Bolingbroke: «Siamo soddisfatissimi di De Boer. Ha accettato l’incarico all’ultimo momento ed è una situazione difficile. Siamo con lui al 100%. Durante la sosta natalizia, potrà lavorare per la prima volta con la squadra per dieci giorni consecutivi. Ha solo bisogno di tempo».
Ausilio: «Non abbiamo contattato nessun allenatore. Sfido chiunque ad affermare di essere stato contattato. Sono loro a proporsi ma la panchina dell’Inter è di De Boer. La sua idea di calcio sarà vincente».
Yang Yang: «Nel calcio ci sono alti e bassi, ci sono difficoltà sul campo ma la squadra c’è, i dirigenti anche, il tecnico pure. Lavoriamo tutti duramente per tornare al vertice».
Era il 28 ottobre. Non del 1975, ma del 2016. Cinque giorni fa giorni fa, insomma. Escono dal cda l’amministratore delegato, il direttore sportivo e un consigliere di amministrazione e ai giornalisti dichiarano questo. Sembra la risposta definitiva a un certo – il solito – clima mediatico attorno alle nostre vicende: ecco, i giornali, le tv, i siti web da giorni dicono certe cose e questa invece è la nostra verità.
E così quattro giorni dopo, il martedì, ci resti male, ci resti di merda. Romanticamente, pensi che certe pantomime appartegano ad altre squadre di altre latitudini. E invece no. Erano le dichiarazioni dei tuoi dirigenti, che quattro giorni dopo averle pronunciate fanno l’esatto contrario. E fanno proprio la cosa che gli altri, quelli cattivi, i nostri nemici, scrivevano da settimane.
Quindi, svaporata la delusione, la domanda è: come sarebbero andate le cose lo sapevano tutti tranne noi, noi tifosotti che ci fidiamo delle versioni ufficiali, delle smentite palesi e di quelle sottintese? E allora, quelle che noi (al netto delle prese per il culo, su cui comunque non reagiva mai nessuno) catalogavamo come prostituzioni intellettuali e macchinazioni della stampa prezzolata non erano, in realtà, il risultato di ordinarie dinamiche di giornalismo sportivo (io so una cosa, è vera o quantomento verosimile e quindi la scrivo)? E non c’era invece delle prostituzione intellettuale (Josè, non rivoltarti nella branda) proprio nel cuore della nostra società? Se per giorni e giorni nessuno dà credito alle tue blande smentite e parla di destino già segnato per De Boer, non è che per caso le notizie arrivano da fonti fin troppo bene informate? Che faccia di bronzo (o che grado di inconsapevolezza) ci vuole a dichiarare certe cose il 28 ottobre e fare l’opposto quatro giorni dopo? Da quanto tempo era deciso che De Boer sarebbe stato rimosso?
Salutiamo un allenatore, ci affidiamo ad interim a un altro e nel giro di qualche giorno nomineremo quello titolare. Di fatto, risolviamo il contratto con De Boer senza avere il nome del sostituto, una cosa un po’ ridicola per una società che vorrebbe darsi un certo tono (differenza di vedute, si dice, tra proprietà e dirigenti italiani: apperò). A quattro mesi dall’inizio della stagione comunque sia avremo il quarto allenatore, stabilendo un record alla Bob Beamon (nel senso che sarà battuto tra qualche decennio) che provocherà a Zamparini una specie di invidia del pene. Ma, esattamente, tutto questo, per colpa di chi?
Il quadro dei risultati, inutile sottolinearlo, è ampiamente compatibile con un esonero (o risoluzione del contratto che sia). Undicesimo posto in campionato, 5 sconfitte in 11 partite, differenza reti negativa, 10 punti in meno dell’anno scorso: un disastro. In Europa League è anche peggio: tre match orripilanti, finiti con due sconfitte e una vittoria di culo con un tiro in porta, destino appeso a un filo che giovedì potrebbe spezzarsi (andiamo, in questa situazione, a giocare in Inghilterra la partita più difficile).
Quindi non ci sarebbe nemmeno troppo da discutere se non fosse che attorno – attorno alla squadra e attorno soprattutto a De Boer – abbiamo assistito a un patetico teatrino, che potrebbe essere riassunto in un manualetto del tipo “Come non si gestisce una squadra di calcio” o “Lo sfacelo dell’Inter spiegato a mia figlia“. Perchè non c’è niente di peggio che sentirsi al centro delle attenzioni malate e fraudolente di certa stampa e poi scoprire, un martedì mattina, che non era poi tutto così falso. Anzi, era praticamente, con un sacco di particolari che coincidevano in maniera fin troppo sospetta.
I numeri purtroppo inchiodano De Boer, al di là nei nostri eroici e un po’ ciechi tentativi di difenderlo e forse anche al di là delle aperture sulla pazienza che qualsiasi interista di buona volontà gli aveva offerto in tempi ampiamente non sospetti (tipo dopo Chievo-Inter o Inter-Palermo). Ma il resto?
Forse vale la pena ripercorrere, a un livello complessivo, i quattro mesi di questa stagione. Un mese buttato subito nel cesso a traccheggiare con Mancini quando era chiaro che non si poteva andare avanti; la scelta – intrigante fin che vuoi, ma molto rischiosa – di un allenatore marziano, completamente a digiuno di Italia a due settimane dall’inizio del campionato; l’estenuante trattativa estiva con il capitano e la sua moglie-manager; l’imbarazzante presentazione hollywoodiana di un calciatore che poi gioca 21 minuti; la faccenda del libro di Icardi, grottesca dall’inizio alla fine; e infine, su tutto, il sistematico e progressivo abbandono a se stesso di De Boer, lasciato drammaticamente solo nell’ultimo mese manco avesse la scabbia.
E’ chiaro che, a un certo punto della stagione e di fronte a risultati palesemente fallimentari, l’unica cosa che puoi fare – è così dalla notte dei tempi del calcio – è cacciare l’allenatore. Ma se ci fosse una giustizia, in quanti oggi dovrebbero rassegnare le dimissioni all’Inter?
Cominciamo dalla proprietà. Nel percorso da Thohir fino a Suning, l’Inter – non dimentichiamolo -ha potuto salvarsi il culo nel bel mezzo di una drammatica crisi finanziaria ed ha avviato il rilancio con i cinesi, che hanno già aperto i cordoni della borsa e promettono un grande futuro. Questo è il lato bello della medaglia. C’erano i numeri da sistemare, un management da snellire e rinnovare, un piano industriale da inventare, e fin qui… Però, è ovvio, l’Inter non è solo un mero dato contabile. L’Inter è una squadra di calcio e la gestione sportiva non è un aspetto secondario. Sì, certo, avere il padrone in Cina e il presidente in Indonesia è una discreta rottura di coglioni. Ma ci sono un po’ di cosette che non toccano direttamente a loro. E non è che qui in Italia, tra Milano e Appiano, i quadri siano proprio sguarniti.
Le caselle sembrerebbero tutte coperte e i nomi sono tutt’altro che di secondo piano. Eppure, è proprio la gestione sportiva dell’Inter – nonostante la pletora di pompose qualifiche in inglese – a dimostrarsi un fallimento. L’agghiacciante filotto di Zanetti in diretta tv mezz’ora prima di una partita (in una sola mossa la delegittimazione del capitano e la contestuale elezione della curva a unico censore su una questione – il libro di Icardi – su cui la società stessa aveva brillato per totale assenza, per poi perdere una partita in casa) è il momento-simbolo di questi quattro mesi: navigare a vista e navigare male.
Ma quello è un momento, il momento-Zanetti. C’è invece un perverso progetto a lungo termine a segnare fin qui la nostra stagione ed è il trattamento riservato a De Boer. Il trattamento quotidiano, intendo. Quel lasciar aumentare la distanza tra allenatore e squadra giorno dopo giorno. Fino ad arrivare a comportamenti plateali come quelli di Genova – mani non date, vaffanculo latenti – che non potevano non sfociare in questo malinconico epilogo, perché con il combinato De Boer solo/squadra che se ne approfitta non si poteva più percorrere nemmeno un metro in più.
E’ la triade Zanetti-Ausilio-Gardini che forse bisognerebbe esonerare. E non si mette qui in discussione la competenza e nemmeno il sentimento. Ma la capacità di gestire una situazione, di essere punto di riferimento, di completare un ingranaggio, di remare nell’unica vera direzione possibile (che è la nostra, quella degli interisti, casa pseudo-Triade) questo sì, è più che in discussione.
E’ il nostro buco nero, il vero, clamoroso fallimento di questi quattro mesi, molto più di quello personale di De Boer che, al netto delle colpe personali, ne appare piuttosto la diretta conseguenza. Non basta essere bandiere e dire quattro banalità in favore di telecamera, per poi fare la voce grossa nel momento più sbagliato e con le premesse più imbarazzanti. Zanetti dirigente è una grande delusione, perché nei momenti in cui dovrebbe essere valore aggiunto invece non incide, o sbaglia, o sparisce. E’ una bandiera autoreferenziale e così, in questa veste, serve a poco o nulla.
Da dove escono gli spifferi? Chi racconta tutto quello che accade nello spogliatoio? Chi lascia ai giocatori – uno ad ogni partita – lo spazio per rilasciare dichiarazioni in cui mettono in discussione tecnicamente il proprio allenatore? Chi dipinge De Boer come un mentecatto che non riesce a farsi capire e va avanti a furia di idee balzane? Chi ci può togliere il sospetto che la dirigenza italiana lavori, in una sorta di vacatio di poteri (chi decide? a chi telefoniamo?), lavori soprattutto per legittimare i propri poteri a costo di regolare qualche conto in corso d’opera e di tagliare veri o presunti rami secchi, tipo quello di un allenatore problematico e scelto da un presidente che se ne sta per andare via?
Non diciamo allora che siamo nella merda perché abbiamo un padrone cinese e un presidente indonesiano, che comandano per telefono e si alzano alle 4 del mattino per vedere la partita in tv. E’ un problema, va bene, ma se a Milano funzionasse tutto come un orologio ne potremmo parlare quasi in termini folkloristici. Diciamo piuttosto che è la dirigenza italiana, o comunque di stanza in Italia, il vero problema della società. Gente che il venerdì dice una cosa e il martedì fa l’esatto contrario. Gente di cui non sai più se poterti fidare. Gente – lo dice, oggettivamente, il rendimento – che forse non ci meritiamo, una zavorra nel percorso che dovrebbe (sospiro) riportarci nell’Olimpo.
E noi qui, sballottati nel vento, sempre a fare trenta e mai trentuno. Oggi in teoria avresti la squadra, ma non hai (più) l’allenatore e non hai una dirigenza affidabile. Cioè, diciamolo: non è vita.
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