Che cosa sei

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Con una certa soddisfazione, alcune testate salutano – dopo il ritorno di “Pazza Inter” – il ritorno della pazza Inter: quella che va sotto di due reti e poi pareggia con la Lazio, che poi è la stessa squadra che va in vantaggio e poi si smarrisce e perde 2-1 con l’Udinese, e la stessa che va in svantaggio e poi rischia il tracollo con una squadra dalla dubbia sede sociale e poi vince 2-1 in Coppetta League, e la stessa che fa un mucchio di cazzate da almeno due mesi e tutta l’Italia è soddisfatta perchè l’Inter è pazza e  regala soddisfazioni a chiunque.
Tra novembre a dicembre l’Inter ha giocato dieci partite (tre con Mazzarri e sette con Mancini): sette in campionato e tre in Europetta League. Il bilancio è pessimo (2 vittorie, 5 pareggi, 3 sconfitte), e catastrofico se si considera il solo campionato (1 vittoria, 3 pareggi, 3 sconfitte). L’ultima partita di ottobre fu anche l’ultima vittoria in casa in campionato, rigorino all’ultimo minuto e ciao Samp. Sono passate nove settimane e sembrano nove mesi. Non solo perchè nel frattempo è addirittura cambiato l’allenatore, ma perchè dopo Inter-Samp – era la nona giornata – eravamo a un punto dal terzo posto e a “soli” sette dal primo e, in un certo senso, il mondo ancora ci sorrideva nonostante qualche punto buttato nel cesso e partite apocalittiche tipo Cagliari e Fiorentina.
E’ incredibile che sette partite dopo, pur avendo raccolto sei punti in due mesi, avendo perso più partite del Sassuolo, avendo preso più gol di 14 squadre su venti (due gol a partita nei due mesi demmerda), la situazione non sia del tutto compromessa. Il terzo posto è a sei punti – anche perchè lá davanti si balla il minuetto, un passo avanti e uno indietro – e se solo avessimo vinto con l’Udinese (ok, con i se e con i ma, certo, ok… ma stavamo vincendo in tranquillitá, no?) saremmo a tre punti pur con il nostro carico di partite di merda, di sprechi orribili e di equivoci da cui non usciremo mai. In un campionato che dal terzo posto in giù é una chiavica, noi – incredibile – possiamo ancora dire la nostra.
Punti di riferimento: ancora zero. Siamo quelli del primo tempo con l’Udinese o quelli del primo tempo con la Lazio? Siamo quegli sbandati del secondo tempo con l’Udinese o quegli arrapati del secondo tempo con la Lazio? Siamo arrivati al panettone e siamo una massa informe da cui esce tutti e il contrario di tutto, Kovacic che la mette al volo da 20 metri e Felipe Anderson che va due volte in porta col pallone, e via così, pazza Inter, verso l’infinito e oltre, sì, oltre il decimo posto e prima del dodicesimo.
Ora c’è il pandoro, poi la Juve (si gioca in Italia, quindi è probabile che ci faccia il culo) (ma noi siamo la pazza Inter, occhio). Dopodichè si staglieranno all’orizzonte il mercato di gennaio e una ventina abbondante di partite da giocare, più il Celtic. Può succedere di tutto, ma non chiedetemi cosa nè come: al 22 di dicembre non ci ho ancora capito un cazzo.
 
 

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Il sorriso di Franco

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Avevo conosciuto Franco in un’altra vita – la sua, intendo – quando faceva ancora il giornalista a tempo pieno. Era una riunione di capiservizio di non mi ricordo bene cosa a Roma, in via Po, alla nostra casa madre. Fatti due conti, io avrò avuto trent’anni e lui quindi aveva da poco passato i quaranta. Un flash di vita come un altro. Ma ovviamente lui e la sua sedia a rotelle, di tutto quel bla bla e di quella veloce trasferta romana, erano la sola cosa che mi erano rimaste impresse, così, di default, perchè stavo dando un volto a nomi e voci che già più o meno conoscevo, e nel suo caso c’era anche da dare una dimensione, inaspettata, che colpiva. Franco poi non l’ho più rivisto per quindici anni, finchè per ragioni di blog e di social network me lo sono ritrovato sulla strada da interista, pregio che mai mi sarei aspettato da uno che nel mio cervello era catalogato come giornalista padovano e bòn.
Ci scriviamo qualche volta. Un giorno vedo il suo nome stampato sul mio giornale, in una breve di cronaca, annunciato ospite di una iniziativa sulla diversità e sulla disabilità a Pavia. E allora vado in piazza della Vittoria e gli faccio la sorpresa: “Ciao Franco, sono Roberto, cioè, Settore, sì insomma, hai capito”. E’ domenica, un pomeriggio di sole, e lui ha scelto un angolo ombreggiato. Sullo sfondo le pellicce di Annabella. Di fianco c’è la sua compagna.  Gli  racconto di quella cosa di Roma e naturalmente non si ricorda un cazzo. But who cares? Stiamo già parlando di Inter e meno male che a un certo punto lo cercano perchè tocca a lui, da lì a poco, sennò avremmo fatto notte.
Franco era una bella persona, e taglierei corto così, con una formula banale ma terribilmente vera nel suo caso. Era un uomo impegnato, intelligente, coraggioso (molto), che è costantemente andato oltre gli ostacoli che la vita gli ha riservato. Quello che lo rendeva speciale era il suo sorriso, perchè ci vogliono due palle così per avere un sorriso così. Di fronte a una persona con le sue difficoltà, avresti dovuto essere tu ad avere il sorriso rassicurante. E invece ce lo aveva lui. Lui rassicurava te. Anche in questi giorni, in ospedale, era lui – scrivendo su Facebook, sui suoi blog, rilasciando a Telethon un’intervista che adesso è impossibile guardare senza commozione – che veniva a trovare noi, e non il contrario come doveva essere, e come mi spiace non aver fatto per scambiare ancora una volta, l’ultima, qualche battuta. Ringrazio Roberto Monzani per essere passato a trovarlo e avergli trasmesso, credo, l’affetto di noi tutti. Ecco, anche l’affetto. Doveva toccare a te essere affettuoso, premuroso. Macchè, lui lo era di più. Mi piaceva piacergli. Me lo scriveva, me lo diceva. Ci facevamo spesso i complimenti, ma non per convenzione. Lui era uno sincero, aperto. Franco, no? Non si è mai nascosto, anzi, stava in prima fila. Arrivava  dappertutto, anche in cima a quella micidiale scaletta di Inter Channel, dove gli piaceva un mondo andare a parlare di Inter con il suo amicone.
L’Inter. Con tutti i suoi guai, con tutti i suoi impegni, nel mezzo di tutte le sue battaglie, aveva sempre un posto per l’Inter. Ecco, se penso al suo sorriso e al suo essere interista, così interista, mi sale una gran malinconia e una gran tenerezza insieme. Sarebbe una bella cosa se domenica sera l’Inter si ricordasse di lui. Ciao Franco, e lassù insegna (no no no, ti vedo mentre mi mandi affanculo, vecio).
R.

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Meno male

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Cioè, c’era il problema aggiuntivo della scaramanzia statistica. Perchè l’Inter aveva giocato sicuramente altre volte il giorno del mio compleanno, figuriamoci. E con risultati alterni, ovvio. Tipo l’anno scorso, che mentre tornavo dalla maratona di Pisa ne prendevamo quattro a Napoli. O tipo il 2010, che vincevano la semifinale del Trofeo mondiale dell’Amicizia superfiga tra i popoli dei Continenti  conosciuti battendo il Gangnam Style per 3-0 guadagnandoci la finale a Budabi. Poi mica sempre abbiamo giocato, il 15 dicembre: io sono nato di domenica ma c’era la pausa per la nazionale, che il giorno prima aveva battuto l’Austria. Insomma, al limite si potrebbe fare del folklore sull’Inter del 15 dicembre, e morta lì.
Ma c’era un precedente specifico, santiddio.
Il 15 dicembre 2001, quando ero ancora un uomo normale e al 5 maggio mancavano ancora 141 giorni, assistevo collassato sul divano a una bellissima partita a San Siro tra l’Inter di Cuper e il Chievo di Delneri, pim-pum-pam, una serata frizzante di belle giuocate e impetuose discese sulla fascia. Ricordo distintamente due cose: 1) mi alzai soddisfatto per la bontá dello spettacolo; 2) realizzai che il Chievo aveva vinto 2-1, Corradi, Vieri, Marazzina, e dissi tra me e me qualcosa del tipo bontá un cazzo. Non so se la Saiwa giá producesse gli Orociok, io comunque non ne facevo ancora uso.
Quindi confesso che la mia mente malata in questi giorni  ha incrociato un po’ di dati: Inter, Chievo, 15 dicembre, toccarsi i coglioni, non guardare la classifica, no, no!, non pensare a cosa succede se perdi pure questa, no! argh!
Per cui ho vissuto male la vigilia.
Invece la partita l’ho vissuta benino. Handanovic ha di nuovo dato un senso al suo stipendio, Ruben Botta si è rivelato decisivo – giusto darlo in prestito, è giá cresciuto un casino, The man of the match – e abbiamo vinto, cosa che non accadeva da un po’. Adesso capeggiamo la classifica di destra, che é una specie di Intertoto morale. Inutile spendersi in troppe chiacchiere: ammesso che qualcosa succeda a gennaio, bisogna arrivare vivi e vitali al match con la Juve, possibilmente con altri tre punti. Dopodichè, cioè dopo i gobbi, inizierá il campionato vero, quello dell’ultima chiamata. Demazzarrizzati e definitivamente mancinizzati, saremo soli con le nostre responsabilitá e le nostre ambizioni. Per mantenere i piedi per terra e un giusto livello di aspettative, in attesa di più ampie conferme, consiglio questa terapia: pensate alla vittoria, ai tre punti, alla rimonta eccetera. Poi pensate a Guarin. Funziona.

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Povera Inter, e povero anche il Mancio

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Ci fosse stato Mazzarri, me ne sarei fatto una ragione con una battuta: “Eravamo abituati ad andare in svantaggio, e quindi quando ci siamo trovati in vantaggio ci siamo persi”. Ma siccome c’è Mancini, temo che la battuta acquisti un fondo di veritá. Questa Inter, dodicesima in classifica a 9 punti dal terzo posto (quanta malinconia, quanto dolore nel rassegnarsi a calcolare i punti dal terzo posto), è una squadra che non sa badare a se stessa neanche quando le cose vanno bene, quando domini per un tempo e ne puoi mettere due o tre, quando le cose insomma vanno bene e non c’è molto margine perchè si complichino troppo, e solo tu puoi farle andare male, impegnandoti, e lo fai. Mancini tira le somme di tre partite e la somma fa uno, un punticino con il Milan che è una specie di Inter (una squadra irrisolta) e poi due tranvate pesanti. A me, che da buon tifosotto amo vincere e mettere qualcosa in cascina, la settimana scorsa la soddisfazione per avere visto una buona Inter avendone prese quattro (4) suonava un po’ sinistra, un po’ provinciale, quasi provincialotta. Nel giro di una settimana siamo passati a un altro livello: abbiamo perso in casa con l’Udinese, però hai visto che bel primo tempo? Uh, molto bello, sì.
E adesso sono qui che guardo il soffitto come Pepe Carvalho, però con il mood under the shoes. Il Mancio si incazza di brutto, che è un piccolo passo in avanti rispetto alla ricerca della milionesima scusa. Però il risultato fa sempre zero, o uno, che è comunque pochissimo. La situazione si complica, perchè adesso si gioca decentemente a pallone ma il tuo miglior attaccante fa un passaggio indietro di 50 metri e tu lo prendi in culo. Palacio non riusciva a incidere sulle partite e ora l’ha fatto: vogliamo vederla così, con un ottimismo malato  post-Roma? E cosa dire delle diecimila iniziative sbagliate nel corso del secondo tempo spalmate su undici giocatori che a un certo punto non hanno più capito una sega di dov’erano e dove volevano andare?
A me davvero spiace per Mancini, perchè lui può fare un tot di cose ma non i cross, i passaggi elementari, i tagli, le diagonali e lo sguainamento di coglioni al momento giusto. Lui può rimettere in piedi l’Inter ma non gestire venti minuti di bambola generale, di impotenza preoccupante perchè – in una scala Richter delle partite complicate – se ti smarrisci completamente in casa con l’Udinese mentre vinci 1-0, quante cazzo di partite rischiamo seriamente di non portare (più) a casa?

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Inter meno Sassuolo uguale merda

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Avendo pareggiato il derby, perso a Roma e vinto una partita col Dnipro dopo essere andato a un passo da una storica tranvata (il rigore del possibile 0-2 con l’uomo in più era un match point), il Mancio non ha fatto molto più di quanto avrebbe potuto fare Mazzarri. Noi sognavamo il lieto inizio di una nuova favola, ma nessuno è attrezzato per i miracoli, i problemi sono seri e prima o poi dovevano venire al pettine. Tipo: dopo avere incontrato quasi tutte le squadre medie, medio-scarse e scarse del campionato, sono arrivate anche le partite in cui ci si può accontentare del pareggio e ci si può anche rendere conto che gli altri sono più forti. L’Inter di Mazzarri ha perso a Parma, giocato partite inguardabili tipo Firenze e Palermo, eccetera eccetera, e adesso al Mancio tocca il lavoro duro senza avere niente di scorta dopo tanti punti buttati  nel cesso.
E noi adesso siamo qua con un punto in due partite a sottolineare quanto siamo vivi e vitali, quanta più voglia esprimiamo, quanto margine abbiamo davanti. Abbiamo giocato meglio in queste due partite (un punto, però) che in tutte le partite precedenti. Tutto vero. Ma la luna di miele col Mancio – tutti con il cuoricino che batte nonostante l’undicesimo posto, in sè una roba da incubi dopo la peperonata – quanto ci manterrá l’umore e la soglia del dolore così in alto?
Le cifre ci dicono che se ci rimettiamo a fare punti il sotto-campionato (quello dal terzo posto in giù) è tutto da giocare. Ma dicono anche cose inquietanti. Tipo: avete mai provato a togliere i gol col Sassuolo (diciamo sei su sette, teniamone uno per un ipotetico 1-0 e confermare i tre punti)? Avremmo 14 gol fatti in 13 partite, una roba da provincialotta. Avremmo una differenza reti a meno 5, una roba tipo Cagliari o Empoli. Togli la sbornia col Sassuolo e resta la fotografia di un campionato inqualificabile. No, lo dico per frenare la tentazione opposta: metti tre punti in più (Parma, per dire) e vedi che saremmo messi dieci volte meglio. Sì, ok, ma qui siamo e questi siamo.
L’avvento del Mancio ha portato un’energia preziosa. Abbiamo rimontato quattro volte nel corso di queste partite, ed è un fatto. Ma, direbbe monsieur de Lapalisse, siamo anche andati sempre in svantaggio, e non è bello. Abbiamo un gioco, c’è un disegno. Ma guardo e riguardo i tre gol presi su azione a Roma e mi spavento a morte. Perchè ok, la Roma è la Roma, ma la nostra difesa dov’era e cosa faceva? Insomma, sará un processo lungo e faticoso. Bello e incoraggiante che se ne stia occupando uno come Mancini, tra i pochissimi di cui possiamo fidarci. Ma il tempo stringe. E siamo giá al primo ultimatum a uso interno. Perchè se non facciamo 7-9 punti (meglio 9, per quanto sia rischioso chiederlo a una squadra in queste condizioni e con questi precedenti) nelle prossime tre partite, quelle prima del panettone, che ci stiamo a fare?
 

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Piccoli segnali crescono

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Abbiamo vinto 2-1 giocando in dieci per 45 minuti, e scoprendoci migliori in 10 che in 11 (una consapevolezza che puoi acquisire solo se il tuo capitano giá ammonito si esibisce nel taekwondo durante una partita di calcio), conquistando il primo posto nel girone e rimanendo imbattuti in Europa, vestendo l’inguardabile maglia della nazionale infermieri e ferristi, con un gol di Kuzmanovic che non segnava da circa 27 anni, con l’allenatore che compie 50 anni e sconta una squalifica turca, con Salsano e Nuciari in panchina che neanche i fratelli De Rege (passare in 4 anni da Mourinho a Salsano & Nuciari, santa madonna), con Handanovic che para un rigore – il sesto consecutivo, perchè subire gol quando puoi provocare rigori? -, con un culo diffuso e clamoroso – ci vuole anche quello, almeno ogni tanto – che si sostanzia nei gol sbagliati in maniera creativa dal Dnipro e nei 74 rimpalli che mettono il pallone sul piede di uno che non segnava da 27 anni e fa gol con sette giocatori schierati davanti.
Al di lá di analisi che una vittoria ti può anche esentare dal fare, al di lá della confusione che regna ancora un po’ sovrana, al di lá del fatto che a volte le cose sembrano più semplici di quanto ti aspetteresti (del tipo: anvedi che certi giocatori rendono meglio nel loro ruolo ideale?), al di lá che il Mancio ne deve ancora fare di strada e l’Inter ancora di più, insomma, al di lá di tutto:
non è che per caso si sono riallineati i pianeti?

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Il fattore Gio

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Abbiamo tutti sognato di giocare il jolly come a Giochi senza Frontiere: no more Mazzarri, allenatore nuovo, vincere, inculare il Milan, beh, sarebbe stato bellissimo. Ci siamo autocontagiati di un entusiasmo forse al di sopra delle nostre possibilitá, e adesso siamo qui un po’ barzotti a rimirare, tra le rossastre nubi, un risultato che non sappiamo bene come valutare, se un mezzo successo o una mezza delusione. Il ritorno del Mancio, comunque sia, qualche risultato lo ha prodotto.
1. Considerazione banale ma necessaria: che Mancini potesse stravolgere la squadra in una settinana era una pretesa bella e buona anche per dei tifosotti strapazzati e delusi e vogliosi come noi. Un anno e mezzo di Mazzarri non si cancella con un colpo di ciuffo, forse nell’atteggiamento ancor più che negli schemi.
2. Il ritorno dell’entusiasmo – nella squadra e nel popolo – è un fatto, ed è fondamentale. Faccio sommessamente notare che, se non ci fosse stata la svolta, saremmo arrivati al derby dopo due settimane di Mazzarri sotto ultimatum. Roba che ti pigliava l’ansia anche per una rimessa laterale.
3. La squadra è questa, e i problemi restano tutti. Ma qualcosa si è visto e una strada nuova è stata aperta. Il Mancio ha fatto i suoi esperimenti, non tutti riusciti (Kovacic). Ma se solo recuperasse Guarin e sistemasse la difesa, l’Inter tornerebbe in pista. Seriamente.
4. Gioia e gioco. Chiamiamolo il fattore Gio. Sono due cose che avevamo perduto, noi e la squadra. Sono le prime cose su cui Mancini ha messo mano. Con la Roma sará un test micidiale. Ma in fondo quello che ci vuole per entrare nel vivo di tutto, dei casini e delle potenzialitá represse. O preferivate i seimila passaggi laterali a partita? Il gioco si fa duro e abbiamo la testa più sgombra. Il prossimo step è diventare cinici quando c’è da metterla. Come dar torto al Mancio? Se Wando Naro faceva meno la fighetta, porca troia, forse adesso stavamo qui a masturbarci con l’effetto Mancini.
 

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Le scuse che non ti ho detto

Le cose sono precipitate e Mazzarri non ha avuto più tempo: una telefonata e puff!, finito. Stava meditando una svolta, soprattutto dal punto di vista della comunicazione, ma non ha avuto l’opportunità di dimostrarlo. Tra le tante cose che ha pagato, la famosa frase “Poi è anche iniziato a piovere” è sicuramente tra le top five, o forse tra le top three, o forse è la top delle top, più ancora della difesa a tre o della punta unica con lo Stjarnan. Per questo aveva deciso di dimostrare che stava cambiando, che non era l’uomo basico che tutti conoscevamo, che le sue scuse avevano una profondità inapprezzabile a un primo esame e che forse non erano nemmeno scuse, ma briciole di umanità. Prima di tuffarci nell’era Mancio, ecco in un documento esclusivo le scuse che Mazzarri – aiutato da un ghost writer di cui non posso rivelare l’identità – era pronto a sfoderare in conferenza stampa. Chissà, avremmo imparato ad amarlo e un rinnovato clima di fiducia ci avrebbe portato verso traguardi inattesi. Non lo sapremo mai.
– Stavamo giocando bene, poi siamo stati condizionati dalle voci sulle dimissioni di Napolitano.
– Come puoi essere tranquillo quando ci sono degli occidentali che si arruolano nell’Isis?
– Stiamo pagando molto le gang-bang del giovedì.
– Con i ragazzi ci confrontiamo su tutto, anche sui problemi allo stabilizzatore ottico di iPhone 6 plus
– Il mercato dura tutto l’anno, guardate Stefano Folli che è passato a Repubblica.
– Con tanti infortunati è difficile esprimere il nostro potenziale artistico e architettonico.
– Nel primo tempo ho visto del gran calcio, poi ci siamo destrutturati come un piatto di Ferran Adrià.
– L’anno scorso avevamo nove giocatori in rinnovo, con la legge Fornero la situazione si è complicata
– Kovacic ha l’XFactor, ma non voglio soffermarmi sui singoli.
– Vedo i ragazzi disorientati, questa cosa della doppia spunta azzurra di Whatsapp non ci voleva.
– La difesa a tre è un buco nero, ne ho parlato con i ragazzi dopo aver visto Interstellar
– Poi è anche iniziato a piovere e il problema dell’eccessivo consumo di suolo si è visto tutto.
– L’Indonesia ha 238 milioni di abitanti e ne parlo spesso con il presidente.
– L’anno prossimo? Un bel trench-coat e sei a posto, sopra l’abito come sul denim.
– E’ innegabile, c’è preoccupazione per il patto del Nazareno.
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Il Mancio e quel triste 29 maggio di sei anni fa

“F.C. Internazionale ha comunicato al signor Roberto Mancini il suo esonero dall’incarico di allenatore responsabile della prima squadra, in particolare in ragione delle dichiarazioni rese dal tecnico all’esito dell’incontro Inter-Liverpool dello scorso 11 marzo 2008, di quanto ne è seguito, sino ai fatti più recentemente emersi nelle cronache giornalistiche”. (Comunicato F.C. Internazionale, 29 maggio 2008)
Nel giorno della ri-beatificazione e del #bentornatoMancio , secondo me una rinfrescatina alla memoria fa anche bene. A chi, in queste ore, per staccarsi un po’ dal coro ha rievocato un atteggiamento un po’ freddo e distaccato di Roberto Mancini dalle cose interiste nel periodo intercorso dal 25 maggio 2008 (Parma-Inter) al 14 novembre 2014 (ieri), a chi ha storto il naso e a chi gli ha addirittura dato dell’infame, volevo ricordare il più brutto e mafioso comunicato della storia dell’Inter, con il quale si metteva alla porta un allenatore che aveva vinto tre scudetti, l’ultimo dei quali quattro giorni prima. Il Mancio fece una grossa cagata la sera di Inter-Liverpool a prennunciare l’addio a fine stagione: quando un allenatore diventa un dead man walking la vita si  incasina a tutti e l’Inter vinse a Parma, col cuore in gola e a secondo tempo inoltrato, uno scudetto che in altre condizioni poteva vincere con tre o quattro giornate di anticipo.
Tre giorni prima della partita del Tardini, otto o nove quotidiani (che poi Mancini querelò tutti, e non so nel frattempo come sia finita, se si sia comprato un altro yacht o abbondanti scorte di tarallucci e vino) pubblicarono le intercettazioni allegate a un’inchiesta su un traffico di droga che portò a diversi arresti, tra i quali quello di un sarto che all’epoca  frequentava – in quanto sarto – l’Inter. L’Inter si stava per giocare lo scudetto e un bel po’ di giornali si esibirono in titoli del tipo “Mancini e i giocatori al telefono con il boss”. Va da sè che l’argomento delle telefonate erano pantaloni, camicie, orli, patte, bottoni, orologi, fighe, autografi e biglietti per lo stadio, ma sappiamo come funzionano le cose.
Il comunicato del 29 maggio 2008 dell’Inter, la mia Inter, mi fece intorcinare le budella. Perchè con il tuo allenatore avrai anche rotto i ponti, perchè qualche personaggio stava ormai potentemente remando contro, perchè quattro anni potevano anche bastare, perchè l’occasione di portare Mourinho a Milano era irripetibile – ok, va bene tutto, va benissimo – ma attaccarsi alle intercettazioni con il boss, no cazzo, quello no. No. Quel comunicato è una macchia eterna per una società che ha la nostra storia.
A pancia piena, a Mourinho in arrivo, è una storiaccia che abbiamo metabolizzata in fretta, ma che resta scritta. Resta scritta, immagino, soprattutto nel cuore di Roberto Mancini che oggi in conferenza stampa l’ha anche detto: “Mai mi sarei immaginato di tornare all’Inter”. E credo che il riferimento principale sia quello, siano quei tre mesi un po’ così che hanno chiuso una storia bellissima. Non penso che Mancini sarebbe mai tornato in un’Inter che avesse avuto in qualche modo continuità con quella. E infatti non c’è quasi più nessuno. Anche lo steso Moratti (cui Mancini è comunque straordinariamente grato), che quel comunicato in qualche modo avallò, è oggi nella posizione defilata che conosciamo. Oggi il discorsetto del più alto in grado è stato fatto in inglese. Per dire. E’ proprio un’altra Inter.
Sei anni? Bah, sembra passato un secolo. Il Mancio torna in un’Inter diversa. Purtroppo per lui, è diversa anche la squadra, che non ha il carico di voglia (una voglia repressa da 15 anni, all’epoca) e – soprattutto – di classe e di talento che trovò nel 2004, da allenatore rampantissimo alla prima grande occasione di una carriera nata d’amblè, con pochissima gavetta e con poche credenziali se non quelle da strepitoso giocatore. Torna a giocare una scommessa difficile e noi siamo con lui. Liberati di un peso.  Con il cuore che batte ancora per quel poco di nerazzurro che resta nelle nostre maglie gessate. Vai Mancio, con i rancori alle spalle portaci fuori dalla palude.
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Scusa se richiamo il Mancio

La decisione ha richiesto un certo tempo – mica in assoluto, ma relativamente a questa stessa settimana: d’accordo che c’è la pausa per la Nazionale, ma siamo pur sempre a venerdì, la gente se ne va scravattata in ufficio e pensa al massacro di coglioni che si farà l’indomani con la moglie all’Esselunga  o domenica al pranzo con i parenti – un classico micidiale week end senza campionato – e ti arriva tra capo e collo la notizia che Mazzarri se ne va, quel tipo di epilogo che hanno certe serie un po’ mal scritte, che hai capito come andrà a finire al quarto episodio e te ne restano da vedere diciotto.
Dunque, essendo una decisione che ha richiesto tempo, la possiamo definire più thohiriana (presa con il business plan davanti) o morattiana (presa con la pancia, il cuore e comunque con ogni organo che non sia quello deputato alle decisioni vere)? No, perchè eravamo rimasti a un Thohir thohiriano (progetto con Mazzarri, si vedrà a fine stagione, bla bla bla e comunque col cazzo che ne pago un altro) e a un Moratti morattiano (che Mazzarri l’avrebbe già fatto fuori minimo un po’ di settimane fa, come ai vecchi tempi), e invece qui avanza un ibrido, un Thohir morattiano che chiude il libro mastro alla voce spese e però lo apre alla voce ricavi e nota che sono in ribasso, forse preoccupantemente più in ribasso di quanto non siano in rialzo le spese, e prende una di quelle decisioni che se fossimo quotati in Borsa va-va-vuuuu-maaa, vabbe’, ma non lo siamo e potremmo accontentarci di riportare gente allo stadio e mostrare volti più distesi nei bar, e magari spingerci persino a veder comprare le magliette di M’Vila e Andreolli.
Siccome Thohir mi sembrava thohiriano puro, io  – come tanti – mi ero ormai rassegnato ad arrivare al 31 maggio in questo clima di smobilitazione morale, tra partite un po’ così e scuse post-partita ormai grottesche (che poi, a farci caso, anche le spiegazioni plausibili ormai si ammantavano in automatico di inattendibile, grottesco, ridicolo. No, non era un bell’andare per nessuno). E invece Thohir è forse un po’ più interista di come lo immaginiamo, o – più semplicemente – il paiolo rimediato alla Uefa e la lettura dei libri mastri ricchi di segni meno lo ha indotto a cambiare qualcosa.
La solita, unica, inevitabile, comoda scelta di mandare via l’allenatore non potendo cacciare vie dieci giocatori bla bla bla? Ecco, tra gli ultimi storici esoneri della storia interista questo mi sembra il più complesso. Perchè, se non fosse stato collocato in questo scenario di crisi un po’ tecnica e molto economica, l’esonero di Mazzarri sarebbe avvenuto tempo fa. Quanto non so, ma sarebbe avvenuto. Ma prima di cacciare l’allenatore più pagato della serie A oggi ci devi pensare dieci volte, e a Mazzarri – a parte il contratto-autocapestro – è stato riconosciuta anche l’oggettiva difficoltà di avere operato in una situazione al limite: su tutte, ti assume un presidente e tre mesi dopo te ne ritrovi un altro, pure indonesiano. Per questo io mi ero segnato sul calendario 2015 la data del 31 maggio e bòn, mi ero messo in modalità attesa.
La situazione ambientale però era ormai insostenibile. Non mi ricordo di una così corale insofferenza per un nostro allenatore covata in un periodo così lungo. Sostenuto ormai solo dalla curva (“perchè un interista vero non fischia mai”, ok, mi può anche stare bene, ma il diritto di critica cerchiamo di conservarlo: lo stadio successivo è la recisione dello scroto), Mazzarri era mal sopportato dal resto del popolo. Da alcuni odiato (non trovo altra parola). Questo in assoluto non è bello nè mi piace: anche un Mazzarri è parte di noi, del nostro emisfero interista, del nostro giochettino che ci mantiene vitali da decenni. E ultimamamente mi ero sorpreso a provare contemporanemanente una fastidiosa disillusione tecnica e una significativa pietà umana. Quel laser puntato sugli occhi, poveraccio. Un laser simbolico di tutta una situazione: è possibile lavorare così?
A me Mazzarri, stringi stringi, lascia un solo bellissimo ricordo. 14 settembre 2013. Lady Alvarez che va in tackle su Hulk Chiellini, Chiellini che salta via come un birillo, Alvarez che alza la testa e serve Icardi, Icardi che lascia sfilare la palla, tira e la mette. Miracolo, miracolo!, urlavo zompando intorno al divano. Dopo essere stati sei mesi nel frullatore di Stramaccioni, stavo rivedendo la luce: Alvarez che vince un tackle contro un wrestler, il ventenne Icardi che segna un gol da trentenne, un allenatore solido che sa quello che vuole. Epperò è finito tutto lì, il ricordo rimane il solo disponibile nella mia scheda madre. Cinque secondi in 17 mesi, mi spiace doverlo ammettere, è molto poco.
Mazzarri era stato preso per i suoi precedenti di allenatore non vincente, ma efficiente. Se voi leggete il libro di Mazarri, troverete (oltre alla plateali ragioni della sua frustrazione professionale, riassumibile nel concetto “io sono un grandissimo allenatore e il mondo non se n’è ancora accorto”)  la sua filosofia di fondo ripetuta alla noia. Quella di far rendere una squadra al massimo delle sue possibilità e di far aumentare il valore della rosa. Lo ha fatto a Reggio Calabria, a Genova, a Napoli. E lo ha fatto davvero, intendiamoci: ha preso una squadra penalizzata e l’ha salvata, ha riportato la Samp a livelli più che decorosi, ha portato il Napoli in Champions. Però l’Inter è un’altra cosa e lui non ha mai capito. All’Inter e agli interisti non puoi raccontare le stesse cose di Reggio Calabria, non puoi porti rispetto ai tuoi impegni, ai tuoi obiettivi, ai tuoi avversari come fossi alla Reggina. E’ la modestia delle prospettive, il profilo troppo basso anche per un’Inter un po’ fuzzy come quella di oggi che non possiamo non rimproverare a Mazzarri. Un profilo tanto basso che perdi a Parma e riesci a trovare delle ragioni per le quali abbiamo perso, invece di limitarsi a dire “scusate, io ho sbagliato tutto e la squadra ha fatto cagare. Avete altre domande?”.
Un allenatore così può trasmettere qualcosa – con tutto il rispetto – a un giocatore della Reggina che deve recuperare 11 punti di penalizzazione e che non ha niente da perdere quando gioca con squadre superiori alla sua, cioè quasi tutte. A un ambizioso e  strapagato – e comunque su un’altra dimensione, più elevata – giocatore dell’Inter serve dell’altro. Forse il Mancio, me lo auguro per lui e per noi.
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