Non so perchè mi metto a commentare l’incredibile articolo di Repubblica.it che imbastisce un ragionamento astruso e delirante sul fatto che l’Inter ha ingaggiato un direttore marketing non italiano (e pure donna) e quindi bòn, moriremo tutti. Ho la sensazione di sprecare tempo e usurare i polpastrelli invece di farmi una bella pizza o vedere il terzo episodio della quinta stagione di Breaking Bad che è lì che mi dice “vedimi, santiddio”. Eppure questo pezzo è talmente clamoroso che merita due righe. Avessi avuto sottomano il suo numero di fax, lo avrei di botto mandato a Mourinho sottolineando con il pennarello uno dei passaggi finali, quello in cui si rimprovera l’Inter di avere assunto manager stranieri, di paesi “senza offesa, mondi lontani, troppo, per chi il pallone lo vive più con il cuore che con la ragione”. E insomma, mi sono detto, vedi Josè?, quella stessa stampa che – tra le mille cose – ci dileggiava per avere una dirigenza troppo milanese e troppo tifosa, farlocca e spendacciona, naif e confusionaria, ecco, adesso ci dileggia perchè abbiamo una dirigenza troppo straniera, con gente messa lì a fare cose precise, con un progetto alle spalle che prevede il rispetto di certi parametri e il perseguimento di certi obiettivi. Che minchiata di iniziativa, la mia. Josè mi avrebbe risposto: embè? Dove vivi?
Però gli direi: no scusa, Vate, un conto è esercitare la prostituzione intellettuale contro una società che si ribella, vince, stravince, rompe i coglioni, smazza il mazzo, sbriciola gli schemi, smaschera la malavita, l’Inter di Moratti, del Mancio, la tua (sospiro). Un altro è immaginarsi un caporedattore che trova in agenzia la notizia – l’Inter assume una manager americana come direttore marketing – e dice alla tizia in questione: dai, fammi un bell’articolo in cui diciamo che l’Inter è sempre meno italiana e quindi bòn, moriremo tutti. A Repubblica, va detto, l’Inter sta un po’ sui coglioni di default (sarà anche per via di quelle settemila inculate date alla Roma durante il favoloso settennio 2005/2011) (Repubblica è un giornale romano, don’t forget it): il giornalista titolare infila battutine e sarcasmo sull’Inter anche nella più innocente delle occasioni, la giornalista rincalzo ci va giù piatta per cercare di non sfigurare col titolare. Ma non è questo il punto. Il punto è: con lo sfacelo che abbiamo intorno, con un calcio italiano sputtanato e sempre più distante dai top club europei, con un’elezione alle porte in cui sta venendo fuori ancora una volta il peggio del movimento, ecco, ha ancora senso perdere tempo a prendersela con l’Inter? Probabilmente è questione di abitudine, un’inveterata e mai dissolta abitudine: non ho altre spiegazioni logiche, tecniche, giornalistiche, politiche e morali.
Per dire: lo stesso giorno in cui circola in rete lo splendido articolo sull’Inter di proprietà straniera che scomparirà dalla Terra nel giro di tot anni (bòn, moriremo tutti), Repubblica cartacea dedica un articolo alla febbre James al Real Madrid. Leggo e apprendo che il Real ha già richieste per 350mila maglietta con il numero 10 e la scritta James prima ancora che lo stesso James abbia toccato un cazzo di pallone. Leggo che le magliette official del Real costano 101 euro, e Repubblica fa i conti e dice che l’acquisto e l’ingaggio di James è praticamente già pagato. Vado avanti a leggere l’articolo e apprendo che le magliette n. 7 con la scritta C. Ronaldo hanno toccato quest’anno quota 1 milione. Repubblica fa i conti e dice che il Real ha un sacco di soldi e ci dispiace per gli altri.
Singolare, no? (o non è singolare?), che la stessa testata, lo stesso giorno, magnifichi il marketing del Real sottolineando i nomeri che lo rendono irraggiungibile, e preconizzi terrore morte e distruzioni all’Inter che assume una professionista del marketing internazionale come direttore marketing. Già, scelta bizzarra. Può darsi che a Repubblica (e al calcio italiano in generale) faccia piacere che il marketing dell’Inter continui a svolgersi in un seminterrato di San Siro e in un negozione in centro sopra Spontini. Uhm, sarebbe una spiegazione. E così, mentre le grandi squadre europee fanno mercati da capogiro mentre noi in Italia ci contendiamo i giocatori del Verona, mentre gli altri allargano i loro orizzonti e noi andiamo all’elezione della rifondazione (muahahahaha) Figc nel solito clima da mercato delle vacche, mentre i top tem europei fanno alte strategie e da noi gli allenatori scappano come ladri, ecco, perchè non fare un bell’articolo sull’Inter che così non sbagliamo? Moratti era un coglione troppo tifoso e troppo sentimentale, Thohir invece è troppo indonesiano e troppo razionale. L’Inter vuole vendere le magliette? Naaaaa, non si fa.
Quanto alle stronzate concettuali, sintattiche e grammaticali contenuti in frasi tipo L’Inter agli interisti è addio. Lo slogan e certezza dei tifosi sono stati cancellati in un là. L’anima dipinta con i colori del cielo e della notte non c’è più oppure Thohir ha sradicato le radici meneghine della società cancellando in un battito di ciglia le origini di un club che dal 1908 parla italiano e la cui squadra milita nella Serie A, beh, che dire? Del resto, a una che scrive Ratio, conti, bilanci, debiti, passività e attività sono, invece, le nuove linee guida dell’Inter. La ‘specialità’ i dirigenti stranieri. Il rischio ipotizzabile – in assenza di italianità ai piani alti della società – è un tracollo parziale sul territorio italiano, insomma, cosa vuoi mai replicare? Sradicare cosa? Tracollo de che? L’Inter non è addio, cara amico. L’Inter è gli interisti. Ma potrebbero dirti la stessa cosa i milanisti, gli juventini, i romanisti e giù giù fino al Feralpi Salò. L’Inter non sei tu, certo, ma siamo noi. L’Inter sopravvive nelle nostre sciarpe al collo, nei poster in cameretta, nelle bandiere sui balconi. Nel nostro stadio. Nella nostra Pinetina. E soprattutto nei nostri cuori a strisce nere e azzurre, a cui non interessa che lingua si parla nell’ufficio marketing. Ma queste sono ovvietà, di cui bisognerebbe tenere conto quando si scrive un articolo su una cosa di cui non si conosce una sega. Tre righe di agenzia si possono trasformare in quaranta di articolo, lo fa qualunque giornalista, ma senza per forza attraversare il magico e pericoloso mondo della metafora ad minchiam.
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