinesi in remoto o speculatori all’assalto a toglierci questi colori dal cuore. E Juve e Milan merda, comunque.

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Quale valore

La Juventus comunica di avere sollevato Massimiliano Allegri dall’incarico di allenatore della Prima Squadra maschile. L’esonero fa seguito a taluni comportamenti tenuti durante e dopo la finale di Coppa Italia che la società ha ritenuto non compatibili con i valori della Juventus e con il comportamento che deve tenere chi la rappresenta. Si conclude un periodo di collaborazione, iniziato nel 2014, ripartito nel 2021 e terminato dopo le ultime 3 stagioni insieme con la Finale di Coppa Italia. La società augura a Massimiliano Allegri buona fortuna per i suoi progetti futuri.

Il comunicato della Juve, in un italiano un po’ intorcinato, contiene un passaggio misterioso che l’intera galassia non-Juve avrà colto sin dal primo istante: quali sono i valori della Juventus con cui Allegri si è dimostrato incompatibile? Cioè, la Juve ha dei valori?

Ascolta “A Cannes siamo o non siamo Allegri?” su Spreaker.

Per un po’ mi sono scervellato, poi mi sono arreso. Ore a pensare a questa cosa dei valori e, giuro, non me n’è venuto in mente nessuno. A quel punto sono andato su Google e ho digitato “valori morali: esempi”. Ecco la risposta:

In senso generale possiamo identificare alcuni valori personali che le persone ritengono più importanti nella loro vita. Ad esempio: l’amore, la giustizia, la famiglia, la correttezza, l’onestà, la trasparenza, la competenza, l’entusiasmo, l’umorismo, il rispetto.

Ho spuntato subito correttezza, onestà, trasparenza, rispetto, giustizia (vabbe’, Google non ha colpa: ho fatto una ricerca generica). Resta la famiglia, vabbe’, diciamo che per loro può essere un valore, certo. L’entusiasmo, beh, chi non ce l’ha? Poi rimane l’umorismo. No, non fanno ridere. Quindi i loro valori sono la famiglia e l’entusiasmo – questo, almeno, secondo una sommaria ricerca su Google.

Ascolta “Frosinon Eurovision Song Obelisc” su Spreaker.

No, non sono convinto. Mi affido quindi alla intelligenza artificiale. Vado su Perplexity e chiedo: “Quali valori rappresenta la Juventus?”

Perplexity scrive:

La Juventus rappresenta valori come rispetto, condivisione e inclusione sociale[3][5]. Il club mira a promuovere questi valori attraverso il calcio, raggiungendo i suoi stakeholder a livello globale[3].

Alcuni dei principali valori della Juventus includono:

– Rispetto, fair play e dignità nel vincere e perdere[4]

– Sviluppo dei giovani calciatori non solo a livello fisico ma anche mentale ed educativo[4] 

Combinazione del glorioso passato del club con obiettivi innovativi[4]

Impatto positivo sulla società, specialmente attraverso progetti come Juventus Goals che coinvolgono migliaia di studenti[5]

In sintesi, la Juventus si impegna a trasmettere valori positivi attraverso il calcio, contribuendo allo sviluppo dei giovani e della società nel suo complesso[3][4][5].

Fonti: Transfermarkt, Juventus.com

Praticamente, la Juve è così priva di valori da aver ingannato anche l’intelligenza artificiale: i valori della Juve li decide la Juve stessa. Anche Hitler sicuramente si descriveva come una persona di valore. La mia solidarietà ad Allegri, un wrestler con dei valori: anche noi, come lui, non siamo in linea con i valori della Juve. E benvenuto a mister Montero, un allenatore di valore con dei valori. E viva Bice Valori, un’attrice mai abbastanza rimpianta.

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Cecchini

A un certo punto ho iniziato a empatizzare con il Frosinone, la città di Frosinone, il Frusinate e per estensione con l’intero Lazio, esclusa Roma. Perchè infierire così? (spoiler: infieriamo così perchè fate cagare). Per la serie “Partite che possono capitare solo nei finali di stagione dopo che hai vinto lo scudetto con un mese di anticipo”, dopo l’orribile Sassuolo-Inter ci è toccata anche questa bizzarra Frosinone-Inter, le cui statistiche saranno oggetto di studio da parte dell’Iffhs e di qualche centro studi di antropologia criminale. L’Inter risulta aver subito 15 tiri (cioè, tipo che il City ce ne aveva fatti 5 o 6), molti di più di quelli fatti, 11. E già questa cosa non ci era accaduta spesso in stagione. In più, gli avversari hanno tirato 9 volte in porta contro le nostre 5. Come sia successo che abbiamo vinto 5-0 noi, cioè facendo gol a ogni tiro in porta (mentre il povero Frosinone faceva uno 0 su 9, che nel basket avrebbe previsto la gogna davanti al palazzetto), boh, non lo so e non me lo voglio necessariamente spiegare. Sono quelle cose che vanno lasciate lì, sospese, un po’ eteree, tipo l’esistenza di Babbo Natale.

Ascolta “Frosinon Eurovision Song Obelisc” su Spreaker.

Nel corso del secondo tempo, le telecamere indugiavano sul pubblico e inquadravano gente triste del Frosinone. Bambini, ragazzi, qualche anziano. Ci volevano far passare per gente crudele che infieriva sul corpo dei poveri ragazzi in maglia gialla, ma noi che colpa abbiamo? Cioè, il secondo tempo del Frosinone è stato scandaloso. Con l’assistenza di Thuram, avrei segnato anch’io in contropiede. Magari il gol del 6-0, con la gente allo stadio e a casa che si chiedeva “ma quello lì chi cazzo è? uno svincolato?”. E io sarei andato a esultare verso la panchina, da Sanchez, per dirgli che è proprio vero amigo, i campioni sono così.

Mentre scrivo, in basso a sinistra mi compare la data odierna – 11 maggio – ancora troppo prematura per la qualunque cosa. La partita di ieri sera mi ha riconciliato con il calcio, ma solo perchè l’abbiamo vinta. La rinconciliazione durerà ancora qualche ora, poi puff, svanirà. Ma del calcio non ne posso più. Non si può vincere lo scudetto al 22 di aprile e poi non avere più niente in ballo, non è serio. Fateci fare un Birra Moretti con il Real, un trofeo Berlusconi con il Milan, un Villar Perosa contro Juve A e Juve B tutte insieme, 11 contro 22, vaffanculo, non ci sono problemi. E’ dura andare avanti così.

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Arbitro, tempo!

L’anno scorso abbiamo giocato fino al 10 giugno – bei tempi, cazzo. Dopo Istanbul ci sono stati due o tre giorni di decompressione e poi era già mercato. Non abbiamo avuto tempi morti, diciamo così. Tutta Inter in purezza. Quest’anno abbiamo vinto lo scudetto con cinque giornate di anticipo, poco dopo la metà di aprile (e virtualmente era già vinto da un mese e mezzo), poi abbiamo occupato ancora qualche giorno per la festa. Poi basta, è finita davvero. Purtroppo dobbiamo ancora giocare. Dico purtroppo perchè quando non c’è nulla in palio, non può essere la stessa cosa. Non lo è quasi mai. Un mesetto fa, per dire, mi sono imbattuto sulla diretta Netflix del super-mega-iper match del secolo, l’esibizione Nadal-Alcaraz. Una merda colossale, c’era quell’aria di finto che è insopportabile quando si tratta di sport. Se è finto, non lo si guarda.

Allora, è chiaro che questa squadra che ci ha fatto sballare per nove mesi adesso, per ragioni molto umane, non può giocare queste ultime partite con la concentrazione dei mesi scorsi. Oggettivamente, non è possibile. Chiederglielo sarebbe sciocco, oppure mobbing. Non c’è più energia, non c’è più motivazione. Più che turnover, Inzaghi dovrebbe fare selezione: prendere gli undici che hanno ancora gamba e voglia e mettere in campo una formazione acconcia ai suoi schemi. Sul resto, non possiamo aspettarci molto e non dobbiamo nemmeno arrabbiarci: speriamo che maggio passi in fretta e poi tutti in vacanza, come meritano. Grazie ragazzi, in eterno.

Ascolta “Ceramiche e stretching” su Spreaker.

Ora, aver perso con il Sassuolo, sempre per rimanere a fatti oggettivi, fa girare alquanto i coglioni. Questa aria da ultimi giorni di scuola – quando dici “prof, vado in bagno” e torni due ore dopo mentre i tuoi compagni sono interrogati per recuperare un 5 e mezzo – non dovrebbe aver ragione di esistere in un alcune circostanze, tipo se i tuoi avversari sono la Juve, il Milan, il Real, il City, il Sassuolo. Robe che se si salvassero grazie ai 6 punti che hanno fatto con noi, porca troia, ci sarebbe davvero da incazzarsi. Ma al di là di questa paturnia sassuolese, me ne vado a letto facendo ooooommmmmm e facendo i tifo per il mese di giugno, che arrivi in fretta. Sarò tranquillo solo quando vedrò i ragazzi prendere l’aereo per le Maldive e scomparire per un mesetto. Chi deve rinnovare, rinnovi. Chi deve ritoccare, ritocchi. Vi aspetto in giornate migliori, con le menti riposate e due stelle sulla maglia. Adesso è tutto un tirare a campare che, rapportato ai nove mesi precedenti, fa venire quel sonno malato che ti danno gli antistaminici quando sbagli a contare le gocce.

(per l’angolo Podcast, giunto all’episodio #62, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato, il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Cioè, tifate Inter, avete venti scudetti e due stelle: avrete un sacco di argomenti, no?)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. Meritate di vedere in loop Sassuolo-Inter fino all’Ascensione)

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Due dubbi, due destini

Il dubbio è una condizione mentale, nota sin dall’antichità, per la quale si cessa di credere a una certezza, o con cui si mette in discussione una verità o un enunciato.

(tranquilli, ho fatto il solito copincolla da Wikipedia. Se alla maturità fosse uscita filosofia, probabilmente non sarei qui)

“Secondo te Lautaro diventerà un campione?” “No, non credo”. Ricordo perfettamente la domanda e la mia risposta, anche se non ricordo chi me l’ha fatta. Comunque era tipo il 2019 o max inizio 2020, fine Spalletti o primi mesi del Conte 1, Lautaro era arrivato da poco, a me sembrava troppo piccolo e troppo acerbo, anche se aveva fame e si era inserito bene, con ambizione, senza timidezza. Però, però, però.

“Ma Inzaghi, secondo te?” “Eh, lasciamo stare”. Questa invece è tipo del primo trimestre 2023, l’epoca del “avete perso” “eh ma se la sbloccavamo era tutt’altra partita”, o del “Lukaku sbaglia tanto” “eh, ma se ne segnava due adesso eravamo tutti qui a dire grande Lukaku”. Iniziavo seriamente a provare un po’ di insofferenza, il mister mi sembrava fuori fase, la squadra mi sembrava fuori fuoco. Tre-quattro mesi dopo, a momenti vincevamo la Champions.

Ascolta “È qui la festa?” su Spreaker.

Non mi dispiace nutrire dubbi – anzi, Socrate e Hume sarebbero fieri di me. E non mi dispiace dire di aver cannato giudizi, o di averne espressi di troppo prematuri, se poi essere smentito sottintende anche una piccola o grande felicità, come vincere uno scudetto (Lautaro due, nel frattempo) o fare incetta di trofei o diventare una squadra che esprime bellezza. Sono felice di essere smentito dai fatti quando la smentita è positiva, positivissima, magari trionfale.

Il mio distratto vaticinio – “no, non credo” – adesso fa sorridere, per primo me. Ma vorrei conoscerlo quello che avrebbe scommesso la casa sull’esplosione di Lautaro. Un po’ avevo ragione io, in fondo: non era pronto, non poteva esserlo. Si trovò titolare a metà stagione durante lo sciopero bianco di Icardi, una bella occasione ma anche un compito improbo. Dopo, è stata una lenta, progressiva, inesorabile, esaltante crescita. Un pezzo alla volta. Un pezzo ogni volta. In sei stagioni all’Inter, è cresciuto sempre un po’, arrivando all’odierno valore che ormai è elevatissimo. Chissà se ha ancora margini. Magari sì. Quello che ha fatto e che ha avuto, è tutto meritato. E’ anche uno splendido capitano, il migliore del dopo Zanetti dopo il timido Ranocchia, il narciso Icardi e l’impalbabile Handanovic. E’ un capitano col numero 10, con la faccia cazzuta, con l’orgoglio per la maglia, con il gradimento dello spogliatoio. E’ diventato un campione, alla faccia mia.

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Simone Inzaghi l’abbiamo catalogato come quello delle partite secche, perchè a) è piuttosto vero e b) aveva perso un campionato praticamente vinto, e quindi doveva pagare questo peccato originale di un primo anno all’Inter in cui non ha fatto tutto il possibile, resuscitando il Milan. Nel secondo anno, siamo arrivati a tanto così dal punto di rottura, perchè l’uomo della partite secche ci stava portando avanti nelle coppe, ma con 12 sconfitte in campionato ce ne ha fatte passare di cotte e di crude. E anch’io ho avuto il mio momento di debolezza – sai, quando perdi in casa con l’Empoli e perdi con lo Spezia che fa due tiri e due gol, scusa Simone, ma girerebbero i coglioni anche a un santo. Poi è successo qualcosa, chi lo sa, e abbiamo vissuto nel 2023 un finale di stagione meraviglioso, in uno stato di grazia che poi è proseguito e non si è ancora dissolto. Quando ha potuto plasmare davvero la sua squadra (quest’anno è partito con mezza rosa cambiata), quando si è liberato dei giocatori più malmostosi, quando si è immerso in un clima finalmente e unanimamente positivo, Inzaghi ha realizzato il suo disegno tecnico e tattico. Se questa sia stata l’Inter più bella di sempre è opinabile, naturalmente, quanto lo sono le assurde e appassionanti discussioni sportive – meglio Coppi o Pogacar, meglio Borg o Alcaraz, meglio Fangio o Verstappen? – ma solo il fatto che se ne sia parlato, che si sia aperto un dibattito su un tema così elevato, è il segno di quello che Inzaghi ha fatto in tre anni all’Inter, alla faccia mia.

E ora che il loro futuro nerazzurro è in bilico – firmano? non firmano? – mi sento un po’ come quei genitori quando i figli gli comunicano che se ne stanno per andare di casa. Cioè, gli darei un sacco di baci e gli direi che è giusto così, poi andrei in cantina a piangere come un vitello. Lautaro ha avuto tanto dall’Inter e tanto le ha restuituito, è un giocatore meraviglioso che abbiamo visto crescere e quindi ci siamo goduti dall’inizio alla fine: volesse andare altrove, ne avrebbe facoltà (c’è modo e modo di andare via: Lukaku male, Skriniar male, Icardi male, ecco, basta non fare così). Inzaghi, dopo le sue tre stagioni all’Inter, è nei fatti un allenatore di livello mondiale e prima o poi entrerà nel ristretto club di quei mister che si passano tutti i top club: nella storia dell’Inter quasi tutti i mandati degli allenatori sono stati brevi, del resto.

E visto che siamo qui a purgare gli antichi dubbi e a simulare preventivi attacchi di nostalgia, diciamo che nessuno qui è stufo di Lautaro e di Inzaghi: li ringraziamo di questa meravigliosa stagione, li vogliamo ancora a lungo con noi, il più a lungo possibile. Ci piacerebbe vederli ancora abbracciarsi in mezzo al campo, grati di essersi trovati l’uno con l’altro in una società senza paragoni che ha sede in Milano e si chiama Fc Internazionale.


(per l’angolo Podcast, giunto all’episodio #61, la puntata di tutte le puntate, vi ricordo che io e il mio socio aspirante pensionato, il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Cioè, tifate Inter, avete venti scudetti e due stelle: avete un sacco di argomenti)

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. Oppure, certo, potete non ascoltarlo. A volte mi sembra di parlare con degli juventini)

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Classe superiore

Praticamente è andata così: a un certo punto, mi ero autoconvinto che per vincere lo scudetto facesse troppo freddo. Dev’essere una cosa di noi podisti: pioggia più freddo è il peggio che ti possa capitare (il peggio del peggio è: pioggia più freddo più vento) (ma non c’era vento) e niente, mi sembrava una giornata già nata male, una giornata intirizzita, quelle giornate in cui non vedi l’ora di tornare a casa e bòn, un brodino e a letto. Poi ho pensato che era anche lunedì (un tempo, il lunedì era il giorno dell’anti-calcio, il giorno più lontano dalla domenica successiva, una pena). Poi ho pensato che era un derby in casa del Milan, uh, che esagerazione. E tutto insieme mi sembrava troppo. In fondo, che fretta c’era? Lo scudetto è vinto da un pezzo, sono settimane che lo aspettiamo come una cosa già conquistata: mancava solo la data del recapito, la firma sulla bolla di consegna, come certi pacchi di Amazon che quando il corriere non ti trova fanno giri immensi e poi ritornano.

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Poi quando è iniziata la partita, mi sono detto: vabbe’, ma perchè no? Siamo uomini o caporali? Siamo interisti o milanisti? A cambiare idea mi ha aiutato il Milan, nervoso al limite della crisi isterica fin dal primo secondo, assecondato da un arbitraggio un po’ così – giallo diretto a noi, giallo ogni 15 falli a loro -, un Milan rancoroso, modesto, spaventato, indignato dall’idea di vederci vincere uno scudetto sul loro campo, che poi sarebbe anche il nostro. Il calendario non ti metterebbe mai il Milan o la Juve in una partita-scudetto, a meno che tu non lo possa vincere con cinque giornate di anticipo. Eh, è capitato.

E quindi, alla fine, credo che sia stato il degno finale di un campionato clamoroso. No, dico, pensiamoci bene: lo si poteva vincere, un campionato giocato e dominato così, il campionato numero 20, il campionato della seconda stella, col Torino o il Frosinone? No dai, ci voleva il colpo di teatro. Lo abbiamo avuto. Ce lo meritavamo. Tutto il campionato è stato un colpo di teatro. Se potessimo essere tutti un po’ neutrali, noi tifosi, sono certo che tutta Italia avrebbe goduto dello spettacolo che abbiamo dato per tutto l’anno. Ma è ovvio, se i tuoi avversari giocano così, tu magari abbozzi ma mica ti metti sereno sul divano con un mastello di popcorn. Ti rodi il fegato, ecco. E quindi abbiamo sulla coscienza milioni di fegati.

Milan-Inter non ha detto niente sull’Inter che già non avessimo visto o vissuto. Era una partita strana, rara, unica, senza precedenti. Valeva un solo risultato e lo abbiamo ottenuto. Abbiamo vinto lo scudetto e abbiamo raggiunto la seconda stella vincendo un derby (in trasferta), il sesto consecutivo. Si chiama strike.

E’ il giorno della festa. Tutti ci hanno messo il loro mattoncino, a tutti abbiamo imparato a voler bene. Dovessi scegliere a chi offrire una birra, dico Inzaghi. Per lui è il più bel giorno della carriera, 13-14 mesi fa l’hashtag #inzaghiout rimbalzava sinistro in rete e tra le nostre chiacchiere. Nel frattempo, ha vinto (nell’ordine) una Coppa Italia, conquistato una finale di Champions, vinto una Supercoppa, vinto uno scudetto. Sul podio se la giocano Calhanoglu, Lautaro, Barella e chi volete voi. Ma per me il campione è lui: da #inzaghiout all’Inter (forse) più bella di sempre il passo è stato breve e il merito è tutto suo.

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Campioni, bi-stellati, bellissimi

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