L'asterisco e il bromuro

Soccer: Serie A; Sassuolo-Inter
L’Inter, la squadra dell’asterisco (*strapazzati, ok, ma con un netto predominio nel possesso palla), spero non la passi liscia. Dopo una partita così servono talmente tanti chiarimenti (squadra-società, squadra-allenatore, allenatore-società, squadra-tifosi, squadra-squadra) che ora è il caso di lasciar volare qualche straccio. Cadrebbe a pennello una bella pausa del campionato, una di quelle pause che normalmente ci fanno cagare e che invece stavolta consentirebbe di sistemare un po’ di questioni con la giusta tempistica: io faccio il culo a te, tu lo fai a loro, loro se lo fanno a vicenda (bei tempi quando ci si appendeva nello spogliatoio, oggi sembra che a nessuno gliene freghi una cippa). Invece no, c’è fretta, la solita fretta: c’è ancora qualche ora di mercato e poi il Palermo all’orizzonte, il derby del cuore del presidente Mattarella che per noi diventa – dopo 1 punto in 3 partite, 10 punti in 10 partite nell’era Mancio – una partita da ultima spiaggia (quale spiaggia, poi? La Champions, l’Europa league, la mediocritas, la salvezza?)
Forse un giorno verrà fuori che un cameriere infedele mandato da Squinzi ci ha messo il bromuro nella colazione, la Figc aprirà un’inchiesta e l’Inter di Sassuolo verrà riabilitata agli occhi del mondo. Ma se questo non è avvenuto, e nessuno quindi con la frode ci ha bombato di sostanze deprimenti e sedative prima del calcio di inizio, tutto quello che è successo in campo non è scusabile. Non è scusabile, nell’ordine più o meno cronologico:
1) smettere di giocare mezz’ora nel corso del primo tempo (tutti)
2) marcare (?) in un certo modo due giocatori avversari che vanno al tiro (Vidic, Palacio) e che infatti segnano
3) opporsi da mammoletta ai suddetti due tiri (Handanovic)
4) prendere una buona iniziativa e poi perderne quattro cattive (Guarin, Kovacic)
5) inseguire nel secondo tempo un contropiede avversario – forse l’unico – con un atteggiamento da oratorio (sapete, quando tre non tornano, altri tre si fermano per gridare “tornate, cazzo!”, e gli altri quattro che si guardano in giro e pensano tra sè e sè “speriamo che non segnino”) (tutti tranne Handanovic)
6) sbagliare a fare un cambio, che neanche nel Csi sant’iddio, neanche nel Csi sono così storditi (Mancini e staff)
E poi, ciliegina, andare sotto la curva a lanciare le maglie che giustamente nessuno vuole, perchè hai fatto una partita di merda per le ragioni di cui sopra e nessuno deve sentirsi assolto dall’avere fatto un secondo tempo appena decoroso quantomeno per l’iniziativa, e quindi andare belli belli sotto la curva come a dire “ci hanno inculati, però avete visto che bel possesso palla”. E poi, ragazzi, Reggio Emilia è ‘na passeggiata de salute. ‘Ste scene della maglia si fanno in Islanda o in Kirgizia, non a Reggio Emilia, che fa ridere. Quanto al fatto che ci siano persone più a rischio vaffanculo di altre, ecco, questo mi spiace, così come non è bello sentire un coro contro un proprio giocatore, un coro quasi ultimativo, nel senso che ricomporre sarà dura. E qui, tra giocatori che si escludono da soli e altri che etichettiamo da pezzi di merda ad libitum, la rosa si assottiglia da paura.
Poi, certo, si potrebbero accampare scusanti di un certo peso, tipo quello di avere fuori mezza difesa, tipo quello di essere stati anche un po’ sfigati (palo di Shaqiri). Il Mancio ha detto che non c’è problema fisico. Bene, ci dica qual è il problema: perché un problema ci deve pur essere. Apprezzo che a differenza del suo precedessore il Mancio tenti in ogni modo – anche il più apparentemente scomposto – di cambiare le cose anche in corso d’opera, ma mi lascia basito la sicumera con cui afferma che non meritiamo mai di perdere e che il dato del possesso palla dice molte cose. A me continua a dire un cazzo, soprattutto se in classifica segniamo zero ogni volta. Teniamo palla, facciamo la partita, manteniamo il controllo e intanto ci prendiamo delle tranvate che urlano vendetta: la classifica piange e noi con lei.

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La Grande Mexezza

Difficile trovare un senso compiuto alla squalifica per (sole) 4 giornate a Mexes. O meglio: non tanto un senso alle 4 giornate comminate in sè, quanto alle 4 giornate comminate in proporzione a recenti o addirittura contemporanei provvedimenti del giudice sportivo. Per dire, stesso giorno: Kone tocca con una mano l’arbitro che lo ha appena espulso per doppia ammonizione e ne prende 3. E’ il regolamento. Ok. E allora Mexes? Mexes – provocato con un calcio da dietro da Mauri, unica attenuante alla guapparia che ne segue – aggredisce due volte il Mauri medesimo (che non reagisce minimamente) tentando di strangolarlo e facendo il gesto di dargli una testata, poi prende per il collo anche Cana e infine se ne va a farsi una bella doccia con 17 compagni che lo trattengono. 4 giornate. Poi chiede scusa in tv, ok, bel gesto. Ma in campo sembrava un indemoniato tipo Linda Blair nell’Esorcista. E naturalmente il pensiero di tutti corre alle tre giornate rifilate al nostro Juan Jesus (diventate 4 per il cumulo con la squalifica “normale”) per una dubbia, dubbissima gomitate (nelle intenzioni, dico: la gomitata c’era, per carità) a Chiellini.
Ora, se il punto di riferimento è Antonio Inoki
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allora le 4 giornate a Mexes ci possono stare. Ma se il riferimento è Juan Jesus? Quante gliene dovevano dare? 5, 6, 8, 12?
Tra l’altro il fotogramma di Juve-Inter ci dice un po’ di cose:
jesus
Juan Jesus ha gli occhi chiusi. La gomitata c’è, eccola lì, ma non sarà frutto di un movimento scomposto nella foga di un cross che arriva, piuttosto che di un movimento volontario diretto inequivocabilmente alla faccia di Chiellini? Altra attenuante: anche a occhi chiusi, bendato e fatto girare tipo mosca cieca, se hai nelle vicinanze Chiellini è comunque assai probabile che tu, sbracciando, gli prenda il naso. Non è colpa di Juan Jesus se Chiellini ha una canappia da Guinness.
chiellini
Ma veniamo a Mexes. Com’è possibile che il suo minuto da Terminator sia stato valutato solo 4 giornate, se una mano addosso all’arbitro o un gomito sul naso di Chiellini  (due gesti istantanei, mentre la dinamica mexesiana ha fermato due minuti la partita) ne valgono 3, cioè i tre quarti di una piazzata del genere?
Siccome i giudici sono uomini, io credo che a influenzare le cose sia stato, appunto, il fattore umano, quella sfera di sentimenti, passioni e interessi che nutre le nostre anime (questa frase è molto bella). Per esempio, come non notare nella rissa di Mexes una serie di riferimenti cinematografici che potrebbero avere commosso i giudici sportivi nell’esaminare i procellosi eventi dell’Olimpico?
CALCIO SUL RING, DA CANTONA A MEXES 20 ANNI DI FOLLIE / SPECIALE
Questa per esempio è la scena madre. Tu a uno così, d’istinto, gli dai 7 giornate a stare basso. Eppure, come non pensare che la scena assomigli terribilmente, in un parallelo quasi subliminale, a un momento di amore virile che il cinema ci ha regalato di recente?
Brokeback1
E così – mettetevi nei panni del povero giudice sportivo che ha un cuore e un’anima, non è un bruto, legge e va al cinema – tu stai guardando Mexes che strangola Mauri ma in realtà pensi a Heat Ledger che abbraccia Jake Gyllenhaal in “Brokeback Mountain”. E lì ti scappa il primo sconticino: come escludere, a priori, che il gesto di Mexes, magari ruvido e focoso, non nascondesse dell’affetto?
Passiamo a un altro fotogramma che rivela un’altra cosa passata ingiustamente sotto silenzio:
Lazio-Milan
è chiaro che Mauri reagisce all’aggressione di Mexes con un saluto romano. E allora Mexes, che ha un nonno partigiano, uno zio morto in Normandia, un cugino deportato, una zia perseguitata e a Roma si trombava una che ha fatto le Frattocchie, come può reagire davanti a una cosa del genere? Ragazzi, tutto è relativo, non ci si può fermare alle apparenze.
Ma c’è un’altra fotografia che getta una luce particolarmente sinistra sull’accaduto:
La rissa tra Philippe Mexes e Stefano Mauri
qui entriamo dritti in una teoria negazionista che vorrebbe addirittura impunito Mexes. A sinistra si nota l’inquietante somiglianza tra Mazzoleni e Montolivo: se non sono fratelli, sono almeno parenti. E quindi ci sarebbe una palese irregolarità a monte. A destra, Biglia si precipita verso Mexes e Mauri e – guardatelo bene – sorride: è il chiaro segno di quanto la dinamica della rissa fosse quanto meno concordata. Secondo alcuni esponenti del M5S, l’aggressione non è mai avvenuta e ci sono dei serie dubbi che, in effetti, la partita Lazio-Milan sia mai stata giocata.
E veniamo alla seconda parte della guapparia di Mexes, l’aggressione a Oronzo Cana. Vediamo il primo fotogramma:
Lazio vs Milan - Serie A Tim 2014/2015
anche qui, mettetevi nei panni dei giudici sportivi e delle suggestioni di questi filmati da esaminare in un triste martedì di gennaio. Torniamo a Brokeback:
brokeback2
Impressionante, no? Ma stiamo più allegri, santiddio. Come non lasciare correre la fantasia a una scena ancora più scoppiettante che ricorda il tête-à-tête Mexes-Cana?
grease1
Massì, dai, ci sono degli incontestabili parallelismi con il balletto di John Travolta e Olivia Newton John in “Grease”. Cioè, tipo, guarda qui:
grease3
e adesso guarda qui:
grease2
Insomma, c’è tutto un disegno dietro. Oggettivamente, come avrebbero potuto dare 10 giornate a Mexes? No, dai, quattro vanno bene, anzi, sono troppe per un uomo così affettuoso e citazionista e legato a valori antichi. Resta, piuttosto, a proposito di cinema, un ultimo inquietantissimo mistero:
Lazio-Milan
no, dico, ma lo vedete? Cosa ci faceva Tommy Lee Jones in campo con la divisa sociale del Milan?
tommy

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Quel biondino coi calzettoni giù

cerilli
Dovessi tenere domani una lezione su “Efficacia di Facebook nelle relazioni del mondo contemporaneo”, cederei probabilmente all’enfasi nel raccontare che un giorno scrivo un post su una partita di Coppa Italia dell’Inter, facendo un ragionamento stralunato sulla gamma degli idoli – dagli idoli duraturi giù giù fino agli idoli di un giorno -, e 24 ore dopo, mentre sono al lavoro, sento “plin!”, apro Fb e vedo che a scrivermi è uno degli idoli in questione.
Beh, la vita non è bella? Franco Cerilli io l’avevo idealmente lasciato là, in mezzo al prato di San Siro, il capello biondo, la testa alta e il calzettone abbassato, e ritrovarlo 40 anni dopo che mi scrive su Facebook (gli ex idoli smanettano su Facebook, ecco, questo bisogna appuntarselo per la lezione) è una di quelle cose che ti fanno andare a casa contento. “Com’è andata?” “Da dio, mi ha scritto Cerilli”.
Cosa mi scrive Cerilli? Ragazzi, è tutta una meravigliosa melassa interista che se Zuckerberg ci avesse intercettato si sarebbe commosso fino alle lacrime e poi ci avrebbe incaricato di tenere – insieme – la lezione su “Efficacia di Facebook nelle relazioni del mondo contemporaneo” in diretta universale con tradizione simultanea, io da Pavia, Cerilli da Chioggia, Zuckerberg da sailcazzo e il mondo attonito ad ascoltare. Cerilli mi ringrazia delle belle parole e di essermi ricordato a distanza di 40 anni di quella partita e, in particolare, della sua partita. Io lo ringrazio di esistere e di aver disputato quella partita, proprio quella, cui ho assistito dai distinti dietro la porta (oggi primo anello blu) seduto tra i miei zii e non so chi altro, abbagliato come tutto lo stadio da quel ragazzotto fenomenale e semisconosciuto che nella sua prima partita da titolare nell’Inter faceva i numeri da palati fini. Il fatto che quella partita sia rimasta un’unica, isolata impresa ha sempre reso mitico, e mistico, quel momento, uno dei più particolari che ho mai vissuto allo stadio. Tu sai chi era Cerilli? No? Io sì.
cerilli5Stagione 1975/75, una delle peggiori del dopoguerra per l’Inter. Arrivammo noni. 30 partite: 10 vinte, 10 pareggiate, 10 perse. 26 gol fatti e 26 subiti. Che cifre precise, nevvero? In compenso, era l’Inter a essere imprecisa. Un’Inter di passaggio, all’esatta metà tra due scudetti distanti nove anni: c’erano Facchetti e Mazzola della Grande Inter, c’erano Boninsegna, Bertini, Vieri (ormai riserva di Bordon) e Giubertoni dello scudetto del 1971, c’erano i giovanissimi Oriali e Bini alle prime prove da titolare verso lo scudetto nel 1980 (esordirono anche Canuti e Muraro, giusto qualche minuto), e poi c’erano un po’ di giocatori che ci siamo dimenticati. Cerilli fu l’unico acquisto di quell’anno in cui Fraizzoli non volle spendere. Il campionato, per dire, iniziò con una sconfitta per 2-0 a Varese, che poi arrivò ultimo. Nelle quattro partite con Milan e Juve abbiamo fatto un punto. Anche nelle quattro partite con Roma e Napoli abbiamo fatto un punto. Ma per due volte, all’andata e al ritorno, prendemmo a pallate la Lazio scudettata. A Roma, il 3 novembre 1974, vincemmo 2-1. A San Siro, il 2 marzo 1975, c’eravamo io e Cerilli e finì 3-1.
Inter: Bordon, Fedele, Scala; Bertini, Facchetti, Bini; Mariani, Mazzola, Boninsegna, Cerilli, Nicoli. All. Suarez
Lazio: Pulici, Ghedin (6′ Petrelli), Martini; Wilson, Oddi, Nanni; Garlaschelli,  Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico. All. Maestrelli.
Arbitro: Ciacci.
Reti: 13′ e 63′ Fedele, 88′ Boninsegna (rig.), 90′ Chinaglia.
cerilli3Nel nostro breve scambio di reciproci complimenti su Facebook, in un attimo di lucidità, chiedo a Cerilli se gli andasse di sentirci 5 minuti al telefono per una chiacchierata su quei fottuti vecchi tempi. Ma certo, mi fa Cerilli, segnati il numero. No, dico: Cerilli che mi dà il numero. Altro che Scarlett Johannson: il mio idolo Cerilli! Ci diamo appuntamento per lunedì alle 10,30. Alle 10, 30 minuti e un millesimo di secondo chiamo.
Franco, tu non mi vedi ma sono inginocchiato. Intanto prendo due appunti sul pavimento.
Vai sereno, parliamone.
Mi hai scritto su Fb: sono sorpreso che qualcuno 40 anni dopo si ricordi ancora di me e di quella partita. E io sono sorpreso che tu ti sorprenda.
Beh, ne è passato di tempo… Comunque è un bel ricordo. E sono contento di avere dei bei ricordi, vuol dire che qualcosa ho fatto, no?
Allora, 2 marzo 1975, partitone della madonna, San Siro che intona il coro Cerilli-Cerilli, credo che sia il sogno di qualsiasi uomo da Neanderthal a oggi.
Fu bellissimo, in effetti. Direi i giorni più belli della mia vita, tenendo conto che due giorni dopo, il martedì, il 4 marzo, nacque mia figlia.
Che filotto!
Giorni indimenticabili. Quella partita a San Siro, i complimenti, l’abbraccio dei compagni, i giornalisti che mi cercavano, mi figlia che nasce.
Avessi anche segnato quel gol durante Inter-Lazio, porco cane, sarebbe venuto giù lo stadio.
E io avrei davvero coronato nel modo migliore il momento più incredibile che mi sia mai capitato. Peccato, io ero tutto sinistro e la palla mi capitò sul destro. Vabbe’, mi posso accontentare.
Me lo ricordo, io ero dietro la porta.
Non si può avere tutto, fu fantastico lo stesso.
cerilli2Franco, avevi illuminato San Siro, ti giocavi finalmente la tua chance (ti avevano preso in estate e lì eravamo già a marzo) ma poi le cose non sono andate altrettanto bene.
La domenica successiva c’era il derby e Suarez mi schierò di nuovo titolare. Il problema è che non mi mise nel mio ruolo, là in mezzo, tipo con la Lazio, ma sulla fascia. Dovevo tamponare le discese di Sabadini. Ma tu l’hai presente Sabadini? Un terzinone vecchio stampo, era il doppio di me, correva il doppio di me. Che ci facevo lì a difendere? Sai, poi con il tempo ho ripensato a questa cosa e ho trovato la risposta, forse.
Dimmela, ti prego.
Allora, quando giocavo alla Massese tutte le domeniche ero visionato dalle squadre di serie A. C’era l’osservatore della Fiorentina, c’era quello dell’Inter, e c’era anche quello del Genoa.
Chi era?
Suarez.
Maddai.
Anni dopo venni a sapere che Suarez mi aveva bocciato. Che poi, intendiamoci, fu la mia fortuna: il Genoa lasciò perdere e si fece sotto l’Inter, no? E infatti vado all’Inter, e chi ti trovo come allenatore?
Suarez.
Ecco.
Cioè, insomma, non ti vedeva molto.
Ecco.
E l’anno successivo con Chiappella?
Chiappella era molto legato ai senatori della squadra, la vecchia guardia giocò un’altra stagione da titolare. E poi quell’anno arrivò Marini, titolare anche lui. E arrivò Pavone, titolare anche lui. Insomma, non avevo molto spazio. E quindi l’anno dopo passai al Vicenza.
Dove avresti fatto un secondo posto in campionato, altra tappa fondamentale della carriera. Torniamo all’Inter: cosa ti porti ancora dietro di quei due anni?
Tutto. Fu un momento fondamentale per me, non solo come calciatore ma anche come uomo. Per dire: un giorno andiamo a Fano per un’amichevole. Nello spogliatoio Mazzola si siede accanto a me e mi dice: ragazzo, ricordati che hai addosso la maglia dell’Inter e che devi onorarla sempre, anche se giochi contro una squadra di serie C. Sai, sono cose che poi non ti dimentichi.
Ho conosciuto un tuo compagno di squadra di allora, Roselli, quando ha allenato qui a Pavia. Anche lui arrivava dalla C, anche lui due anni all’Inter e poi via dopo una manciata di presenze. Mi ha detto: peccato, forse ero troppo giovane.
Sì, forse potrei dirlo anch’io, ma di quei due anni non rinnego niente. Mi sono trovato a giocare accanto a miti del calcio, gente che appena qualche mese prima vedevo giusto sull’album della Panini. Una sera, non molto fa, sto guardando la tv con mia moglie e incappo in un programma su Mexico ’70. Resto un po’ lì e poi le dico: ma ti rendi conto che con Mazzola, Facchetti, Boninsegna e Bertini ci ho giocato anch’io?
Hai conservato qualche contatto?
Ogni tanto capita di sentirsi o di incrociarsi da qualche parte. L’ultimo è stato Bonimba, ci siamo telefonati dopo non so quanti anni e mi ha fatto un grandissimo piacere. Che giocatore, ragazzi: in campo era cattivo come una bestia, fuori un uomo di una dolcezza incredibile.
Oggi per chi fai il tifo?
Tutte le mie squadre le ho nel cuore. Inter, Vicenza, Padova, tutte.
Senti, ma quei calzettoni abbassati? L’Inter aveva appena ceduto Corso e tu sembravi il nuovo Corso, uguale uguale.
In realtà il mio era un omaggio a Sivori. Imitavo lui.
Dio mio Franco, non è che per caso sei stato (lampi, rumore di tuoni) juventino?
No no, non ero juventino, ero sivoriano. Tant’è che quando Sivori è andato al Napoli io sono rimasto sivoriano. Per me Omar è stato il più forte di tutti i tempi. L’ho visto per la prima volta allo stadio, ero con mio padre, avrò avuto 12 o 13 anni. Ne fui folgorato. No, dico, vai su Youtube e guarda Sivori. Sì, certo, Pelè, Maradona, Messi, potremmo stare qui a discuterne per settimane, ma il più forte per me era Sivori.
Adesso il calzettone abbassato non esiste più. A me dava sempre un brivido.
Eh, adesso è vietato. Ma allora si poteva. Dicevano che era una sfida: vieni, picchiami, non ho paura di te, non ho nemmeno i parastinchi. In realtà io volevo solo assomigliare a Sivori. Ma già da ragazzo, eh? Un giorno, giocavo a Sottomarina, il presidente mi fa: ehi bambino, tira su le calze, dove cavolo credi di essere? L’ho fatto, poi appena entrato in campo li ho tirati giù”.
cerilli4Franco, e come butta lì a Chioggia? Che fai oggi?
Alleno. Fino a due anni allenavo nei dilettanti, ora mi occupo dei bambini tra i sei e gli otto anni. Mi piace, è bello stare in campo con i bambini.
Non solo perchè sei nonno.
No no, perchè mi piace insegnare come si gioca. Oggi il calcio è troppo fisico, tutti palestrati, la tecnica passa in secondo piano. Hai visto l’Inter col Toro? Si infortunano tutti perchè sono ipersollecitati, c’è un’esasperazione della fisicità che solo in parte comprendo. Il calcio è tecnica”.
Quanto hai ragione.
“Il calcio non è palestra. ‘scolta, il calcio è un’altra cosa”.

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La supremazia dei miei coglioni

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Diciamo che poche cose fanno più incazzare di un gol preso al 94′ su calcio d’angolo. La partita è finita, è l’ultimo pallone che pioverà verso la tua area e la missione è andarci in undici e prenderlo, uno su undici, santa madonna, uno su undici ce la farà! E invece no, la prendono due (due!) del Toro e la palla va dentro. Ecco, a prescindere da tutto questo – calci in culo! -, non è che se fosse finita 0-0 sarei qui a cantare il peana. No, dico, che partita di merda abbiamo mai fatto? Il Mancio è soddisfatto dell’iniziativa, della supremazia territoriale eccetera eccetera. Quindi, ecco, aggiungetemi un bell’asterisco alla classifica: punti 26*
*(bravi nella supremazia territoriale)
Era stata una partita incubo. E’ un incubo che, parlando di sonno, ogni tanto mi capita: nel sogno, cerco di fare qualcosa (o entrare o uscire da un posto, o cercare qualcuno) e non ci riesco. Dopo un tot di tentativi, mi sveglio tutto sudato e con i coglioni girati. Ecco, Inter-Toro è stata la stessa cosa: abbiamo cercato insistentemente di – non dico fare gol – tirare in porta, e non ce l’abbiamo mai fatta. Finiva 0-0, bleah, però se tiri 15 volte e prendi un palo, sbagli il giusto e il portiere fa i miracoli, ecco, nessuno avrebbe da dire nulla. Ma se tutta ‘sta supremazia si traduce nel quasi nulla, allora io sudo sul divano e sento i coglioni girare a mille, prima che la frequenza salga a tremila quando vedo Moretti chinarsi e segnare di testa a un metro dalla porta al minuto 94.
Il Mancio è soddisfatto per la supremazia, ma l’abbiamo preso nel culo. Anche questo capita, per carità, è lo sport, è il calcio. Ma tutta questa leziosa supremazia, fatta di settemila passaggi laterali tipo rugby (facendo cioè attenzione a non farli in avanti), non è un po’ poco come obiettivo di qualità? Non c’era anche una scarsa brillantezza di comprendonio che ogni tanto sfociava in un po’ di indolenza? (questo è scocciante: qualcuno ha visto un forcing finale? Un accenno, almeno?) Non c’era un accanimento a cercare sempre la stessa soluzione anche se questa non produceva nulla?
Conta tanto anche il fisico, certo. Abbiamo l’infermeria piena, cazzo, e alcuni giocatori chiave in condizioni ancora farlocche. Però se alcune cose sono certe – siamo l’Inter, vogliamo arrivare terzi in campionato, vogliamo vincere l’Europa League, vogliamo vincere la Coppa Italia – serve comunque un cambio di passo. Nessuno stende tappeti. Arriveranno altri Torini a San Siro a difendersi con agili 7-2-1, e altri ne troveremo sparsi per lo Stivale man mano che la lotta per la salvezza renderà tignose le squadre presunte facili. Quindi, io spero che l’Inter si abitui a non vincere facile. Mentre noi, qui, dagli spalti o dai divani, non vorremmo abituarci a segnare molti asterischi della supremazia e pochi punti. Punti. Pochi. La tabella Champions post Inter-Genoa è cominciata con un punto in due partite. Empoli e Torino, mica Bayern e Real. A febbraio abbiamo un mucchio di cose da fare, e così – a sbalzi – non va bene.
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Waka waka

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Ecco, in effetti noi avremmo bisogno di un idolo. De-tripletizzata la squadra, ora in fase di thohirizzazione e mancinamento, avremmo bisogno di un qualcuno da cui aspettarci qualcosa, ma non in un semplice rapporto tifoso-calciatore (io tifo Inter fin da quando ero bambino e tu, mercenario strapagato momentaneamente fasciato dei miei colori, sei pregato di farmi vincere la partita), ma in un più complicato e affascinante rapporto tifoso-idolo (io tifo Inter fin da quando ero bambino e in quanto tifoso sono un mentecatto squilibrato e tu, mercenario strapagato dei miei coglioni, mi piaci oltre ogni ragione e ti concedo qualsiasi cosa perchè sei il mio idolo e gli altri non sono un cazzo).
Per dire: Recoba era un idolo. Io lo avrei strozzato a mani nude, e ha avuto l’impulso di farlo almeno settantacinque volte, ma ammettevo che da lui era lecito aspettarsi un qualcosa, anche perchè vedevo gli altri – quelli per cui Recoba era davvero un idolo, e io non li capivo fino in fondo, anzi, li sfanculavo di frequente – che avevano una strana luce acquosa negli occhi – una canna? no – perchè loro erano sicuri che il Chino, anche nel corso di una delle sue numerose partite di merda, un qualcosa avrebbe tirato fuori. Questa sfumatura l’ho capita quando un figuro seduto davanti a me, dopo un gol di Di Biagio di testa su calcio d’angolo tirato da Recoba stretto sul primo palo, pem!, si mise a saltare come un bambino urlando “Il cervello è bacato, ma il piede è telecomandato!” e lì capii per la prima volta che ci sono gli idoli ad personam o settoriali, insomma, ognuno ha il suo, e magari attualmente c’è qualcuno che come idolo ha Kuzmanovic e io lo rispetto.
Ecco, però noi, interisti del 2015 con le balle un po’ fruste, avremmo bisogno di un idolo corale. Un idolo corale che duri. No, perchè ci sono anche gli idoli caduchi, o addirittura gli idoli istantanei. Io ho vissuto a San Siro a metà degli anni Settanta una partita così, in cui a un certo punto – era un’Inter-Lazio finita 3-1 – tutto San Siro (tutto San Siro!) intonò il coro Ce-Ri-Lli Ce-Ri-Lli, una cosa bellissima, un omaggio a un giovane calciatore con i calzettoni abbassati che illuminò quella partita – era in trance agonistica, sembrava Suarez, giocava a testa alta, serviva palloni deliziosi – e io lì, anch’io, Ce-Ri-Lli, arghhhhhh!, e Franco Cerilli poi di fatto sparì, e però giocò una partita da idolo, e io c’ero e lo ringrazio perchè son cose che si ricordano.
No, ecco, però a noi oggi l’idolo usa-e-getta serve  poco o nulla. Ci servirebbe  un idolo vero, corale, mediamente duraturo. Che poi, non so se si è capito, l’idolo mica deve per forza essere il più forte. Ovvio, forte lo deve essere, ma niente superlativi assoluti o relativi. Serve uno di cui intravvedi una dote superiore (tipo Recoba, che poi ne aveva una decina inferiori, di doti, tra cui il cervello, ma quel sinistro, quel tiro, quel lampo di follia), uno che ti trasmette un brivido, uno per cui metteresti la mano sul fuoco perchè lui ci sta mettendo le gambe e le palle.
Uno da cui aspettarsi un qualcosa. Tipo lo Shaqiri di Inter-Samp, tipo, per dire.

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Lento pede

Empoli - Inter
Nella città di Mazzarri siamo ritornati un po’ mazzarriani, come se la mazzarrite fosse nell’aria, un virus tipo Ebola, e noi scendendo dal pullman lo abbiamo preso, trac!, che sfiga. Un virus meno feroce, non mortale ma bastardo, comunque preciso negli effetti: toglie idee, lucidità, brillantezza, tipo quelle influenze gastrointestinali che nei due giorni in cui stai seduto sulla tazza pensi solo alla dissoluzione del tuo corpo. Ho l’impressione che l’Empoli abbia fatto un partitone, anche se poi potremmo star qui a discutere sulle percentuali esatte del brutti noi/belli loro. Di sicuro, del primo tempo con il Genoa è rimasto poco o nulla, e son passati appena 6 giorni, dannazione. Uno zero a zero che è il quinto risultato utile consecutivo in campionato (due sole vittorie, però), il sesto risultato utile consecutivo contando anche lo 0-0 a Qarabag. Ecco, dopo lo sciagurato secondo tempo con l’Udinese abbiamo sempre portato a casa qualcosa, prendiamola così, in fondo non è così banale. 8 gol fatti e 4 subiti in sei partite, anche questo non è affatto male in assoluto  (no, dico, eravamo passati in negativo). Però se qualcuno aveva segnato tre punti a Empoli nella tabella post-Genoa, ecco, siamo già in ritardo netto. Vedo montagne di tabelle appallottolate nel nostro gigantesco e ideale cestino. La rimonta è avviata, ma lentamente. Oddio, firmerei se mi dicessero: ogni due giornate recuperi una posizione. I conti tornerebbero. Ma ci manca ancora un po’ di spietatezza, non ci si può accontentare di partite così, poi si scappa la poesia e puff. Per dire: se giochiamo così mercoledì con la Samp, in una partita fondamentale – l’ha detto il Mancio che le Coppette bisogna vincerle -, rischiamo l’overdose da Orociok, e siamo solo a gennaio.

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Tu che mi abbatti il Mancio

Poche balle: l’acme calcistico di queste ore non è il Pallone d’oro a Ronaldo e nemmeno il selfie di Totti, ma la pallonata in faccia a Mancini. Questo blog non rinuncia alla sua vocazione di blog di inchiesta e di impegno sociale, e quindi trovo giusto scavare dietro questo episodio – apparentemente marginale –  per capire un po’ di più di Mancini, del mondo Inter e del calcio come fatto di costume e di vita.
Questa, intanto, è la foto del Mancio prima dell’incidente:
Roberto Mancini - Allenatore Inter
allora, qui preliminarmente notiamo come il nostro allenatore abbia investito almeno metà delle prima mensilità non per comprare un nuovo Gps per lo yacht, ma uno sciarpone monumentale per il quale saranno state tosate almeno 150 rarissime pecore del Kashmir subcontinentale. A giudicare dal numero dei giri e dei nodi, lo sciarpone è lungo almeno 4 metri e pesa 6,75 kg, per un prezzo di mercato pari al Pil del Nicaragua.
Ma veniamo all’accaduto:
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Mancini viene colpito dalla pallonata. Da notare l’estrema eleganza del gesto: con la destra mima il gangio-cielo di Kareem Abdul Jabbar, la sinistra resta in tasca da vero gagà. Lo sciarpone si apre e si nota la perfezione del nodo della cravata. Sulla sinistra, il quarto uomo guarda altrove: la prova provata che i collaboratori dell’arbitro non servono a un cazzo.
Avanziamo di un fotogramma:
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Il Mancio assume la posa di Nino Castelnuovo nel celeberrimo spot dell’olio Cuore. Da notare che, curiosamente, cadendo la sua pettinatura diventa del tutto simile a quella di Solange. Sullo sfondo, nel disinteresse generale, una persona si mostra finalmente molto turbata dall’accaduto.
Andiamo avanti:
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si noterà come il pallone sia ancora in volo dopo il triplo tolup del Mancio, testimonianza di come tutto sia accaduto in poche frazioni di secondo. Da sinistra verso destra tre particolari molto importanti: 1) le scarpe del Mancio costano almeno 1500 euro; 2) la mano del Mancio rimane in tasca, segno di eleganza innata anche a rischio di fottersi lo scafoide (e qui apro una parentesi: Mazzarri cade dalla scaletta e si frattura il metacarpo, Mancini rischia la vita e il polso e non si fa un cazzo. No, per dire); 3) da questa inquadratura, complice il sole che in quel momento bacia Milano, è evidente che il Mancio si tinge i capelli di un castano chiaro molto tendente al biondo, una via di mezzo tra Matthew McConaughey e Claudio Lippi. Ora, occhei, io ho avuto personalmente una polemica con il Mancio sul fatto della blefaroplastica, occhei, ma qui mi sembra tutto molto chiaro.
Quinta fotografia:
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i due massaggiatori dell’Inter si sincerano che l’allenatore sia ancora in vita e, soprattutto, lucido: Della Casa gli chiede “Thohir ti ha comprato Cristiano Ronaldo al mercato di gennaio?” e il Mancio risponde correttamente “Fino al 2 febbraio tutto è possibile”. A sinistra, Izzo, il mostro del Circeo, si avvicina e chiede a Mancini come sta e, per caso, se c’è posto all’Inter. Dietro, un delusissimo Nebuloni sperava di raccontare una morte in diretta e niente, gli è andata male, manco un graffio, un’epistassi, niente, un cazzo, ma vaffanculo. In primo piano, la ragione per cui Mancini ha tenuto la mano in tasca: non graffiare l’orologio da 75mila euro.
Ultima fotografia, la più inquietante.
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Andreolli. Come è noto, è stato lui a tirare la pallonata in faccia al Mancio. Un tiro secco, preciso. Pum! Non s’è manco fermato, è andato subito a coprire in difesa, diligentemente. Izzo è andato a sincerarsi che il Mancio fosse vivo, Andreolli un cazzo, via, arrivederci e grazie.
Ecco.
Caro Andreolli, ma se a uno che ti schiera titolare con la fascia da capitano tu tiri una pallonata in faccia, voglio dire, cioè, se Thohir ti prolunga il contratto e ti aumenta lo stipendio cosa gli fai, gli ciuli la moglie?

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Il mio nome è Riccardo

Soccer: Serie A; Inter-Genoa
In ordine a un adeguato sentimento di accoglienza nei confronti dei due nuovi arrivati in casacca neroazzurra, e in virtù di un singolare orario di svolgimento che non entrava in collisione con i rispettivi impegni, io e Gigi Furini decidemmo di acquistare in prevendita il titolo di ingresso per la partita di giuoco calcio tra Internazionale e Genoa in programma allo stadio Giuseppe Meazza in Milano. Ci recammo quindi venerdì 9 gennaio al botteghino dove l’addetto, qualificandosi come juventino viscerale, con uno sgradevole sorrisino del cazzo ci chiedeva i documenti e compilava stancamente il modulo sul calcolatore elettronico, stampandoci indi i biglietti del primo anello blu nell’apposito supporto cartaceo.
La giornata di domenica iniziava con Pavia avvolta in una suggestiva nuvola di nebbia che gelava anche i coglioni. Mi reco al luogo dell’appuntamento dove, con la visibilità ridotta a 50 metri, scambio Furini prima per un venditore ambulante di torroni e poi per una badante ucraina, che quasi faccio salire in macchina al grido di “Ciao Gigi, santamadonna, forza Inter, ti sei inchiattato parecchio!” prima di accorgermi che era un donnone di Donetz in libera uscita.
Si parte. All’arrivo sull’antistadio, sotto un sole cocente che mi fa pensare che Pavia almeno dal punto di vista microclimatico sia un posto veramente di merda, Furini mette mano al portafoglio per distribuire i biglietti. Prende il suo, leggendo “Furini Luigi”, e mi allunga il mio leggendo “Torti Riccardo”. Ahahahah, il solito buontempone, dico io. Ma dal suo sguardo attonito capisco che non è uno scherzo. Il bigliettaio gobbo ha scritto davvero “Torti Riccardo”.
biglietto
Infame maledetto, muoia tra atroci pene, o almeno Iddio e l’Asl gli facciano chiudere il bar. Mi trovo così in fila al cancello sudando freddo, avvicinandomi via via allo steward e prefigurandomi la scena: lui che vede che biglietto e documento non coincidono, lui che chiama i gendarmi e io che vengo perquisito sul posto e quindi tratto in arresto, io che arrivo a San Vittore e chiedo di avere una cella singola, o almeno con Sky, per assistere almeno al secondo tempo in attesa del mio avvocato.
Tocca a me. Deglutisco. Allungo biglietto e documento.
“Torti Riccardo o Torti Roberto?”
“Ti spiego. Io mi chiamavo Torti Riccardo, ma non sopportavo più il mio nome che mi ricordava Alvarez. Ho chiesto alla Corte di Cassazione di cambiare identità e la Corte ha emesso la relativa sentenza proprio venerdì pomeriggio. I biglietti li avevo fatti la mattina con il nome vecchio”.
“E come mai la patente è Torti Roberto?”
“L’ho rifatta ieri mattina, ho un amico in Motorizzazione”.
“Ah ok, allora puoi andare”.
Il primo tempo è poi trascorso in un’estasi calcistica, determinata dalla visione di una squadra trasformata, di un Podolski alto di gamma, di un Palacio ritrovato, di un Guarin che non pare più quel Guarin, di Vidic e Andreolli che sono vivi, di Shaqiri che scalpita in panca, di bei passaggi, di bei fraseggi eccetera eccetera eccetera. L’intervallo è poi trascorso scattando foto a Furini e ai suoi fans, compreso uno che mi fa:
“Scusa capo, ma tu sai come faccio a scattare le foto? Inquadro solo la mia faccia con questo cazzo di telefono, mi sa che mi hanno fregato, cinesi di merda”.
“No, amico, basta che fai così”.
“Capo, sei un mago della telefonia e dell’informatica. Sei hai l’Iban ti faccio una donazione, mi hai salvato la vita”.
“Ma no, figurati”.
Il secondo tempo è poi trascorso in maniera meno serena, ma l’importante è avere vinto, avere rivisto il gioco – il gioco! -, avere respirato aria nuova. Mentre esco torna il tizio a cui ho girato il verso del mirino con un semplice clic.
“Ti prego, fammi fare qualcosa per te, sei l’angelo della telefonia, #jesuistortiriccardo, hai salvato me e il mio telefono tarocco, ti prego”.
“No fratello, va in pace e tifa Inter”.
Festeggiavo quindi la vittoria con una focaccina cotto e fontina del costo di soli 4 euro, non molto più cara di un cornetto Algida allo stato semiliquido. E’ davvero un nuovo corso.
Inter - Genoa

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L'amica ritrovata

icardi
Giuro, quei due minuti intercorsi tra l’entrata in campo di Osvaldo e l’espulsione di Kovacic – due minuti, 120 luridi secondi – sono stati i miei due migliori minuti di Inter da non so quanto tempo a questa parte. Tra melasse mazzarriane, squadre senza patria, partite della minchia e mediocrità diffuse, mi ero dimenticato di certe sensazioni. Ho visto intere partite rischiando le piaghe da decubito, addormentandomi come un vecchietto post-prandium, smadonnando senza Dolby surround, esultando con simil-sbadigli (go-awwwwgh-lll), senza nutrire grandi attese e aspettando senza fregole la fine dei novanta minuti. Un paio di partite di Coppetta le ho saltate a piè pari, oplà! E invece stasera, quando gli sguardi degli juventini tradivano l’impanicamento e l’Inter aggrediva come tante volte avrei voluto vedere – e mai avevo visto negli ultimi due anni, o forse tre, o forse boh -, ecco, ho visto che il Mancio a bordocampo dava istruzioni a Osvaldo e allora mi sono alzato e come un bambino dell’asilo ho urlato:
“Togli quel profeta della mia fava e metti Osvaldo e vinciamola, santiddio!”.
E quando in effetti pochi secondi dopo ha tolto il profeta della mia fava, quasi ad accontentare la mia invocazione, mi sono sentito pervaso di un interismo antico, forse anche un po’ ingenuo ma genuinamente impetuoso, perchè non ero solo io che volevo vincere la partita – chi non vorrebbe inculare la Juve nel Latta Scadente Stadium dei miei due zebedeos? – ma lo voleva anche il Mancio, cazzo, uh se lo voleva, e lo volevano anche i ragazzi, al netto dell’inguardabilità e dell’inadeguatezza di alcuni di loro, che si è stagliata anche a Torino, più che mai, perchè la Juve impanicata la dovresti trafiggere come ai tempi di Cruz o di Milito, e invece no, la pungoli, la spaventi, senti l’odore delle sue feci nelle mutande nike ma non l’ammazzi diobono, ahimè, ahinoi, non l’ammazzi, e resti 18 punti dietro, e non deflori l’Alluminium Drome, pazienza, però che nervi, che spreco.
Quando Er Croazia ha tentato (meritoriamente, s’intende) di svellere un bianconero puff!, 120 secondi dopo ci siamo ritrovati in dieci con l’avversario ubriaco ma anche la necessità di pararci il culo. E niente, è finita 1-1 ma in quei due minuti ho sognato a occhi aperti, anzi no, ho toccato la vittoria, l’ho sentita, ce l’avevo in mano, l’accarezzavo, tipo quando ti danno in mano la coppa e tu la devi issare, ecco, io già la impugnavo, aspettavo solo l’ufficialità.
Come vorrei poter dire che questa, finalmente, è stata la svolta. Dopo un brutto primo tempo, dopo aver preso un gol da strozzarne tre (ma per primo Ranocchia, l’Uomo Molle), entrato Podolski siamo diventati la squadra che dovremmo sempre essere, cattiva, cazzuta, pericolosa, determinata. Anche un po’ scarsa, porco cane, perchè questi siamo, ma in un campionatino dove vivacchiando ti tieni a galla oltre ogni aspettativa noi dovremmo essere qualche gradino sopra. E io ci voglio tornare, sopra. Vi voglio così. Brutti, sporchi, scarsi ma cattivi. E magari più – come direbbe Verdone – coesi. Tipo: ho un compagno sulla destra più libero di me, certo, è un pezzo di merda e forse tromba anche più di me, mi sta sul cazzo, però io non devo pensare a queste cose e gliela do, tic!, eccolo là, e adesso mettila pezzo di merda, gaaaaaaaaaaa!
No, rewind. Comunque, avanti così. Avere voglia di vincere, provarci, rischiare. Astenersi mozzarelle. Vi voglio bene, nonostante tutto.
icardi2

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Io e Pino

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Nell’estate del 1976, è sera, sono al campo sportivo di Arma di Taggia per assistere a un concerto (uno dei primi live della mia vita, forse il primo) di cui capirò abbastanza poco: Napoli Centrale, jazz rock partenopeo, un po’ eccessivo per un dodicenne di Voghera in vacanza al mare. Al sax James Senese, al basso tale Pino Daniele. Lunga pausa. Nell’estate del 1979 guardo distrattamente alla tv il Festivalbar, tale Pino Daniele canta Je sò pazzo e io penso che vabbe’, questo dice cazzo in una canzone e così tutti parlano di lui, tzè. Nella primavera del 1980 (com’è? Solo gli stupidi non cambiano mai idea?) sto guardando la tv, c’è un programma in seconda serata su Rai1 e resto folgorato dal pezzo che passa con la sigla finale. Mi pare proprio quello della rima pazzo-cazzo. Aspetto i titoli di coda, lui in effetti è Pino Daniele, la canzone si chiama I say i’ stò ccà, un blues un po’ in napoletano e un po’ in inglese, una voce della madonna, le tastiere, ten-ten ten-ten, l’armonica. Quando, un paio di giorni dopo, ho comprato Nero a metà non potevo cogliere la grandezza intima del gesto. Stavo entrando in possesso di uno dei dieci dischi più belli della storia della musica leggera italiana e stavo indirizzando i miei gusti musicali verso una direzione ben precisa, che rimarrà quella. All’insegna dell’essere curioso e onnivoro, dello spizzicare qua e là, delle lunghe fedeltà e delle brevi infatuazioni, ma con un fil rouge che non si spezzerà mai.
Io avevo sedici anni e mezzo e Pino Daniele 25. Fare un disco come Nero a metà a 25 anni significa essere un grande della musica. No, scusa: un grandissimo.
Nell’ordine, negli anni successivi: mi regaleranno Vai mo’, che album, che conferma. Poi mi procurerò il precedente Pino Daniele per ascoltarlo fino alla consunzione, potentissimo, e anche Terra mia per conoscere i primordi. Poi arriverà Bella ‘mbriana, un livello di qualità a cui nessun italiano poteva lontanamente puntare. Poi Musicante, sperimentando una chitarra nuova (mai un disco uguale al precedente, mai). Poi il live Sciò, doppio lp, libidine.
Nel 1985 sono a Merano, durante il servizio militare, ed esce Ferry Boat. Tornando a casa per una licenza, un venerdì pomeriggio, scendo a Bolzano e corro a un negozio di dischi sotto i portici, poi corro di nuovo in stazione e prendo il treno per Milano per un pelo. Poi l’arab rock (boh? lo diceva Pino) di Bonne Soirée e quell’assolo disperato di sax di un disperato Larry Nocella. Poi Schizzechea with love, poi Mascalzone latino tutto con la chitarra acustica (ma Faccia gialla l’avete mai ascoltata? No?).
E qui si opera al cuore.
Nel frattempo, l’avevo visto in concerto, nel 1981, al Festival dell’Unità di Voghera, che era un festival con i controcazzi. Era il tour di Nero a metà e se ci ripenso mi vengono i brividi e sento ancora il mal di culo della lunga attesa seduto nel cortile della ex caserma. Poi l’avevo visto a Pavia, anche lì cortile del castello, anche lì mal di culo ma che concerto, era il tour di Bella ‘mbriana, una band spaziale, un concerto meraviglioso. Poi l’avevo visto di nuovo a Pavia, al palasport, d’inverno, tour di Mascalzone latino: ricordo solo che durante un pezzo si ferma, dice stop stop stop, cala il silenzio: “Scusate, mi sono sbagliato”. Applauso, e ricomincia.
Torna dopo i by-pass nel 1991 con Un uomo in blues, bel disco, e altri ne seguiranno, di inediti e di live. Comprerò l’ultimo album nel 1997, Dimmi cosa succede sulla terra. Per uno che aveva amato anche al milionesimo ascolto le parole di Voglio di più, A testa in giù, Chi tene ‘o mare e decine di altre (oltre che grandissimo musicista, il primo Pino Daniele era anche un eccellente paroliere), la deriva di testi del tipo Che Dio ti benedica, che fica o Col sorriso di plastica mentre fai la ginnastica era non più serenamente accettabile, così come lo sprofondo delle collaborazioni – prima Wayne Shorter, Gato Barbieri, Mel Collins, Pat Metheny, ora Irene Grandi e Alessandra Amoroso – imbarazzante. E’ la vita. Tutti abbiamo un parente con cui abbiamo rotto i ponti o un amico che improvvisamente non abbiamo più visto nè sentito. Io avevo Pino Daniele. Sono stato con lui per 17 anni di grandi emozioni, e ormai da 17 lo avevo lasciato al suo destino. Non ho ricordi di Pino Daniele con pettinatura stilosa e vestiti griffati. Pino Daniele è uno solo, per me, quello con la criniera scarmigliata, i vestiti inguardabili, ingobbito sul microfono, sudato, spuorco, poderoso, immenso.
Prima di salutarlo nel 1997, lo avevo ancora visto a Milano, al Forum, due volte: da solo sul palco, che emozione, nel tour del rientro dopo l’operazione, e poi con Pat Metheny, concertone. Poi allo showcase di presentazione di Non calpestare i fiori nel deserto, quell’occasione irreale in cui hai davanti Pino Daniele che suona per te e altre cinquanta persone, roba da matti. Poi ero andato alla presentazione del suo libretto “Storie e poesie di un mascalzone latino”, una robetta buttata lì un po’ così, ma lui era Pino Daniele e io mi sono messo in fila per l’autografo.  Tocca a me. Mi guarda: “Tu?”. Roberto. Scrive: a Roberto, Pino Daniele. “Ciao”. Ciao. Ciao Pino.
Cinque giorni fa, la sera di San Silvestro, mentre sono a tavola con amici, orecchio dal televisore – acceso per captare il countdown ufficiale per il brindisi – uno che sembra fare decorose cover di Pino Daniele, poi sento un assolo di chitarra e mi dico: minchia, lo fa proprio preciso. Mi alzo e vedo che è Pino Daniele in persona. Canta allo show di Capodanno di Rai1, mentre canta scorre sullo schermo il testo della canzone. E’ un karaoke, praticamente. Pino Daniele. Torno a tavola con il magone.
Lo stesso magone che ho adesso a ripensare al mio Pino, il mio amicone, quello del periodo 1980-1997, quello che ho conosciuto per un assolo di armonica e ho abbandonato prima che fosse troppo tardi. Non ci siamo più visti da allora, ma mi ha lasciato cose – dischi, canzoni, musiche, emozioni – che non si cancellano e che per fortuna restano per i posteri, me compreso. Il feeling è sicuro / Quello non se ne va.  A volte non si deve aver paura di dire banalità del tipo “un piccolo pezzo della mia vita che se ne va”: anche se si tratta di un musicante, anche se sono solo canzonette, a volte è vero.
pino

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