Writing to dick (redigere articoli senza capo nè coda)

Non so perchè mi metto a commentare l’incredibile articolo di Repubblica.it che imbastisce un ragionamento astruso e delirante sul fatto che l’Inter ha ingaggiato un direttore marketing non italiano (e pure donna) e quindi bòn, moriremo tutti. Ho la sensazione di sprecare tempo e usurare i polpastrelli invece di farmi una bella pizza o vedere il terzo episodio della quinta stagione di Breaking Bad che è lì che mi dice “vedimi, santiddio”. Eppure questo pezzo è talmente clamoroso che merita due righe. Avessi avuto sottomano il suo numero di fax, lo avrei di botto mandato a Mourinho sottolineando con il pennarello uno dei passaggi finali, quello in cui si rimprovera l’Inter di avere assunto manager stranieri, di paesi “senza offesa, mondi lontani, troppo, per chi il pallone lo vive più con il cuore che con la ragione”. E insomma, mi sono detto, vedi Josè?, quella stessa stampa che – tra le mille cose – ci dileggiava per avere una dirigenza troppo milanese e troppo tifosa, farlocca e spendacciona, naif e confusionaria, ecco, adesso ci dileggia perchè abbiamo una dirigenza troppo straniera, con gente messa lì a fare cose precise, con un progetto alle spalle che prevede il rispetto di certi parametri e il perseguimento di certi obiettivi. Che minchiata di iniziativa, la mia. Josè mi avrebbe risposto: embè? Dove vivi?
Però gli direi: no scusa, Vate, un conto è esercitare la prostituzione intellettuale contro una società che si ribella, vince, stravince, rompe i coglioni, smazza il mazzo, sbriciola gli schemi, smaschera la malavita, l’Inter di Moratti, del Mancio, la tua (sospiro). Un altro è immaginarsi un caporedattore che trova in agenzia la notizia – l’Inter assume una manager americana come direttore marketing – e dice alla tizia in questione: dai, fammi un bell’articolo in cui diciamo che l’Inter è sempre meno italiana e quindi bòn, moriremo tutti. A Repubblica, va detto, l’Inter sta un po’ sui coglioni di default  (sarà anche per via di quelle settemila inculate date alla Roma durante il favoloso settennio 2005/2011) (Repubblica è un giornale romano, don’t forget it):  il giornalista titolare infila battutine e sarcasmo sull’Inter anche nella più innocente delle occasioni, la giornalista rincalzo ci va giù piatta per cercare di non sfigurare col titolare. Ma non è questo il punto. Il punto è: con lo sfacelo che abbiamo intorno, con un calcio italiano sputtanato e sempre più distante dai top club europei, con un’elezione alle porte in cui sta venendo fuori ancora una volta il peggio del movimento, ecco, ha ancora senso perdere tempo a prendersela con l’Inter? Probabilmente è questione di abitudine, un’inveterata e mai dissolta abitudine:  non ho altre spiegazioni logiche, tecniche, giornalistiche, politiche e morali.
Per dire: lo stesso giorno in cui circola in rete lo splendido articolo sull’Inter di proprietà straniera che scomparirà dalla Terra nel giro di tot anni (bòn, moriremo tutti), Repubblica cartacea dedica un articolo alla febbre James al Real Madrid. Leggo e apprendo che il Real ha già richieste per 350mila maglietta con il numero 10 e la scritta James prima ancora che lo stesso James abbia toccato un cazzo di pallone. Leggo che le magliette official del Real costano 101 euro, e Repubblica fa i conti e dice che l’acquisto e l’ingaggio di James è praticamente già pagato. Vado avanti a leggere l’articolo e apprendo che le magliette n. 7 con la scritta C. Ronaldo hanno toccato quest’anno quota 1 milione. Repubblica fa i conti e dice che il Real ha un sacco di soldi e ci dispiace per gli altri.
Singolare, no? (o non è singolare?), che la stessa testata, lo stesso giorno, magnifichi il marketing del Real sottolineando i nomeri che lo rendono irraggiungibile, e preconizzi terrore morte e distruzioni all’Inter che assume una professionista del marketing internazionale come direttore marketing. Già, scelta bizzarra. Può darsi che a Repubblica (e al calcio italiano in generale) faccia piacere che il marketing dell’Inter continui a svolgersi in un seminterrato di San Siro e in un negozione in centro sopra Spontini. Uhm, sarebbe una spiegazione. E così, mentre le grandi squadre europee fanno mercati da capogiro mentre noi in Italia ci contendiamo i giocatori del Verona, mentre gli altri allargano i loro orizzonti e noi andiamo all’elezione della rifondazione (muahahahaha) Figc nel solito clima da mercato delle vacche, mentre i top tem europei fanno alte strategie e da noi gli allenatori scappano come ladri, ecco, perchè non fare un bell’articolo sull’Inter che così non sbagliamo? Moratti era un coglione troppo tifoso e troppo sentimentale, Thohir invece è troppo indonesiano e troppo razionale. L’Inter vuole vendere le magliette? Naaaaa, non si fa.
Quanto alle stronzate concettuali, sintattiche e grammaticali contenuti in frasi tipo L’Inter agli interisti è addio. Lo slogan e certezza dei tifosi sono stati cancellati in un là. L’anima dipinta con i colori del cielo e della notte non c’è più oppure Thohir ha sradicato le radici meneghine della società cancellando in un battito di ciglia le origini di un club che dal 1908 parla italiano e la cui squadra milita nella Serie A, beh, che dire?  Del resto, a una che scrive Ratio, conti, bilanci, debiti, passività e attività sono, invece, le nuove linee guida dell’Inter. La ‘specialità’ i dirigenti stranieri. Il rischio ipotizzabile – in assenza di italianità ai piani alti della società – è un tracollo parziale sul territorio italiano, insomma, cosa vuoi mai replicare? Sradicare cosa? Tracollo de che? L’Inter non è addio, cara amico. L’Inter è gli interisti. Ma potrebbero dirti la stessa cosa i milanisti, gli juventini, i romanisti e giù giù fino al Feralpi Salò. L’Inter non sei tu, certo, ma siamo noi. L’Inter sopravvive nelle nostre sciarpe al collo, nei poster in cameretta, nelle bandiere sui balconi. Nel nostro stadio. Nella nostra Pinetina.  E soprattutto nei nostri cuori a strisce nere e azzurre, a cui non interessa che lingua si parla nell’ufficio marketing. Ma queste sono ovvietà, di cui bisognerebbe tenere conto quando si scrive un articolo su una cosa di cui non si conosce una sega. Tre righe di agenzia si possono trasformare in quaranta di articolo, lo fa qualunque giornalista, ma senza per forza attraversare il magico e pericoloso mondo della metafora ad minchiam.
thohir_inter

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Messi fa schifo, evviva Messi

When I was young, ho partecipato all’organizzazione di un torneo giovanile di calcio che ha avuto tre o quattro anni di discreto splendore. Otto squadre, due gironi, passano le prime due, semifinali incrociate, poi – di domenica – finale terzo e quarto posto e a seguire quella per il primo e secondo posto. C’erano, anche lì, i premi al miglior giocatore e al miglior portiere del torneo, un classicone del red carpet finale. Scegliere il portiere era piuttosto facile, e se per caso non ne emergeva davvero uno era una buona occasione per una innocente cencellata, cioè per dare un premio a una squadra che non ne avrebbe avuti altri. Sul giocatore la faccenda era un po’ più complessa. Si mescolavano valutazioni dirette – appunto: chi ha giocato meglio? chi ha impressionato di più? – ad altre indirette, del tipo “questo però ha già esordito/è stato in panca in A, si vede che è buono” a “quell’altro però l’ha preso/lo sta trattando la squadra X, si vede che ha i mezzi”. In sintesi: o c’era qualcuno per cui bastava la valutazione diretta, oppure c’era qualcuno che – “se lo diamo a lui non sbagliamo” – brillava nella valutazione indiretta. Alla fine si arrivava a un nome, la sera prima della finale, dopo un paio di birrette. Col tacito accordo che, se in finale qualcuno avesse fatto il fenomeno – chessò, una tripletta, un gol dopo averne dribblati cinque o un partitone illuminante – avremmo corretto il tiro al volo. “Tanto mica c’è scritto il nome, no?”. Ma non mi ricordo che sia mai successo.
Curioso che a distanza di una venticinquina d’anni e su scala immensamente diversa – il nostro torneo faceva mille spettatori, il Mondiale ne fa un miliardo (per non parlare ovviamente del vile denaro) – assisto alla premiazione di Rio e mi accorgo che i criteri sono gli stessi del nostro modesto torneino. Neuer è il miglior portiere, punto. Messi è il miglior giocatore. Sorry?
Pensandoci e ripensandoci, sono arrivato a una banale conclusione – lo hanno deciso prima, forse molto prima – e poi a un bivio: 1) o hanno preso per il culo lui, 2) o hanno preso per il culo noi.
1) Messi, voglio dire, si intende di calcio. Quindi sa benissimo di non essere stato il miglior giocatore dei mondiali. Ha fatto un buon girone eliminatorio, ha segnato uno dei tre gol più belli di tutta la competizione, e fin qui ok. Ma vogliamo metterci qui ad elencare i dieci, venti (o fate voi la cifra) giocatori che hanno giocato meglio di lui tra giugno e luglio? E vogliamo elencare quei dieci-quindici che hanno giocato meglio di lui – letteralmente scomparso nella seconda metà di partita – nella finale di ieri sera? Persino quel G-man con i calzoni corti di Boateng, per dire, ha giocato enormemente meglio di Messi. E allora che succede? Gli dai il premio, una piccola gogna finale in mondovisione, “Il migliore” che ha fatto cagare, ha perso la finale e – forse – un’occasione che non gli ricapiterà. “Il migliore”, buahahahaha. Uno spettacolino che sarà piaciuto ai brasiliani. E anche agli anti-Messi, un movimento silenzioso cresciuto a forza di premi inutili e immotivati.
2) Di sicuro la Fifa ha fatto come noi 25 anni fa: “Se lo diamo a lui non sbagliamo”. Intendiamoci: Messi è Messi, 425 presenze del Barcellona e 354 reti, 93 presenze e 42 reti in nazionale, una quantità di coppe e coppette, insomma un mostro. Però ci siamo rotti i coglioni. Solo una sollevazione popolare pro Cristiano Ronaldo (altro mostro, ma l’anno scorso molto molto molto più mostruoso di Messi) ha impedito che a dicembre il piccolo Leo prendesse l’ennesimo Pallone d’Oro, premio-barzelletta se ce n’è uno.
Da quando il regolamento è cambiato – 2010 – sul podio del Pallone d’Oro sono sempre andati gli stessi giocatori: Messi, Ronaldo, Iniesta e Xavi, più una volta Ribery. “Se lo diamo a loro non sbagliamo”. Messi ne ha vinti 4 di fila, di cui 3 con il nuovo regolamento e la nuova giuria, che vota sulla base di uno statuto che ha un unico punto: “Dicci il nome di tre giocatori famosi che giocano bene a pallone e non rompere il cazzo con ulteriori valutazioni chè abbiamo poco tempo. Nell’ultima riga metti l’Iban”. Nel 2010 questo geniale regolamento ha prodotto il più perverso e clamoroso dei risultati: con la Spagna campione del mondo e con l’Inter campione d’Europa e triplettata, Messi – che in quella stagione non vinse niente di serio e che uscì dai mondiali ai quarti sepolto di reti dalla Germania e senza segnare un gol in 5 partite – vinse il Pallone d’Oro. Oggi è Messi che vomita, ma io ho vomitato allora.
E’ chiaro che da allora vale tutto e il premio è diventato una pantomima. Cazzi della Fifa, faccia il suo bel galà con i calciatori in smoking e bòn, chi vuole se lo vede e chi non vuole si guarda un film. Messi è sicuramente uno dei migliori giocatori dell’ultimo decennio, i numeri e i trofei parlano per lui. Ma non c’è bisogno di premiarlo sempre solo per questo, perchè è forte e spesso (non sempre, e ultimamente quasi mai ) il più forte di tutti. Il premio al miglior giocatore della stagione si dà, appunto, al miglior giocatore della stagione, non a un giocatore che secondo me è il più forte di tutti. Il premio al miglior giocatore del mondiale, per carità, conta una cippa. Ma è una questione di principio, e per niente secondaria. Se il governo del calcio non riesce a esprimere un giudizio serio nel’arco di un mese di partite viste e straviste in tutto il mondo, allora facciamoci delle domande. Vogliono il chip nel pallone e la moviola in campo, poi non sanno nemmeno decidere chi è il miglior giocatore nell’arco di sette partite: andate a fare in culo, va’.
premiazione

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Like a pijama (l'ha detto lui)

Quando, all’interno dell’aeroporto in cui vagavo da ore, ho visto il football corner (per i poco pratici con l’inglese, la traduzione non è calcio d’angolo del calcio ma luogo dove vendono magliette di squadre di calcio a prezzi da cravattaro), mi sono travestito da turista e sono entrato. Come un rabdomante, mi sono diretto in automatico verso il punto dove le magliette erano più scure (un tuffo dove il mare è più blu) e, con le farfalle nello stomaco, l’ho vista. Ho osservato un attimo di raccoglimento, poi ho praticato trenta secondi di training autogeno (“ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare”) e ho iniziato a tendere la mano verso l’omino, l’ometto, la gruccia o come cazzo si chiama quel coso a cui si appendono i cosi, come si chiamano?, i vestiti, le giacche, le magliette, insomma, ci siamo capiti no? E che cazzo (il solo ricordare quei momenti mi rende nervoso).
Il tutto sotto gli occhi del tizio, il gestore del corner, un incrocio tra Luis Figo e Massimo Ceccherini. Diciamo 33,3% Figo e 66,6% Ceccherini. La conversazione si svolgerà completamente in inglese, particolare che la renderà più drammatica e sincera.
“May I…”
“Yes!”
mi fa lui, nella speranza di vendere una maglietta. Io la tiro fuori, la guardo, la giro, la rigiro. Luis Ceccherini mi guarda, sempre nella speranza di vendere la suddetta maglietta e ignaro del rimestamento gastrointestinale che la medesima ha immediatamente innestato nel mio già provato corpicino.
“It’s… it’s…”
“Inter Milan!”
mi fa lui, con l’indice destro già pronto a battere lo scontrino e la mano sinistra già intenta a cercare il Pos.
“…it’s… terrible!”
“Don’t you like it?”
mi fa lui, con la faccia di uno a cui una grandinata ha gibollato la macchina ritirata due giorni prima in concessionaria.
“I’m an Inter fan, you know… but… this shirt…”, dico io, trattenendo il pianto.
Luis Ceccherini mi guarda. Lo vedo interessato. Scende dal trespolo della cassa. Ha dimenticato il Pos e lo scontrino. Mi osserva. Ora sembra un etologo che ha appena visto un gatto pisciare come un cane, una cosa così. Una cosa interessante.
“A lot of people like it”, mi dice forse per farmi passare lo choc.
“I mean…” dico io, che aspettavo da anni di dire “I mean” a un venditore di magliette. “I mean… it’s a beautiful shirt…”
“Yes, absolutely”, dice Luis, che con la coda dell’occhio guarda dove ha lasciato il Pos.
“… but it’s a shirt for going to Carrefour, or going to have a walk with my girlfriend…”
(ormai stavi improvvisando, tipo Renzi)
(going to have a walk)
“…or going to the cinema, or…”
“Ah!”, dice Luis Ceccherini, sinceramente interessato al mio caso umano, agevolato dal fatto che ero il suo unico non-cliente, e anche per fermare la serie degli esempi che ero pronto a protrarre all’infinito. Riprendo, cambiando tono:
“But where are the stripes? Inter Milan: black and blue stripes, ok? So: where are the stripes?”
Mi rendo conto in quel momento che sto chiedendo a Luis Ceccherini cose che dovrei chiedere a Thohir, Ausilio, Fassone, Angelo Mario Moratti o a mister Nike. Ma Luis è sempre più interessato. Continuo, alla Renzi.
“You see?”
Sono lanciatissimo: afferro la maglia dello scorso anno e la mostro a Luis.
“You see? The shirt of last season. I didn’t like it, this blue is too dark…”
“I agree”, dice Luis, che sta valutando l’ipotesi di farmi entrare socio nel suo fottuto corner.
“…but these are stripes! These!”
“Yes”, dice Luis, incerto se chiamare la vigilanza. Forse per paura mi dice: “It is like a pijama, doesn’t it?”
“Yes, a pijama!” faccio io, reprimendo l’istinto di abbracciarlo e di offrirgli una birra nell’attiguo beer corner.
Luis, usando parole che non comprendo appieno, torna in sè e mi dice che la tendenza di quest’anno sono queste righine del cazzo, verticali, orizzontali (mi mostra la maglia del Chelsea), diagonali, eccentriche, concentriche, disambigue, irregolari, fantasy e vaffanculo.
“May I take a foto?”
“Yes”, mi dice un Luis deluso e affranto. Il Pos ci osserva, inattivo.
“Thank you, viva Inter, Juve merda”, gli dico congedandomi.
Per farmi andare giù questa merda di maglia servirà l’Idraulico liquido, o uno scudetto. Astenersi perditempo.
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Why always him?

Mettiamola così, per inquadrare un po’ la questione nel profondo: negli ultimi due Mondiali siamo usciti due volte nella fase a gironi, giocando sei partite e vincendone una (Inghilterra, la più fiacca Inghilterra dell’ultimo decennio), pareggiandone due (con squadroni tipo Paraguay e Nuova Zelanda) (no, dico, Nuova Zelanda) e perdendone tre (con Slovacchia, Costa Rica e Uruguay) (wow). Sì, d’accordo, in mezzo c’è stato un bell’Europeo (asfaltatissimi in finale: come dire, secondi con distacco) e una buona Confederations Cup (il Trofeo dell’Amicizia per nazioni, peso specifico -1), però negli otto anni trascorsi da Berlino non è che ce la siamo spassata. Siamo quelli che siamo, un po’ per colpa di un materiale umano oggettivamente modesto e un po’ per colpa di una gestione federale da barzelletta. Che prima affida la squadra a Donadoni con lo stesso entusiasmo e convinzione con cui l’Inter ingaggiò Gasperini; poi lo scarica dopo gli Europei per richiamare Lippi nell’operazione più puzzolente e arrogante che il calcio italiano ricordi; poi chiama Prandelli ammantandolo di santità e buoni propositi (e fino alla notte di Kiev, va detto, le cose sono andate benino) per poi arrivare al momento-clou con il solito clima malato: il famoso codice etico applicato alla cazzo di cane, il capo delegazione dimissionario che – semplificando – dice en passant che ai vertici è tutta una mafia, uno strepitoso effetto domino nelle scelte strategiche – preparazione, convocazioni, saune, ritiro in culo alla luna, crollo della curva del gradimento, un disadattato come front-man.
Con tutto questo, ieri sarebbe bastato fare uno 0-0 contro l’Uruguay, e ce l’avremmo fatta con quei cambi che neanche Trapattoni e con una agile e affidabile 8-2-0 nel finale se l’arbitro non ci avesse messo del suo. Ma, onestamente, una squadra del genere, dopo tre partite del genere – su 270 minuti ne salvi sì e no 60 -, meritava di andare avanti? E quanto?
Io un paio di sospetti a priori ce li avevo, diciamo così. Quando vedi gente che si fa le seghe per un’amichevole di Paletta e una discesa sulla fascia di Candreva,  cominci a dubitare del tasso tecnico complessivo. Poi dici: vabbe’, ma Prandelli non sarà proprio un pirla. Eppure è andata proprio così: dopo quattro anni di operazione simpatia, quattro anni di codice etico di questa bella minchia (quando inizi a fare le deroghe bòn, è la fine, lo sa anche una bambino dell’asilo), quattro anni di ricostruzione e faticoso ringiovanimento, Prandelli negli ultimi mesi è andato in panico completo e ha sbagliato tutto. Certo, non ha nessuna colpa se Giuseppe Rossi si è infortunato (ma anche questo faccia riflettere: altri si aggrappano a Messi, Cristiano Ronaldo e Neymar, noi a Giuseppe Rossi), ma quindici mezze punte non le ho convocate io, diciassette moduli uno più inutile dell’altro non li ho alternati io. E Balotelli come simbolo della nazionale non l’ho scelto io.
Otto anni dopo Berlino, i più affidabili sono stati quelli di Berlino invecchiati di otto anni. Uhm. Attorno – agghiacciante – dovrebbe esserci stato il meglio espresso dal campionato italiano, Giuseppe Rossi (e Montolivo, vabbe’, si fa per dire) escluso. Questi siamo, ok. Nè tra i migliori nè tra i peggiori. Prandelli doveva metterci il valore aggiunto: a volte il sangue si cava anche dalle rape, la Grecia vince l’Europeo, insomma, il cuore lo metti oltre l’ostacolo un tot di volte e vai avanti. Io però ho visto solo gente facile a perdersi nei bicchieri d’acqua, annoiata, smarrita, pronta a dare la colpa al caldo, all’umidità, all’arbitro, il terremoto, l’inondazione, le cavallette! Gente che pensava di aver risolto tutto giocando mezza partita con l’Inghilterra e poi facendosi fare il culo da Costa Rica, o Costarica, o come cazzo si scrive (abbiamo perso con una squadra dal nome incerto, no, voglio dire).
Prandelli per quattro anni aspira alla canonizzazione con il codice etico e poi si affida a Balotelli e Cassano, i meno etici, i più spaccaspogliatoio e i più amabilmente inaffidabili giocatori che abbiamo. Certo, Prandelli mio, so benissimo che – stando così le cose, rovistando tra i poveri 23 che ti sei portato appresso – erano in teoria gli unici adatti a risolvere o cambiare le partite. Ma è come nominare Rocco Siffredi rettore del collegio delle Orsoline e sperare che – per un mesetto, che cce vo’? – non succeda nulla. I senatori gli hanno fatto un culo così, però andranno in pensione. Quindi il nostro futuro è Mario Balotelli? Un’icona, più che un giocatore? Uno che fa un gol, fa una confstampa alla Vieri e poi si riposa per un semestre? Uno che in sette stagioni da professionista non ha ancora imparato a stare al mondo? Uno che tira freccette, spara raudi in casa, viene la Kyenge e dorme, parla Pirlo ed è già sul pullman da un’ora con le cuffiette? Uno che ha 24 anni e la miglior stagione l’ha fatta a 17? Boh, auguri a chi verrà: a questi livelli sarà dura anche qualificarsi agli Europei. Meno codici, più coglioni. Nel senso di palle, eh?
italia.uruguay

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Fermate il Mondiale: voglio scendere

Consapevole dei rischi (è sabato mattina), mi reco dunque al mio solito supermercato. Senza fare nomi, è quella catena francese, sapete, quella con quel marchio, con quel nome… Vabbe’, aneddoto. Due giorni prima della Maratona di Roma ero alla Garbatella, esco dalla metropolitana, cerco un supermercato senza trovarlo, e quindi chiedo indicazioni a un signore con cagnolino al guinzaglio, il tipico pensionato di quartiere che secondo me è lì che aspetta che qualcuno gli chieda un’indicazione. E infatti me la dà: “Ahò, mo’ ggiri qui a ddestra no?, poi vai ddritto fino all’incroscio, ‘o vedi, ‘ndo sta a parcheggià quer cammion der cazzo, ‘cci sua gguarda quant’è ggrosso, ecco, li ggriri a ssinistra – cioè, praticamente segui quer negro – e te ce trovi dentro”. Grazie,ma  che supermercato è? “Ahò, ‘spetta, Kufur, come cazzo se chiama”.
E dunque mi reco al Kufur. C’è già troppa gente rispetto ai miei gusti, ma se uno va a fare la spesa al sabato non si deve lamentare. Cioè, come l’Italia: vai a giocare in Amazzonia, bòn, non ti lamentare. Ma oltre alla troppa gente c’è qualcosa di fastidioso. La musica è più alta del solito, molto più alta:
“Tunz-e-tunz-e-tunz-e-tunz”
e la cosa mi dà così fastidio che mi sembra di sentire pure una vuvuzela in sottofondo. Vabbe’, cerco di riprendere un contegno. La vuvuzela, tzè. Ho bisogno di ferie. Tunz-e-tunz-e-tunz. “Scusi, dove sono le pile?” “Come?” Tunz-e-tunz-e-tunz. “Dove sono le pile?” “Le?” Santa madonna. “LE PI-LE!” Mentre dico pile la musica si abbassa (praticamente nel giro di venti metri si sente solo un uomo che urla PI-LE) e la commessa mi guarda schifata: “Chieda al banco informazioni”. Mi viene da mandarla affanculo, ma mi accorgo che sta facendo un lavoro di merda – un accrocchio alto due metri di girandole tricolori – e lascio stare. Vado al bando informazioni, deserto, ma mi accorgo che le pile sono lì di fianco. Grazie a questa botta di culo sto riprendendo la pace con me stesco, quando sento un rumore agghiacciante:
“PPPPPPPPPPPAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA”.
Mi giro e vedo un tipo attempato avvolto in un tricolore che soffia dentro una vuvuzela, tipo spirometria. Intorno c’è altra gente travestita da tifoso che comincia a ritmare “I-TA-LIA, I-TA-LIA”. Mi do un pizzicotto, mi guardo intorno, sì, io sono vivo, sono sveglio, non ho assunto sostanze psicotrope, questo è il Kufur di Pavia.
E questi chi cazzo sono?
“I-TA-LIA!” “PPPPPAAAAAAAAAAAAAAAA”! Sto per aggredire il trombettiere con un cric (vicino alle pile c’è il reparto accessori auto) ma propendo per una decisione pacifica. E unilaterale. Me ve vado. Scappo. Via da questo postaccio. Cazzo, ho dimenticato la mozzarella per la pizza. “PPPPPPPPPPPAAAAAAAAAAAAAA!”. Te la infilo del culo la vuvuzela, porca puttana. Mozzarella, mozzarella. Eccola. E lì accade l’impossibile.
Ta-Tarata-Tarata-taratattattà”
L’Inno di Maneli.
Cioè, c’è gente che magari vince la maratona alle Olimpiadi e sale sul podio e chiude gli occhi e piange, e io invece sono qui con la mozzarella per la pizza in mano. Gli altoparlanti del Kufur diffondo la versione integrale. Le massaie continuano a far la spesa, i mariti si imboscano o vengono cazziati, altri si umiliano a fare gli sherpa, i bambini corrono qua e là.
“Siam pro-o-ntialla moorte l’Itaalia chiamò”
“Sì!”
faccio io all’addetta alle casse automatiche che mi chiede se tocca a me. Intorno c’è gente che fa la spesa mondiale. Praticamente tu prendi un certo genere di prodotti, e se l’Italia vince avrai diritto a futuri sconti, e se l’Italia non vince avrai diritto a futuri sconti, un po’ meno elevati. Praticamente è come fare la spesa alla Snai, compri i biscotti e tifi Italia per avere 3 euro di sconti invece che 1,5. La gente è arrazzatissima: “Mamma, comprami i sofficini chè stasera vinciamo”. Questo paese non ha più speranze.  Al Kufur non tornerò prima di agosto, col cazzo che mi rivedono prima. Anche perchè se ritrovo il gruppetto con la vuvuzela potrei fare una strage. E Cronaca Vera ci farebbe un titolone:
“Violenta finto tifoso al supermercato in pieno giorno con una trombetta colorata nell’ano”
e io ho una reputazione da difendere. Io.
kufur

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La zona umida

Mondiali 2014. allenamento della Nazionale ItalianaA Mangaratiba il tasso di umidità è più alto di qualsiasi altro punto della lunga fettuccia di terra che scende giù a sud da Rio: oggi pomeriggio, per il primo allenamento, superava ampiamente il 50 per cento, con temperatura di 27 gradi. (ANSA)
Minchia, poveracci. 27 gradi e umidità ampiamente sopra il 50 per cento. Argh! Che angoscia. I nostri eroi costretti ad allenarsi in condizioni impossibili. Sto per sentirmi male, mi manca il respiro pensando – chessò – a Candreva che boccheggia mentre fa hop hop a bordocampo. Mestiere di merda, il calciatore. Poi mi cade l’occhio sulla centralina meteo di Pavia, ora di pranzo.
temper
Osteria, mi dico. Anche a  Paviangaritiba si sta veramente di merda, ma questo io lo sostengo da anni. Certo, questa città – la mia – butta nel cesso occasioni su occasioni. Invece di stare qui passivi ad aspettare l’Expo o l’ondata delle zanzare, santamadonna, non si poteva invitare qui la Nazionale una settimana? Invece di costringere la Federazione a installare una sauna a Coverciano, non si poteva mettere giù due porte all’area Vul e organizzare il ritiro premondiale? Se Pavia avesse lu mere sarebbe una piccola Maceiò, ma quando a temperature e tassi di umidità non abbiamo niente da invidiare all’inverno tropicale brasiliano. Altro che ritiro nel resort a bordo Amazzonia. Bastava a bordo Ticino.
Certo, pensate ai poveri azzurri. Partono dall’Italia in questi giorni di estate anticipata, cambiano emisfero e trovano 27 gradi e 50 per cento di umidità.
Ma è pazzesco.
Di solito ci si lamenta per gli sbalzi di temperatura. Stavolta ci si lamenta per il non-sbalzo di temperatura. Parti che è quasi estate e fa caldo, arrivi che è quasi inverno e fa caldo uguale. In effetti è assai bizzarro. Bisognerebbe organizzare i Mondiali in zone miti e temperate, le altre zone si fottano. Sì, certo, il Brasile bla bla bla. Ma questa storia dell’umidità? L’umidità rende nervosi. Ti si appiccicano i vestiti, in macchina ti metti la cintura e quando esci hai una riga trasversale di bagnato sulla camicia, se bevi sudi, se non bevi muori, se bevi il giusto non risolvi un cazzo.
Sono solidale con gli azzurri. Troppo umido.
Dice: ma il caldo c’è per tutti, l’umidità c’è per tutti. Per la Svizzera, il Ghana, la Russia, l’Andorra, la Germania. Vero, ma per noi è diverso. Noi siamo più delicati e anche un pelo più ansiosi. E’ colpa dei media. Appena fa un po’ più caldo del normale, a ogni telegiornale parte il servizio sul tema “Occhio che morirete tutti di caldo fatevene una ragione e comunque prendete queste due precauzioni che abbiamo copincollato così magari sopravvivete e arrivate all’inverno quando faremo il servizio che morirete tutti di freddo ma adesso non precorriamo i tempi procediamo con un flagello per volta”. A noi ci spaventano così, dando nomi impressionanti alle ondate e di caldo e confezionando servizi dei tg secondo i quali
“Se ci sono 47 gradi e c’è afa, bisogna evitare di fare sport alle due del pomeriggio in luoghi non ombreggiati e con il bar chiuso per turno”.
Che in effetti è un consiglio da buon padre di famiglia. Per cui azzurri, armatevi di pazienza, accendete le pale sopra il letto, rilassatevi e fate come vi dico:
1) bere molto, anche se non avete sete, e mangiare molta frutta, anche se vi fa cagare.
2) evitate cibi pesanti, fritti, intingoli, grigliate, stufato d’asino, brasato con polenta e churrasco a pranzo (se si gioca nel pomeriggio)
3) nel pomeriggio (se non si gioca) andare in un centro commerciale con aria condizionata.
4) non indossare trend leggings alla caffeina (questa l’ho letta sul sito di Panorama, quindi deve essere vero)
5) preferite indumenti di cotone e bianchi a indumenti sintetici e colorati.
Dice: ma noi abbiamo la maglia azzurra sintetica, come facciamo a giocare con una maglia bianca di cotone? A questa domanda, pur pertinente, c’è un solo tipo di risposta: ma che cazzo, ve l’ho detto io di andare ai Mondiali?

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De senectute

imageFatta eccezione per Mariga, formalmente (credo) ancora a libro paga ancorchè scomparso dalla circolazione, con il malinconico addio di Zanetti, Cambiasso, Milito e Samuel, cui va aggiunto quello del lungodegente Chivu di qualche settimana fa, nell’Inter non c’è più traccia dei 18 giocatori che andarono a referto nella notte di Madrid. Si chiude un capitolo storico e glorioso, che ha le facce, le cosce, i piedi e i cuori proprio di quei quattro argentini lì, che hanno onorato la nostra maglia non solo baciandola in favore di telecamera, ma portandola in cima al mondo a forza di gol e di sudore, di passione e di professionalitá, di talento e di intelligenza. Quattro campioni che, sotto questo punto di vista (ma ce ne sono altri che possano interessare un interista?) ci mancheranno in maniera lacerante.
Ma la demadridizzazione dell’Inter credo vada interpretata anche attraverso una chiave meno sentimentale. A me, non lo nascondo, considerando la faccenda nel suo complesso è scappato l’avverbio “finalmente”. Un finalmente non certo riferito all’immenso capitale umano  e sportivo che perdiamo. Ma riferito, questo sì, alla compimento della demadridizzazione, un processo così lento e faticoso, quasi estenuante, tanto necessario quanto tardivo da far scappare un “finalmente” anche a me, che a Madrid ci sono andato e, in fondo, non sono mai tornato. Da che pulpito, no? Parlo di demadridizzazione e mi confesso tuttora ampiamente madridizzato, con ancora addosso quel carico di magia,  sparso qua e lá qualche brandello di stato di grazia vissuto sui gradoni del Bernabeu. Ma io sono un tifosotto romantico. Per l’Inter è diverso.
A Madrid, il 22 maggio 2010, quattro anni fa giusti giusti, Zanetti stava per compiere 37 anni, Samuel ne aveva giá 32, Stankovic li avrebbe compiuti a fine estate, Milito ne avrebbe compiuti 31 venti giorni dopo, Cambiasso e Chivu erano nell’anno dei trenta. Li abbiamo salutati quattro anni dopo. Loro, le loro giunture stanche, i loro contratti mostruosi. Ne è valsa la pena?
Forse no. Non parlo di loro, che se avessimo potuto clonarli, santo cielo, se solo avessimo potuto… Parlo dell’Inter, parlo delle quattro stagioni seguite alla sbornia del Triplete, un clamoroso hangover di coppe, gol e birre medie. Ripropongo la domanda: ne è valsa la pena?
Lasciamo stare la stagione 2010/11, con tanti impegni da onorare e la legittima tentazione di vincere ancora il più possibile con quello squadrone, non fosse altro che per inerzia. Dopo, purtroppo, è stato un disastro. E la madridizzazione ha fatto i suoi danni. Zanetti si è ritagliato la sua nicchia da highlander, Cambiasso si è rivelato irrinunciabile lá in mezzo. Ma intorno sono rimaste le icone, in un fragore di legamenti e bicipiti femorali, infortuni e lunghi recuperi, sprazzi dei tempi andati e inevitabili ricadute. L’Inter non ha avuto il coraggio di demadridizzarsi nè la forza (i soldi, la sapienza, la lungimiranza) di rinnovarsi. È rimasta in una terra mediana, in un limbo, nè carne nè pesce. Quattro anni fa scrivevamo la storia, oggi festeggiamo il quinto posto matematico con una giornata di anticipo. (sospiro)
I nostri argentini hanno dato tutto quello che avevano fino alla fine, onore e gloria a questi campioni. Non avere costruito un’alternativa al loro invecchiamento, non avere creato un ricambio credibile a giocatori di un tale livello (lo ribadisco: livello tecnico, umano, professionale), è invece una colpa che sconteremo ancora per chissá quanto. Quanto alla malinconia di certi addii, con giocatori immensi diventati l’ombra di se stessi, è questione di scelte: meglio vederli andar via sulle loro gambe o trattenerli fino alla soglia del deambulatore? Scelte, sia chiaro, in cui raramente potrai dire di averci azzeccato, o di non averci sofferto.
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Gessati

nuova-maglia-inter-1Ne scrivo, inutilmente. Lo so e procedo comunque. L’inutilità di scrivere qualcosa sulla presunta nuova maglia dell’Inter – ne sono consapevole – è clamorosa. 1) Le anteprime che circolano in queste ore potrebbero essere un fake, o potrebbero essere solo un test, o potrebbero essere una versione provvisoria; 2) Comunque, che cazzo gliene frega alla Nike se a me non piacciono? 3) Che cazzo gliene frega alla Nike se anche – per assurdo – non piacessero a nessuno? Per una affascinante e imprescrutabile legge del marketing e della psicologia criminale umana, più una maglia è – non diciamo brutta – anomala, più la vendono. L’orripilante (per me) maglia camouflage del Napoli è stata venduta a carrettate. Giusto per fare un esempio. E che dire delle seconde maglie creative del Barcellona, con colori che non esistono in natura? Due estati fa ero a Barcellona e continuavo a incontrare bambini e presunti adulti vestiti con il completo fluo del Lecce. Minchia ‘sti leccesi, dicevo tra me e me, sono dappertutto. Poi sono andato al Camp Nou e mi sono reso conto che il completo fluo del Lecce era la seconda maglia del Barcellona presentata tre giorni prima, e la gente  era in coda alle casse per prendersi quella. E che dire, per tornare a casa nostra, della terza maglia cinese rossa? “Sacrilegio”, tuonammo tutti. Solo 15 giorni dopo ero circordato da gente possibilista (“Sai che non è male?”), per poi scoprire nei mesi successivi che anche molti amici – gente che pensavo avesse anche le mutande nerazzurre – l’avevano presa (“Sai che in fondo è bella?”) e ci avevano fatto anche degli investimenti (“Sai che ne ho prese due ufficiali e 17 tarocche?”).
Quindi, perchè cazzo me la prendo se gira sui siti una presenta prima maglia dell’Inter che sembra un gessato di Al Capone, una tenuta tempo libero dei Godfellas, una maglietta Fila di Bjorn Borg in negativo? In sè è mica brutta. Anzi, forse è bella. Fosse vero, fosse davvero vero, ecco, il problema è che questa bella maglietta della Nike che ci spaccerranno a 80 euri a botta
non è una maglia dell’Inter.
Stop, punto. Non ha “strisce regolari nere e azzurre”. Peggio: non ha le strisce. Non ha le strisce! E sarebbe la seconda maglia opinabile dopo quella di quest’anno, che non aveva l’azzurro ma un blu beccamorto che con il sudore diventava un accrocchio scuro e cangiante che non si poteva vedere, dai, ammettiamolo. Passiamo dal macchione blu a un gessatino da fighetto che non ha senso, non ha storia, non ha Inter. A me non importa una sega se il Milan indosserà un codice a barre rossonero, che mi importa di fare un confronto con l’abbigliamento dei cacciaviti? A me piacciono le maglie normali. Voglio le strisce. Allargale, smilzale, fanne ciò che vuoi. Ma il gessato no, ti prego. E voglio l’azzurro, quel colore un po’ accesso, sapete, ricordate? Nero e azzurro. In strisce regolari.
Vabbe’, ma alla Nike (vedi punto 2) che cazzo gliene frega se a me non piacciono?

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5000 (motivi per non andare)

Mi reco all’alba (le 9, vabbe’, ma è la mia alba metabolica) al campo Coni di Pavia per disputare una gara che, nella lista delle mie preferenze, occupa la top ten della munnezza: i 5000 metri su pista. Com’è noto, la gara consta di 12 giri e mezzo di anello in tartan, cioè la morte civile. Facendo colazione e riordinando le idee, mi preparo al peggio: e cioè arrivare ultimo della batteria facendo registrare un tempo infamante, diciamo superiore ai 4′ 30″/km, roba da mammolette del podismo. Comunque esco, vado, mi iscrivo, mi rendo conto che la mia batteria non partirá prima di un’ora e mezza e quindi faccio le cose con estrema calma. Del resto, perchè prendersela, sapendo che arriverò ultimo e farò un tempo di merda?
“Perchè ci sei andato, scusa?”
Ma perchè lo sport è questo e De Coubertin sarebbe fiero di me. Il problema è che io non sono particolarmente fiero di me, ma come direbbero i latini, santiddio, “per aspera ad astra”. Attendo quindi con pazienza la mia batteria. Ci sono due cose belle: 1) la partenza è sul rettilineo opposto, il che conferisce al momento un’aura di eroismo (io penso che vada apprezzato ogni mio tentativo di spiegazione del perchè mi ostino a presentarmi alle gare su pista); 2) ti chiamano uno per uno, dicono il tuo cognome, tu rispondi con il numero del tuo pettorale, ti sistemi dove ti dicono di sistemarti, insomma, sembra una gara vera. Noto la presenza di gente che, facendo un rapido calcolo, non solo mi doppierà, ma potrebbe doppiarmi due volte, tipo quelle macchine sfigate di Formula 1, you know. Vabbe, mi dico, ma chi se ne
PUM!
O figa, si parte. Mariano Settorini è qui, bello reattivo. Ingaggio un duello sulla prima curva con un noto professore e con un tipo più alto di me e un po’ ciccione, non tanto, un pochino, diciamo corpulento. Supero Ciccio, supero il prof, il prof mi risupera. Tutto questo nei primi duecento metri. E nonostante questo sfrenato agonismo, questo superarsi e ricorrersi e mercarsi stretto e sportellarsi e sverniciarsi, insomma, nonostante tutto questo io, il prof e Ciccio
siamo gli ultimi tre.
Ma questo non è un problema. Questo era preventivato. Mi piazzo dietro al prof, sembriamo Moser e Saronni al trofeo Baracchi, solo che quelli arrivavano in copia, mentre io ai 2500 scoppio, mi affloscio. Vabbe’, ciao prof, vattene pure, io tengo il mio ritmo, le gazzelle mi hanno già doppiato la prima volta e io mi assesto tranquillamente al penultimo posto. Al che, facendo questa considerazione, mi sento pervaso da un senso di non so cosa, una sorta di frustrazione zen, non so se mi spiego. Vabbe’. Vado, ma sempre più lento. Mancano due giri e le gazzelle ripassano per la seconda volta, Iddio le strafulmini. Dlen dlen dlen. Manca un giro. E mentre sono lì che penso che tra poco stopperò il Garmin, tirerò il fiato, berrò un bicchiere d’acqua, insomma quelle robe lì, a meno di duecento metri dall’arrivo, in piena curva, in vista del traguardo, ecco, insomma, proprio in quell’istante cruciale,
Ciccio mi supera.
Mi supera e sprinta. E’ lui il penultimo. Io ultimo. Gli ultimi 50 metri li faccio con il morale a pezzi. Medito il ritiro. Come si fa a ritirarsi negli ultimi 40, 30, 20 metri? Potrei fermarmi, girare a sinistra, sul prato, tra gli occhi increduli del gruppetto che è sul traguardo e aspetta me per chiudere il cronometraggio, sì cazzo, potrei farlo, perchè no? ora mi fermo, vado sul prato e urlo
“Vi odio tutti!”
ma non lo faccio. Taglio in traguardo. Stoppo il Garmin. Ultimo, ma a 4′ 29″ al chilometro. Il podismo è crudele, ma hai sempre una soddisfazione. Magari lo 0. 1 per cento di soddisfazione, ma ce l’hai. Non odio nessuno. Viva il podismo. Viva Ciccio. Juve merda.
5000

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No more Zanetti

 
Così dice Wikipedia e io ci credo (ho visto, mi ricordo, c’ero, confermo), e nel credere mi inchino a questa orgia di cifre che, oggettivamente, fanno impressione e resteranno scolpite a lungo – o chissà, per sempre. Ne avrebbero diritto e facoltà. Ho fatto un ripassino sull’enciclopedia on line perché, come ho sempre confessato, non sono un fanatico zanettiano, ma riconosco nello zanettismo – quella particolare condizione sportiva  in cui si fondono fedeltà, longevità, serietà e qualità morali e sportive assortite – una cosa rara che va celebrata.
Javier Zanetti per me è tante cose, anche – anzi, spesso – in contrasto tra di loro. Si chiude la carriera di uno che ha giocato 19 anni nell’Inter da titolare, 15 da capitano. Numeri incommensurabili che hanno riscritto le statistiche nerazzure. 19 anni: un sacco di tempo. E’ stato il capitano di Inter insignificanti, zuzzurellone, sprecone, colossalmente sfigate, fallimentari, buggerate. E poi il capitano di Inter orgogliose, ciniche, vincenti, straripanti, triplettiste. L’Inter delle barzellette e l’Inter più vincente di ogni tempo hanno entrambe il suo volto, i suoi zigomi, la sua pettinatura scientificamente inspiegabile, le sue gambe sovrumane, le sue artistiche fasce da capitano. Il meglio e il peggio degli ultimi vent’anni di Inter sono vestiti di quella maglia numero 4.
Fino a quando il Mancio non gli ha cambiato ruolo e vita (dopo dieci anni di Inter), Zanetti ha incarnato per me una figura più simile al travet che non al condottiero. Poi, d’incanto, è diventato l’uomo del destino, il capitano a cui affidare le chiavi della squadra e dello spogliatoio, la guida morale e materiale. Oggi che beatificare va di moda, vabbe’, beatificatelo pure. Io, potessi parlargli adesso, prima della sua ultima partita a Milano, non ce la farei a fare nè il romantico nè l’epico. Non lo farei per onestà e per rispetto. Non gli direi un cazzo delle sgroppate, dei cross, delle palle rubate, dei polmoni d’acciaio e dei polpacci di tungsteno, delle coppe sollevate, degli scudetti cuciti eccetera eccetera. Gli direi solo questo:
“Javier, nel luglio del 2006, quando ci hanno restituito una piccola parte del maltolto, io sono stato contento per me e per te. Perchè entrambi meritavamo un risarcimento. Ti voglio bene”.
E poi lo abbraccerei.
In questa stagione, dopo l’ultima impresa scientifica e sportiva – recuperare come se niente fosse da un infortunio molto grave a 40 anni -, ci siamo abituati a farne senza, poco per volta. Sono stati mesi di addii per usura e sfinimento – Stankovic, Chivu – e sono gli addii peggiori, che inquinano un po’ la memoria di ciò che è stato. Per uno che fa venti stagioni e mille partite da professionista, del resto, esiste un addio migliore di un altro? Forse no, rassegniamoci a questo, punto, stop. Finisce qui. Ci sveglieremo la prossima stagione senza trovare il nome di Zanetti nella rosa. Ci verrà un po’ di ansia, che passerà. Bonimba, Giacinto, Spillo, Kalle… Fate spazio nei cuori nerazzurri, c’è un altro rimpianto da aggiungere, un’altra stella nel nostro firmamento.
Si ritira un vecchio campione: comunque sia, si perde sempre qualcosa. Grazie di tutto capitano. No scusa, la maiuscola: Capitano.
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