La Grande Pennezza, la Grande Vincezza

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C’era un raccattapalle nero dietro la Vinci, un ragazzotto magro e alto 1,90 abbondanti che faceva sembrare Robertina ancora più minuta (1,63 di pura normalitá) mentre lei gli allungava l’asciugamano. Poi l’inquadratura passava dall’altra parte, dove la Serenona faceva fatica a tenere a bada il suo proverbiale pandorone,  che ogni tanto rimaneva fuori dalla gonnellina e appariva maestoso – immane – nella sua rotonditá, quel che poeticamente chiamavano lombo e che a me ricorda piuttosto un mappamondo, una coppia di gluteux maximus strepitosi che hanno avuto il loro ruolo da assoluti protagonisti in 21 titoli dello Slam e 70 milioni di montepremi, due muscoli enormi e guizzanti,  il culone più vincente della storia dello sport e che Iddio lo benedica, in barba a chi pensa che si possa vincere solo se si è magre e con poche tette, eggiá, proprio.
Ma Serena stasera non era solo glutei e bicipiti, era un fascio di nervi da tenere a bada di fronte all’occasione più clamorosa della sua carriera (un Grande Slam da vincere con il più morbido dei tabelloni di fronte, la Vinci e poi la Pennetta, tzè, un compitino elementare) e che si è sciolta come una sciampista quando il donnino dall’altra parte ha fatto la cosa più intelligente che potesse farla dopo aver perso male il primo set: lavorarla ai fianconi, metterla in ambasce, sfinirla di rovesci slice, una squisitezza tecnica che ormai fa solo lei, la panda di Taranto, lei e il suo tennis antico, un po’ inadeguato, ma che per la sua unicitá può rompere gli schemi a chiunque.
In crisi di identitá e di risultati, Roberta Vinci ha cambiato vita, ha lasciato il doppio (da numero 1) e si è ricostruita da singolarista senza snaturarsi. Il risultato è questo, una partita pazzesca nella giornata più incredibile del tennis femminile italiano e, mi sbilancio, in uno dei pomeriggi che fanno la storia dello sport femminile italiano.
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Perchè un paio d’ore prima Flavia Pennetta aveva macinato la Halep (di solito è la Halep che macina quelle come la Pennetta) e questa meravigliosa giornata dei paradossi si è compiuta, voilá, due italiane ultratrentenni in finale allo Us Open e tutto ciò è di una bellezza irresistibile, straordinaria, totale. Battere la più forte in casa, strapazzare la n. 2 al mondo e giocarsi – tra azzurre, tra pugliesi – la finale.
Quello che ha fatto la Pennetta non è meno clamoroso del capolavoro della Vinci (che ha avuto un culo epocale nel tabellone, poi compensato con l’impresona). Ha saputo tornare forte (anzi, più forte) dopo un infortunio grave, ha saputo mantenersi per un decennio al vertice, ha saputo addirittura rimanere vigile e lucida nonostante il fidanzamento con quel personaggione di Fogna.
Il colpo di coda di queste due ragazze, che l’etá vorrebbe al declino e che invece si giocheranno uno Slam, è il miglior messaggio che potesse arrivare dallo sport: sei seria, hai talento, hai fame, hai testa? E allora avanti, per te c’è sempre posto. Adesso vinca la migliore, sapendo che tutte e due lo sono.
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Fogna il fenomeno

US Open tennis
Se in previsione della sua dipartita decidesse di donare il suo corpo alla Scienza, forse un giorno sapremo cosa c’era nella testa di Fognini, uno che indifferentemente può perdere con il più loffio dei pallettari o prendere a pallate Murray (in Davis) o Nadal (poche ore fa, in uno slam, all’Open degli Stati Uniti), giocare al massimo dell’ispirazione oppure macerarsi nei suoi tormenti interiori ed esteriori, perdere la pazienza con gente che lo sa e va apposta lì a provocarlo e cascarci, pluff, come un boccalone. Se non donerà il suo corpo alla Scienza rimarremo col dubbio, che poi è la cosa più bella. Senza certezze, idealizzeremo per sempre quel pirla di Fognini di cui racconteremo, al bar o ai nipotini, che era un gran giocatore e un gran coglione all’unisono, e tu dovevi prenderlo com’era e bòn, pazienza, genio e sregolatezza a percentuali variabili, più spesso sbilanciate verso la sregolatezza, perchè sennò sarebbe stato nei top ten in pianta stabile, e nemmeno troppo in basso.
Ora, naturalmente, possiamo fare tutti i distinguo del caso. Quel Murray in Davis, fuori casa e sulla terra e non esattamente al massimo della forma, non era il vero-vero-vero Murray. E il Nadal di oggi – un agonista se ce n’è uno ma ormai logoro nelle giunture e forse anche un po’ di testa – non è il Nadal di tre, cinque o nove anni fa. E poi Nadal è il giocatore che sta più sul cazzo di tutti a Fognini, e qualche settimana fa glielo ha detto in faccia, nella finale di Amburgo, che lui e suo zio gli hanno rotto le palle, amen. Quindi, voglio dire, c’è una predisposizione morale ad azzannargli il collo, un po’ com’era per Agassi con Becker. Però battere Nadal in cinque set a in uno Slam, davanti a 23mila persone, e batterlo rimontando due set (per la precisione: eravamo 6-3 6-4 3-1 per Nadal), è un po’ come battere Gebreselassie allo sprint in una maratona dopo averlo raggiunto al quarantesimo. E battere Nadal facendo 70 (settanta!) punti vincenti è come battere la nazionale Usa di basket schiacciando dieci volte in testa al cristone nero che gioca da centro. E’ un’impresa della madonna, ecco.
E il game giocato sul 4-4 del quinto set, sant’iddio, è una roba che vedi ad anni alterni, quattro vincenti e gioco a zero, sbam!, Fogna che lancia missili e Nadal che manco li rincorre più. E non per sfinimento, no: perché non li avrebbe presi nessuno, nessuno, manco Tiramolla. Tant’è che al match point Fognini non esulta: aveva vinto nel game precedente, stravinto, l’ultimo punto – un errore gratuito di Nadal –  è stata una cazzata a confronto del climax precedente.
Ora, questo potrebbe essere il post più inutile della storia. Un post a scadenza immediata. Dopo aver triturato Nadal a forza di colpi vincenti da fondocampo (roba da non vedere, a volte, la pallina) e di attacchi conclusi con mano fatata, Fognini potrebbe benissimo perdere con quel damerino di Feliciano Lopez e vaffanculo, perchè Fognini è così e basta. E guarda, sinceramente, dopo una partita così ci starebbe perdere (anche male, dico) quella dopo perchè è difficile – forse impossibile – replicare un’impresa del genere, dal peso specifico immane, tecnico e psicologico. Quindi Fogna, in anticipo, te absolvo e ti ringrazio per stanotte. Sei di Arma di Taggia e sei interista, due motivi sufficienti per volerti bene e aspettare un’altra roba del genere, prima o poi: giorni, mesi, anni o forse mai, ma – giuro – non me ne frega niente. Fognini-Lopez può finire in due modi, per me: abbracciare e leccare ululando lo schermo della tv o mandare affanculo quel tamarro in campo per l’ennesima occasione sprecata. No problem: a me quelli che tertium non datur, in fondo, piacciono da morire.
fognini

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Che al mercato per Mancio comprò

Una cosa non saprei spiegare bene adesso, al bar, se qualcuno mi ponesse la questione: qual è l’esatto motivo per cui un anno fa Mazzarri (e noi con lui) doveva fare le nozze coi fichi secchi (M’Vila, Osvaldo, un penoso Vidic, un Palacio malconcio per mesi e mesi a venire) e oggi Mancini è stato accontentato in quasi tutto (e noi con lui) in un mercato che per noi non era così scoppiettante dai tempi d’oro del decennio scorso?
Non ho spiegazioni tecniche, contabili, finanziarie, strategiche e filosofiche, se non due: l’anno scorso il Fair play ci rompeva sostanzialmente le palle e Mazzarri – io ho letto il suo libro con attenzione e queste cose le so – si era mentalmente e fisicamente prestato (dietro lauto compenso, beninteso) a replicare a Milano la sua attivitá di valorizzatore delle (talvolta) modeste rose a sua disposizione; un giochino che lo eccitava ben più di un trofeo,  un attitudine a metá tra il fachiro e il grande pensatore, il gusto di poter andare a fine anno dal suo presidente e tirare una riga sotto l’elenco dei giocatori, “ecco, l’anno scorso valevano tot e ora valgono tot, e in più siamo arrivati X in campionato e al turno Y nelle coppe, quindi dimmi che sono il più bravo”.
L’anno scorso era chiaro che ci sarebbe voluto un esorcista, più che un allenatore. E infatti Mazzarri fece appena in tempo a bere il vino novello, senza nemmeno arrivare ai primi panettoni di tardo autunno. Arrivò il Mancio, ottenne quattro giocatori che avrebbero fatto comodo anche al fachiro di San Vincenzo e che furono utilissimi a centrare l’ottavo posto, ovvero l’ottavo in ordine d’importanza tra gli obiettivi minimi di una qualsiasi Inter che si rispetti, “evitare i preliminari di Coppa Italia”, mecojoni.
Ma poi, perchè dovrei andare al bar e spiegare ‘sta cosa? Me ne sto a casa a rimirare le colonne delle entrate e delle uscite e, intimamente, esulto e mi eccito.
Uscite. Podolski, Obi, Jonathan, Taider, Felipe, Campagnaro, Kuzmanovic, Andreolli. E fin qui, voglio dire, arrivederci e grazie. Hernanes per me è una liberazione, simbolo di un’Inter incompiuta e inconcludente, giocatore che non ci ha mai risolto un cazzo. Leggo: era l’unico davvero di classe. Ecco, il solito giocatore da asterisco: *però è di classe. Tzè, non lo rimpiangerò e credo che non cambierá il destino dei gobbi. Peccato averlo dato a loro, certo, ma ritengo un successo aver trovato una squadra disposta a pagarcelo. Kovacic è stato un sacrificio pesante ma ben retribuito: era così ovvio che fosse l’unico ad avere mercato ad alto livello che io, un tifosotto senza nè arte nè parte, ci scrissi un post il 15 giugno dandolo per venduto: ho sbagliato solo i tempi, non i modi. Shaqiri è stato una sorpresa, un mese fa ci ero rimasto maluccio ma adesso, con i nomi dei sostituti davanti, ho giá ampiamente metabolizzato.
Entrate. Jovetic, Kondogbia, Perisic, Miranda, Murillo, Felipe Melo, Telles, Montoya, Ljajic, Biabiany (e Santon, rispetto al fachiro).
No, cioè, storciamo il naso?
Adesso cambia tutto. È ufficiale che abbiamo altre ambizioni, è naturale che adesso l’allenatore non faccia più lo sperimentare o il finto tonto. Relativamente a un campionato italiano di livello medio basso e relativamente al fatto che la Juventus fará meno punti degli anni scorsi,
ecco,
relativamente a tutto questo, che ci piaccia o no, che ci sbalestri o meno, ce la dobbiamo giocare.
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Un bel panorama

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Odio il calcio d’agosto, tranne quando dopo due partite sei in testa a punteggio pieno. Mi fa schifo il calcio spezzatino, tranne quando la Juve gioca prima di noi e perde e noi gestiamo la situescion. Non sopporto il calcio mercato e soprattutto il suo ultimo giorno quasi sempre inutile, tranne quando qualcosa può ancora succedere. L’essere più incoerente del mondo è il tifosotto, e io modestamente lo nacqui. E ce ne saranno di occasioni in cui cambiare idea e umore, uh se ce ne saranno. Ma adesso perchè lamentarsi, storcere il naso, preoccuparsi, diffidare?
No, dico: ma vedete dov’è la Juve?
È uno spettacolo meraviglioso e apocalittico, il campionato che esprime impietoso i primi sommari valori e dice che le ultime somo Bologna, Carpi, Empoli, Frosinone e Juventus, ecco, tutto questo è bellissimo, struggente, evocativo.
Guardo la classifica e mi si riempie il cuore come davanti a un bel panorama, a un tramonto rosso sul Bosforo, a una spiaggia caraibica, a un sorriso di Jennifer Lawrence, alle motivazioni di certe sentenze. L’Inter ha sei punti e la Juve zero. E c’è la pausa per la Nazionale: la classifica durerá due settimane, ce n’è abbastanza per diventare ciechi.
Sì, vabbè, un giorno parleremo dei nostri problemi, delle nostre vacuitá, dell’immaginifico e visionario procedere del Mancio, e insomma della nostra imperfezione che magari, chissá, entro le ore 23 del 31 agosto diminuirá o aumenterá, chi può dirlo (ora)? Un giorno lo faremo, giuro.
Ma perchè farlo ora? No dico, ma la classifica l’avete vista? Quante ne avete viste di migliori negli ultimi cinque anni? È un invito alla leggerezza – alla superficialitá, perfino – a sole 36 giornate dalla fine, un’inezia. Stay calm and guarda dov’è l’Inter e dov’è la Juve. È una meravigliosa coincidenza. Parziale, fallace, prematura e ahimè probabilmente caduca, ma meravigliosa.
E che dire di un giocatore preso tra qualche diffidenza e che ti segna tre gol in due partite? Tre gol – tutti i nostri gol – che valgono sei punti? No, ecco, se vi è successo tante altre volte fatemelo sapere. Adesso io non ricordo nulla, ho switchato sul futuro, conscio che sei punti con Atalanta e Carpi sono il minimo sindacale rapportati a qualsivoglia ambizioni. Ma arriviamo da periodi tristi in cui ai minimi sindacali non ci arrivavamo quasi mai, in cui qualsiasi obiettivo era un Pordoi, anzi peggio, un Mortirolo.
Adesso la Juve è ultima e noi siamo primi dopo due partitacce risolte nel finale contro due squadracce. E mi pregio informare le signorie vostre che no, non me ne fotte un cazzo: al netto del paragrafo precedente, mi godo l’attimo, mi prendo il rischio di scrivere cose di cui potrei pentirmi e vado a dormire con il sorrisino del bebè dopo una poppata come si deve. Forza Inter, il resto è fuffa. Continua a leggere

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La domenica perfetta

“Papi, ma ti risulta che il Milan ha preso Balotelli?”
Ero spiaggiato sul divano intorno alle tre del pomeriggio, ignaro dei fatti del mondo esterno; il telefonino non sapevo dove fosse, l’iPad lo vedevo in lontananza, e ho fatto un gesto quasi demodè: ho acceso il Televideo. Il Televideo. Tipo quando dici: ah, è ancora vivo? Ecco, non mi ricordavo che esistesse, il Televideo. Con un riflesso pavloviano chiamo la pagina 201 e in effetti c’è la cosa di Balotelli.
Ecco, io ero giá contento così. Balotelli che torna al Milan. Bingooooo.
Poi, verso le otto di sera, realizzo che i maggiordomi dell’Udinese si sono sbagliati a segnare un gol al Made of Latta Stadium e non sono riusciti a farsene segnare nemmeno uno nonostante una naturale tensione.
Ed ero già contento così, elevato al quadrato. Una domenica giá di un certo livello.
Ma doveva ancora giuocare l’Inter. Particolare non da poco. Reduce da un trionfale precampionato. Ma che io ho saltato a piè pari, quindi per me quasi vergine. Dopo la Juve inculata in casa alla prima di campionato e dopo il Milan che tratta il ritorno di Balotelli, ecco, io non osavo chiedere troppo.
E infatti il primo tempo se ne scorre via liscio, cioè bruttino, con Icardi schierato acciaccato che esce dopo un quarto d’ora e un pensiero che avanza – 15 minuti di campionato e giá una cazzata, bella Mancio – e un tiki taka che serve solo ad aumentare la cifra del possesso palla, la mia passione, il possesso palla delle mie palle fruste.
Keep calm.
Il secondo tempo mi acchiappa. La Juve ha perso (muahahahahahahah), il Milan perde, il Napoli perde, e noi non vinciamo contro l’Atalanta in undici, poi nemmeno con l’Atalanta in dieci, e a me sale l’ansia, ma tu guarda che cazzo di occasione, a sole trentasette giornate dalla fine, ma tu guarda, tira!, lancia!, passa!, guarda!, merda!
Cioè: mi sto appassionando.
Un anno fa ero sulla stessa sedia a guardare le gambe storte di M’Vila e la punta unica schierata contro lo Stjarnan, e adesso son qui che friggo come un ragazzino con l’ormone pendulo, dalla!, stringi!, allarga!
No, scusa: stringi o allarga?
Ma che cazzo ne so, basta che segnate perchè il tempo non allarga, stringe, e io voglio che salutiamo la capolista con tre punti di vantaggio su Juve e Milan, quindi  mettetela dentro – di coscia,  di anca, di culo, di cazzo, giuro, non ne faccio una questione estetica, voglio solo vincere questa partita del menga.
Al minuto 93, quasi 94, accade l’imponderabile.
Praticamente accade che la palla arriva al più buono in campo e, magicamente, l’Atalanta – che fin lì aveva fatto le barricate – si spalanca. No scusa, è innaturale. Invece di andar in nove sul più buono, non ci va nessuno.
JoJo ha la palla e io vedo lo spiraglio.
“Mettila a giro, mettila a giro!”
E Jovetic la mette a giro, in effetti.
“Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”.
E niente, siamo primi. Juve e Milan sono ultimi. Jovetic è fortissimo. E tu pensa che mi sarei accontentato di Balotelli al Milan. La domenica perfetta. Ho aspettato fino alla mezzanotte la ciliegina sulla torta. E cioè che per un errore di battitura dell’Iban qualcuno accreditasse sul mio conto una ventina di milioni di euro. Non è successo. Pazienza, mi accontento di una partita vinta al 93mo, di un giocatore fortissimo, di Juve e Milan nei bassifondi, di una pioggerella fresca, di una birra davanti al tabellone della classifica a sole 37 giornate dalla fine, delle dichiarazioni vagamente lisergiche di un allenatore che finalmente si spettina. Ecco, di cose così.
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Fermate il precampionato, voglio scendere

No, non ho scritto niente di Inter-Bayern. E vi faccio una confidenza: non scriverò niente del resto della tournée in Cina, e poi del trofeo Tim eccetera eccetera. No, lo dico perchè c’è chi mi scrive affranto (stai bene? mi devo preoccupare? dove cazzo sei finito? mando una mail alla Sciarelli? ti sei bevuto il cervello? la vuoi piantare con questa minchia di corsa?) e c’è chi diffonde le ipotesi più fantasiose: che in realtà sia morto alcuni anni fa (al posto mio sta scrivendo un vero casellante della barriera di Agrate), che sia diventato juventino o, addirittura, che sia diventato donna e stia attualmente accompagnando come ghost writer l’ex Bruce Jenner in un ciclo di conferenze negli Stati Uniti dal titolo “Identità di gender, cambi di sesso e strategie di calciomercato”.
No, niente di tutto questo.
Il punto è uno solo: ma cosa si può scrivere di partite così? Seriamente, dico. Di cosa mai mi dovrei preoccupare (o per cosa mai mi dovrei esaltare) il 22 di luglio? Cioè, ti distrai un attimo e scopri che la squadra che stava facendo gli addominali a Riscone adesso è in campo con il Bayern, e poi il Milan , il Real e sailcazzo chi. No, dai. Io sono ancorato a vecchi schemi, quando il ritiro precampionato era il ritiro precampionato – ti allenavi tutto il giorno e la sera giocavi a scopa d’assi – e quando il precampionato era una serie di amichevoli progressivamente meno innocue, e non la farsa di adesso: si passa dalla rappresentativa del Sud Tirolo al Bayern nel giro di tre o quattro giorni cambiando continente, e bisognerebbe pure scriverne? Scriverne seriamente, ri-dico. E quelli sono più avanti e noi più indietro (o viceversa), e stiamo lavorando da poco, e la squadra è ancora in divenire, e (seguono altre duemila considerazioni-tipo). No, grazie.
(sospiro)
Non sopporto il calcio che non vale niente. Aspetto un calcio che valga i tre punti, o che valga una qualificazione, un passaggio del turno, una roba così. Il resto è una sega colossale che non mi attizza neanche un po’, una specie di calcio-wrestling in cui si fa finta di farsi del male, tanto l’ingaggio è giù incassato e della coppa in palio non gliene frega niente a nessuno. Non mi diverte, non mi interessa. Voglio un minimo di occhi di tigre, di ‘sta farsa non voglio vedere niente. Oppure, se la vedo (e le vedrò, per carità, perché la maglia nerazzurra su sfondo verde è un nutrimento per l’anima, la mia almeno), la guardo come un vecchio film di cui conosco il finale, o come una replica estiva di un qualcosa che non ho mai visto oppure non ricordo, ma il cui epilogo (bello o brutto che sia, si ammazzano o si sposano, qualcuno fugge o qualcuno torna) non mi sposta di un millimetro.
Non lo reggo più il fake. Tra calciomercato e precampionato, il periodo inizio giugno-fine agosto è per me la morte civile. Almeno si potesse tornare ai vecchi tempi, quando la preparazione avveniva al riparo da occhi indiscreti e da ingaggi favolosi per partite improbabili. Ecco, funzionava più o meno così.
Prima amichevole: Inter-Bar caffè Adler Riscone di Brunico 18-0. Simpatica sgambata dei nerazzurri, apparsi già piuttosto in palla, con la squadra amatoriale di Riscone. Sette gol di Icardi, osannato dai tifosi, di cui uno segnato con il pube. Da segnalare il palo colpito in mischia da Fritz Kostner detto Strudel, corpulento centravanti 42enne del Riscone, titolare dell’omonima pasticceria di via Ottone Huber (chiusa il lunedì): una distrazione dei centrali interisti gli ha consentito di deviare di coscia un cross proveniente dalla trequarti e che sembrava destinato a perdersi sul fondo. Kostner è poi uscito in barella, tra gli applausi dei 400 presenti, per la maggior parte provenienti da Bressanone.
Seconda amichevole: Inter-Spartak Brunico 12-1. Simpatica seconda sgambata dei nerazzurri, apparsi discretamente in palla, contro la formazione dello Spartak Brunico militante nel campionato di Seconda categoria dell’Alto Adige. Cinque gol di Palacio, di cui uno segnato con una rabona da metà campo. Funzionano gli automatismi a centrocampo tra Kondogbia e Kovacic, almeno nei 4 minuti in cui i due sono rimasti contemporaneamente in campo. Applausi scroscianti per il gol di Nico Knapp, veloce esterno dello Spartak, figlio del custode dello stadio: Knapp, sfuggito a Ranocchia, ha infilato Carrizo con un bel diagonale. I tifosi lo hanno festeggiato tirandogli mele.
Terza amichevole: Rovereto-Inter 0-4. Primo test probante per i nerazzurri contro la locale formazione militante in Promozione. Portatasi in vantaggio dopo 5 minuti con un gol di Kovacic (sombrero a metàcampo, poi quattro dribbling, un finta e palla nell’angolino), la squadra di Mancini ha poi faticato molto a trovare spazi nell’arcigna difesa bianconera, anche a causa del gran caldo. “Dobbiamo smaltire le tossine del ritiro, presto troveremo brillantezza”, ha commentato Mancini che in panchina ha avuto un lieve malore dopo un passaggio all’indietro di Andreolli svirgolato da Handanovic, il cui rinvio ha colpito un’anziana donna in tribuna laterale (nonna dello stopper del Rovereto, Ruffini), finita all’ospedale con lievi contusioni guaribili in cinque giorni.
Quarta amichevole: Verona-Inter 2-2. Aria di serie A in questa amichevole di lusso allestita dentro l’Arena di Verona per festeggiare i 20 anni del concerto di Renato Zero. L’Inter ha presentato una formazione mista titolari-riserve che ha faticato un po’ a ritrovarsi, tanto da andare in svantaggio nel finale di primo tempo per un gol di Toni, abile a tramortire a gomitate tre difensori nerazzurri e a infilare l’incolpevole Carrizo. Nella ripresa una doppietta di Puscas portava avanti l’Inter, con il Verona che impattava a un minuto dalla fine per un rigore molto dubbio fischiato a Pazzini, e trasformato dallo stesso. Mancini non si è detto preoccupato: “Dobbiamo smaltire le tossine del ritiro, presto ritroveremo brilantezza”.
Quinta amichevole: Mendrisio-Inter 2-5. A tre giorni dall’inizio del campionato, classico appuntamento nella vicina Svizzera per la squadra di Mancini, ancora alle prese con le fatiche del ritiro e gli automatismi da trovare. Il Mendrisio si portava addirittura in vantaggio dopo 10 minuti: il congolese Abu Dabu sferrava un tiro dai venti metri, Ranocchia e Nagatomo coprivano involontariamente la visuale ad Handanovic e la palla si infilava a mezz’altezza. Icardi, Palacio e Guarin riportavano avanti l’Inter prima del riposo. Nella ripresa Montoya e Gnoukouri segnavano le altre reti nerazzurre. Applausi nel finale per la rete del baby Filipponi, 14 anni, che dribblava Vidic e Juan Jesus, metteva a sedere con una finta Carrizo e infilava con un cucchiaio. Mancini ha risposto brevemente alle domande dei cronisti: “Dobbiamo smalt… no, niente, sono abbastanza contento ma c’è da lavorare”. Quando ritroverete brillantezza, mister? “Presto, credo”.
Ecco, funzionava più o meno così. Bei tempi.
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La non-ignoranza (ovvero: il bello della steppa)

Se non sono infortunato o in ferie, ogni anno mi iscrivo pieno di perplessità a una corsetta che si svolge nella steppa a una quindicina di chilometri da Pavia. Sono 7,8 km con le seguenti caratteristiche: 0,3 km all’ombra (i primi 100 metri e gli ultimi 200), 7,5 km al sole. Svolgendosi a metà luglio, c’è un’alta probabilità che ci sia molto caldo. Nel luglio più caldo dalla creazione della Terra, c’è un’alta probabilità che sia un massacro.
Eppure, mi iscrivo.
Per puro senso di responsabilità faccio 5 minuti di riscaldamento che, date le condizioni, mi riducono a una larva d’uomo. Mi schiero alla partenza come al solito in ultima fila e, nel caso specifico, con qualche timore tecnico, etico, psicofisico e morale. Partire piano, partire piano, chissenefrega, partire piano, partire piano
PUM!
Si parte. Parto piano. Dopo neanche mezzo chilometro di dividono i percorsi. Donne e uomini over vanno a sinistra. I rimanenti 58 baldanzosi atleti girano a destra. Approfitto della curva per guardare indietro. Ne conto 4. Quindi ne ho 53 davanti.
Sono quintultimo.
Beh, sono partito piano no? Così vengo colto dai consueti pensieri di terrore, morte e distruzione. Mi vedo arrivare al traguardo tipo Dorando Pietri, sorretto da due giudici e poi squalificato e radiato. Mi vedo anche crollare sfinito in un campo di mais e ritrovato in avanzato stato di decomposizione al momento del raccolto. Ed è in quel momento, dopo un chilometro di corsa, già sudato da far tenerezza, che prendo una decisione che mi sorprende:
“Facciamo, una volta tanto, davvero, promettimelo Settoreh, una volta tanto, ti scongiuro, facciamo una corsa non dico intelligente, ma almeno non-ignorante”.
Che in sostanza vuol dire questo: fottitene che sei quintultimo, fa un caldo bestia, ci sono 70 gradi e il 125 per cento di umidità, prendi il tuo ritmo, tienilo – qualunque esso sia – e porta a casa il culo.
E così faccio. Nel secondo chilometro ne supero un paio ma vengo a mia volta superato da The Edge, che – in assenza di Perdenzio Perdy, forse in ferie, incredibile, credevo non ne facesse – eleggo a mio punto di riferimento. Ecco, il mio punto di riferimento prende e ne ne va, lo vedo allontanarsi ma io sto facendo una corsa non-ignorante e non lo inseguo.
Durante il terzo chilometro supero disinvolto Jimmy Strong, poi a seguire Averell Dalton, fratello di Jack che invece ci precede di un bel due-trecento metri, lo vedo in lontananza, piccolo così, but who cares?, sono in modalità non-ignorante e nessuno può turbarmi.
Intanto un tizio arancione continua a superarmi, poi si lascia raggiungere, poi lo risupero, e via così, l’Uomo Elastico cerca di destabilizzare il mio procedere zen ma non ce la fa, gli lascio fare i suoi avanti-e-indrè, cazzi suoi, io ho innestato il pilota automatico e me ne strafotto, tzè. E infatti ne supero un altro.
Tra il quarto e il quinto chilometro, senza aumentare il passo, semplicemente tenendolo, ne supero un altro paio. Non faccio più caso al caldo e alla zero-ombra. Ormai la corsa non-ignorante è il mio nuovo  must. Al sesto chilometro supero anche un piccoletto, poi raccolgo con il cucchiaino l’Uomo Elastico che crolla come una pera matura al suo settecentesimo allungo, poi imbocco un sentierino stretto stretto ed è lì, alla fine del sentierino, che allungo lo sguardo e rivedo The Edge.
E lì sento nelle orecchie una musica alla Morricone, da-daaaaan, è il duello finale. Non ho fretta, entro in scia, mi avvicino, lo affianco, lo supero. Da-daaaaan. Cazzo, venti metri avanti c’è anche Jack Dalton. Ci provo ma non ce la faccio, siamo all’arrivo, porca troia, di già? ancora duecento metri e me lo mangiavo santiddio (è la prima volta che dico “di già” da due anni a questa parte, di solito dicevo “ma quando cazzo finisce questa corsa di merda stramaledetto il giorno che mi sono messo a fare questo sport del menga?”).
Arrivo 46esimo. Tredicesimultimo. Ho recuperato otto fottute posizioni. Me ne compiaccio mentre bevo diciassette tè freddi che una sciura mi allunga a ripetizione, e un tè dopo l’altro mi sento  vivo, vegeto e strategicamente molto à-la-page.
Dalton

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Fenomenologia del non competitivo

Niente, è più forte di me. Quando vado a una non competitiva non riesco ad arrivare presto, non ce la faccio. Se le partenze sono tra le 8 e le 9, io arrivo alle 9 meno cinque. Se invece, come stamattina, sono tra le 7,30 e le 8,30 io arrivo alle 8,31. È come se avessi un orologio biologico che mi dice: è una NON competitiva, ragazzo, e NON c’è alcuna ragione per cui tu debba arrivare presto. Potrei svegliarmi alle 5, niente, figurati, sarebbe lo stesso, arriverei comunque alle 8,31. Non solo: stamattina entro in un paese di 1600 abitanti e mi perdo. Per fortuna vedo un podista di bianco vestito avanzare dal nulla e mi sporgo dal finestrino tipo Oler Togni:
“Scusa, collega, mi dici dove santiddio ci si iscrive a questa non competitiva dei mie due zebedeos?”
“Guarda, devi tornare indietro, girare a destra, poi sempre avanti, ma… ma…”
“Ma?”
“Ma tu sei Settore!”
“Settoreh, sì”.
“Settore!”
“Sì, Settoreh, il podista etiopo-vogherese che…”
“Settore l’interista, grande, forza Inter”
Cazzo, mi ero completamente dimenticato dell’Inter. Il fatto è che siamo in luglio e sono concentrato sul recupero della condizione podistico-esistenziale. Parcheggio e mi fiondo al banchetto delle iscrizioni dove una signora in bilico sul climaterio mi pone di fronte a una questione burocratica mai affrontata prima.
“Lei è tesserato o non tesserato, bel giovane?”
“In che senso? Certo che sono tesserato”.
“Tesserato a cosa?”
“Fidal”.
“No Fidal”.
“Uisp”.
“No Uisp”.
“Ikea Family, Fidaty, Nespresso club, Carrefour Ambassador Lounge, Inter club Pavia Nerazzurra…”
“No, lei è tesserato Fiasp?”
“No”.
“Allora deve iscriversi tra i non tesserati”.
“Guardi, farei qualsiasi cosa, sono le 8,35 e debbo correre per 22 fottuti chilometri e sono giá partiti tutti. Dove si trova lo sportello non tesserati?”
“Sono io”.
Sto per lanciarmi su di lei tipo Antonio Inoki ma mi trattengo e mi iscrivo tra i non tesserati del cazzo. Quindi parto. Mi accorgo che dietro di me arrivano altri due ritardatari, quindi sono terzultimo. Ma procedo comunque angosciato: e se si dimenticano di me, se se ne vanno tutti, se smantellano i ristori e io muoio di stenti e mi ritrovano tra 300 anni in un anfratto e mi espongono come Oetzi nel museo contadino e le scolaresche mi verranno a vedere e poi andranno a casa a raccontare di avere visto una mummia col Garmin?
Quando poi arrivo al cartello della divisione dei percorsi, a sinistra 12 km e a destra 22, si innesca l’ormai consueto meccanismo per cui tra una scelta di buon senso (facciamone 12 e andiamo a casa) e una estrema (facciamone 22 e vaffanculo) il podista umanista agonista che corre una non competitiva sceglierá sempre la più estrema.
Una persona normale vede una freccia con scritto 12 km, il podista umanista agonista legge “12 km, non sarai mica così mentecatto a girare a sinistra? Chi sei, la principessa sul pisello? Ma vergognati diobono”. E dove c’è la freccia con scritto 22 km, il podista umanista agonista legge “Imbocca la strada verso il regno dei cieli, fratello. All’ arrivo troverai Scarlett Johansson, 42 vergini o un abbonamento primo anello arancio (opzioni non cumulative)”.
Il resto vien da sè. A parte il tremendo olezzo di due porcilaie, la corsetta è organizzata alla grande, cinque ristori, che comfort!, al quinto un ragazzotto mi fa la doccia con la canna, “Tutto?”, “No, solo la testa, amico”, e al ristoro finale, il sesto, vassoi di fette di anguria fresche su cui mi avvento tipo Poldo Sbaffini. E mentre sono lì che mangio anguria come un bambino, mi godo l’ingannevole effetto delle endorfine che – dopo 22 km sotto il sole – ti fanno sentire molto più vivo di quando sei partito.
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#fatequellochevoletediMateo

mateo-kovacic
Il mercato dell’Inter per me è quasi chiuso. C’era una questione – mi sbilancio: una sola – che mi stava a cuore e che, in caso negativo, avrebbe ammantato di marrone non solo il mercato ma anche la prossima stagione e il senso stesso di ogni strategia futura: la conferma di Icardi. Icardi resta e io sono contento. In un certo senso potrei dire: ok, per me finisce qui, mandatemi una bella mail il 31 agosto con il riassunto preciso di chi parte e di resta. Non è così, ovvio, perchè sono un tifosotto medio che legge la Gazza al bar e cerca la sezione “Chi prende l’Inter” e legge nomi esotici che ignora al novanta per cento. Ma per me era importante che restasse Maurito, era un segnale preciso, oltre che un mio intimo desiderio (uno giovane, forte e fisicato che mi segna 30 gol a stagione e noi lo diamo via: naaaaa). Sul resto sono pronto a discutere, argomentare, scompormi, ingoiare – as usual – bocconi amari. Anzi, facciamo subito. Discutiamo, argomentiamo, scomponiamoci, ingoiam- as usual – bocconi amari e mettiamoci una bella riga sopra.
Kovacic, relativi hashtag, mal di pancia generali, salviamo Mateo, non vendiamolo, incateniamoci, et cetera. Ecco: se vi incatenate e cercate altra gente che ci incatena, non chiamatemi. E’ inutile. No, intendo: non è inutile chiamarmi, è inutile incatenarsi.
Premessa. Kovacic è un ragazzo del 1994 di tecnica ampiamente superiore alla media. Il suo acquisto è stata una bella operazione, una di quelle che ti fa dire che l’Inter sa muoversi. La sua prima intervista l’ha rilasciata a Pavia, davanti a un lussureggiante sfondo del resto del policlinico (no, per dire che mi sta anche simpatico per ragioni territoriali). Tagliamo corto: Kovacic è fortissimo, stop.
Detto questo, siamo in democrazia e quindi – nei limiti di legge – siamo tutti liberi di fare ciò che vogliamo: anche di inventare hashtag e di incatenarci ai cancelli dello stadio o alla Volvo di Ausilio. A me però scoccia una cosa, e scoccia parecchio: scoccia se ci si incatena facendo finta che le cose vadano in un certo modo, quando invece sappiamo tutti benissimo che no, non vanno così, e non vanno così da un sacco di tempo, e che il nostro incatenarci è una roba di maniera.
In un mondo perfetto l’Inter si terrebbe i suoi giocatori migliori, venderebbe i peggiori, con il ricavato dei peggiori ne prenderebbe altri migliori rispetto a quelli di cui si è liberata. E sì, certo, se tutto funzionasse così l’Inter sarebbe migliore. E con un irresistibile effetto domino le nostre domeniche sarebbero migliori, il mondo stesso sarebbe fottutamente migliore così come sarebbe migliore anche il nostro umore generale, e il Mulino Bianco al confronto sarebbe la Cayenna.
Ma non è così. L’Inter oggi è una squadra che manco si è qualificata per il trilionesimo turno preliminare dell’Europa League da giocare in Lapponia. L’Inter oggi è una squadra con i conti sotto sorveglianza, che fa il mercato con il metodo Findomestic ed è – ci piaccia o no – formalmente ai margini di un sistema calcistico-solare che solo 5 anni fa ci vedeva al posto del Sole e ora ci vede girare al largo tipo Plutone. Oggi l’Inter è una squadra che si sta riformando, secondo un progetto che è tanto affascinante quanto pieno di incognite. Dal punto di vista solo sportivo – erba, pallone, calci, gol, vittorie, quelle robette lì – dobbiamo rimontare posizioni su posizioni. Per rimontare davvero, servono vittorie. E servono soldi. Che ti arrivano con le vittorie. E’ un circolo dannatamente vizioso, bisogna avere soldi e vincere, e non si sa bene da dove poter cominciare.
Kovacic non lo venderebbe nessuno, se non costretto. Ecco, io temo che ci siamo costretti, molto semplicemente. Per cui non vedo l’utilità di incatenarsi per una simile eventualità. Sono mesi che leggo di un’Inter costretta a fine stagione a vendere qualche gioiello per poter andare sul mercato con una liquidità degna di questo nome ecc. ecc., e quando viene il momento di vendere i gioielli noi ci incateniamo come se fosse un fulmine a ciel sereno? Come ci avessero avvertito 5 minuti prima, a tradimento?
A proposito: di quanti gioielli disponiamo? Se uno – Icardi – abbiamo deciso di tenerlo, quanti altri ne abbiamo degni di questo appellativo? Uno è Kovacic, non c’è alcun dubbio. E poi? Chi sono quei due o tre che hanno davvero un mercato a otto cifre? Se dobbiamo vendere – e non c’è dubbio che lo dobbiamo fare – su quali nomi possiamo davvero ragionare da pari a pari con i falchi del mercato, in tavoli a cui noi purtroppo ci sediamo senza l’autorevolezza che ti darebbe un’altra dimensione (che dipende dalle vittorie, da cui dipendono i soldi: il circolo merdoso di cui sopra)?
Piange il cuore vendere Kovacic. E io infatti spero che resti. Ma non mi incateno, nè perdero il sonno se Mateo sarà sacrificato e firmerà con il Liverpool o chicchessia. Kovavic è il Coutinho dei Balcani, almeno per ora. Giocatori eccelsi e giovani e che non ti risolvono granchè. Colpi magici e tante partite senza incidere, invenzioni favolose e una marea di 5 in pagella. Cresceranno, diventeranno grandi, io glielo auguro, o magari grandissimi. Non qui, temo. Il Liverpool arriva da uno scintillante ottavo posto, forse Coutinho non basta, così come non sarebbe bastato a noi. Io so già come finirà, che su Facebook vedrò postare i video dei tunnel di Kovacic, gli assist di Kovacic, delle trivele di Kovacic… pazienza, non si può avere tutto dalla vita.
Il nostro problema è che dobbiamo scegliere di vivere di rimpianti per Kovacic o di continuare a vivere con l’attesa di Kovacic, ma con le pezze al culo. Il problema sarebbe vendere Kovacic per riprendere un Thiago Motta, ecco, ma voglio sperare che non si arrivi a tanto. Io non mi incateno e non faccio lo stratega di mercato con l’Iban degli altri. Io tifo Inter e basta, voglio uscire dalla palude costi quel che costi, fosse anche il sacrificio di un giovane croato di cui ricordo 10 cose illuminanti, 3 gol allo Stjarnan e poco altro, purtroppo per lui e purtroppo per me.

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Lo zen e l'arte di gufare la Juventus

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Tifare contro non è ‘na passeggiata de salute. L’organizzazione di una notte da gufi presuppone capacitá logistiche, etiche, morali e sostanziali che non tutti hanno a disposizione nel proprio bagaglio umano. E una pertinacia pervicace (in subordine, va benissimo anche una pervicacia pertinace) fuori dal comune, che sappia fare tesoro delle esperienze negative e gettare il cuore oltre l’ostacolo nell’occasione giusta, quella definitiva. Tifare contro non è barbarie, se di mezzo c’è la Juve. Non è sedersi in gruppo di fronte a un televisore tra peti, rutti, grugniti e onomatopee: è un rito che vive di precisioni, di ricorrenze, di speranze, di scaramanzie e di valutazioni esoteriche.
Per Juventus-Barcellona i gufi si riuniscono in una lussureggiante localitá dell’Oltrepo pavese in una formazione inedita a otto, schierandosi col 4-1-2-1: quattro gufi fondatori della prima ora (io,  L., A. e M.), un gufo alla seconda presenza (Abc.), due gufi fratelli tra di loro, esordienti  e ospiti provenienti da una federazione forestiera (F&M), un gufo al debutto (D.). Due gufi si presentano con maglietta da riposo della societá occasionalmente avversaria della Juve (io e L.) mentre M. indossa un paio di slip del Barcellona acquistati alcuni anni fa nell’aeroporto della simpatica cittá catalana. Per certificarlo, abbassa i bermuda fino alle ginocchia, evidenziando un discreto pacco. Una scena che, alle ore 19, anticipa il carico di tensione e di imbarbarimento che ci attende al varco.
Dopo una cena frugale consumata sotto il portico (salame, prosciutto, mozzarella, pomodoro, olive, formaggi, uova, birra, pane), i gufi salgono al primo piano in sala tv, dove si dispongono in ordine tutt’altro che casuale su poltrone e divano. E qui, per chi pensa che gufare sia una cosa semplice, vale la pena soffermarsi sul primo rito scaramantico della serata:
la riproposizione filologica e geostazionaria della magica serata di Juve-Benfica.
A me e L. va sostanzialmente bene, perchè ci basta riprendere lo stesso posto, uno in fianco all’altro. A., invece, deve trafiggersi il costato con una pin a forma di forbici (con cui si era gravemente ferito durante Juve-Benfica), mentre M. deve tener stretto tra i premolari uno stuzzicadenti (lo stesso di un anno fa, in quel magico Primo maggio. M. se lo mette in bocca nonostante microbi e batteri siano visibili a occhi nudo). I gufi esordienti o alla seconda presenza sono esentati da questi pericolosi riti.
I gufi titolari si scambiano una sguardo atterrito. La fantastica notte di Juve-Benfica (eliminazione con 0-0 a Torino nella semifinale di una competizione la cui finale si sarebbe disputata a Torino) (una specie di doppio filotto, di mega strike, di cinque più uno al Superenalotto) era stata seguita da una serie di altre gufate culminate miseramente: Dortmund, Monaco (una gufata in contumacia, anticipata, con un esorcismo in un ristorante del Cremonese) e soprattutto Madrid, con riunione dei gufi a Milano, la capitale morale, finita malissimo, con l’umore sotto i tacchi e l’ormai ingestibile, quasi travolgente convinzione che quella squadra di culattoni avrebbe fatto il triplete alla faccia nostra, di gufi e di interisti, argh!
“Concentráti, dai!”
Inizia la partita, Mascherano fa un paio di pirlate, ma alla prima azione dall’altra parte è
Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaal!
Otto uomini corpulenti saltano come grilli e si abbracciano come koala. È un momento di intensa felicitá che però dura poco. M. ci guarda spaventato:
“Ho perso lo stecchino!”
No! Nel giro di quattro decimi di secondo, otto uomini carponi cercano uno stuzzicadenti mezzo mangiato su un pavimento scuro. Sembra una moschea alle cinque del pomeriggio. Uno dei fratelli guarda fuori dalla finestra e vede uno storno migrare tra le rossastre nubi:
“L’avrá preso lui?”
Lorenzo estrae dall’armadio una spingarda appartenuta a un quadrisnonno, ma non trova le munizioni. La partita è giá al venticinquesimo del primo tempo quando finalmente M. trova lo stecchino:
“Eccolo!”
“Oleeeeee!”, fanno gli altri sette in coro. La scaramanzia è salva, il Barcellona sbaglia un gol ogni due minuti, le cose sembrano mettersi bene, anzi, sempre meglio, e quando tutti vanno a bere un tè caldo si arriva alla seconda, durissima fase della scaramanzia.
“Mantenere le posizioni”.
L. non ammette deroghe.
“Scusa, mi scappa una pisciata atroce”.
“Tienila”.
“Io sto morendo di sete”.
“Cazzi tuoi, bevi dopo”.
“Debbo fare una telefonata”.
“Consegnami il cellulare, lo riavrai dopo le 23”.
“Posso accendere la luce?”.
“Si sta al buio”.
“Posso posare lo stecchino durante l’intervallo?”
“Ma sei fuori? Mastica, ma non deglutire”.
Il secondo tempo è una stillicidio. Mancano 45 minuti, 44, 43… Poi segna Morata e sul Gufodromo cala una cappa di disfattismo che ci ammazza. Per fortuna dura poco.
“Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”
Sono momenti carichi di stress. La regia inquadra una placida coppia di anziani tifosi bianconeri. A. cede alla tensione: “Muori, troia!”, poi scoppia a piangere. M. si trafigge la lingua da parte a parte con lo stecchino e si esprime farfugliando. Assistiamo in raccoglimento le ultime fasi della partita. Fino alla festa finale, l’apoteosi, il gol a tempo scaduto. La certezza. No, la Certezza.
“Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”
Si chiude con foto, selfie, abbracci, brindisi, un’esplosione social. Su un terrazzo, al fresco, la luna rossa, spossati ma felici.
“Ma chi prende l’Inter?”
Silenzio. Non è serata per domande difficili. La missione è compiuta, ad Ausilio pensiamo domani. Anzi, dopodomani. Nel calcio – ogni tanto – c’è una giustizia: magari bisogna aspettarla fino al 6 di giugno, ma alla fine arriva.
“Ehi, ora posso pisciare?”
Nonostante quattro gol, cento abbracci, diciassette brindisi e quarantadue telefonate, L. non ha un capello fuori posto.
“In fondo a destra, ma metti le pattine”.
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