Inter Football Culo 3 – Sampdoria 2


MILANO. L’Inter Football Culo ha battuto 3-2 la Sampdoria e, graziata dagli avversari, si porta in testa alla classifica per una circostanza fortunata: le altre infatti giocano domani. La squadra di Spalletti ha saputo sfruttare una giornata particolarmente jellata dei blucerchiati, che tirando tre volte hanno fatto solo due gol, e nel contempo hanno beneficiato di un culo spropositato, evitando una miracolosa quanto meritata rimonta  degli ospiti e segnando tre gol e sbagliandone trentacinque, quando in altre circostanze avrebbero potuto legittimamente fallire tutte e trentotto le occasioni che le sono state concesse da un avversario particolarmente sfortunato nell’insieme.
L’Inter si è portata in vantaggio al 15° con Skriniar, lesto a ribattere in rete un suo tiro respinto da Puggioni che gli ricapita sui piedi grazie a una botta di culo. Al 29° Perisic intercetta fortunosamente un rinvio sbagliato di Puggioni e tira da 140 metri con una palombella che per buona sorte si indirizza verso lo specchio della porta, ma poi incoccia nel palo e bòn, non può andare sempre bene. Al 34° Icardi raddoppia con un destro fortunoso, perchè novantanove volte su cento chi la prende in quel modo colpisce il venditore di cornetti al secondo blu. L’Inter insiste (ha culo, la Samp non si oppone) e colpisce un secondo palo con Icardi al 40°, molto fortunato a trovarsi da solo a incornare in mezzo all’area un cross da destra ma colpevole a non metterla facile. Finisce così il primo tempo sul 2-0, con un’Inter fortunata ad avere affrontato la peggior Samp della stagione.
Nella ripresa, i blucerchiati sono sfortunati in avvio e nel loro momento migliore vengono puniti da Icardi, fortunato a deviare in rete un cross di Perisic al termine di un’azione casuale. E’ proprio il croato a colpire fortunosamente la traversa poco dopo, con un tiro a cazzo che poteva finire al secondo verde e invece ha preso il legno. L’Inter sembra poter dilagare, ma fortunatamente ritorna con i piedi per terra: un minuto dopo la traversa di Perisic segna la Samp con Kowalski, Wozniacki, un nome così. A quel punto esce la Samp, che dal possibile 18-0 con pieno merito trova il modo di tornare in partita. Sfortunata la squadra di Giampaolo a segnare una sola volta, finisce 3-2 e un’Inter culattona come poche altre volte può tirare un sospiro di sollievo.
Con questo culo nulla le è precluso, le altre sono avvertite. Il saldo dei pali a favore/pali contro resta ancora nettamente positivo per i nerazzurri, sempre baciati dalla buona sorte. Il balbettante finale con la Samp, dopo una partita rinunciataria degli avversari, la dice lunga sulla reale dimensione della compagine di Spalletti.

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L'Inter, Nathaniel Creswick e il rosicone medio

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Allora, ricapitoliamo: come abbiamo rubato stavolta? Pali a favore (nuova statistica inaugurata con e per l’Inter: i pali a favore, mmmh) proprio no, culo a favore nella norma, gioco di merda meno del solito: panico tra opinionisti e rosiconi. Arriviamo dunque al “se non c’era Handanovic”, cugino di primo grado del “se non c’era Icardi” di una settimana prima: che sotto un certo punto di vista è vero, ovviamente, ma sotto un altro diventa una considerazione vagamente grottesca. Cioè, tutto sommato giocare con un portiere e un centravanti, regolarmente tesserati e pagati e coperti con i versamenti previdenziali, è un diritto che non si nega a nessuno. Certo, se poi uno ce li ha buoni e/o particolarmente in forma è un problema per gli altri. Ma funziona così da quando il 24 ottobre 1857 a Sheffield Nathaniel Creswick fondò la prima squadra di calcio della storia (l’ho letto su Wikipedia 30 secondi fa gugolando “Calcio (giuoco)”).
Dunque, resta la questione fresca di giornata: l’Inter ha fatto catenaccio e si è portata a casa il suo bel culo intatto, bella forza, siamo capaci anche noi.
Certo, opinionisti e rosiconi avrebbero preferito un bel 4-2-4 tipo quello di Ventura in Spagna, e beh, ovvio, sarebbe stata tutt’altra partita (per il Napoli e per i rosiconi, savasandìr). O si poteva fare un po’ di turn over in difesa e lasciar fuori, per dire, Skriniar e Handanovic per risparmiarli in vista della Samp. Anche perchè, diciamocelo, è dai tempi di Nathaniel Creswick che se la squadra 1 va a fare visita a una squadra 2 che è a punteggio pieno e segna in media 3 gol a partita, la squadra 1 se ne fotte e si affida al Fato per evitare di caricarsi di eccessive sovrastrutture tecniche, tattiche ed esistenziali. Eggià.
Ora, nello scenario dell’opinionista, del rosicone e dell’opinionista-rosicone si apre uno squarcio inquietante. Perchè è apparso evidente anche al più lisergico degli anti-interisti che lo 0-0 di Napoli ha portato con sè alcune valutazioni oggettivamente difficili da scalfire. A Roma l’avevamo sfangata con un culo soprannaturale, col Milan se non ci fosse stato Icardi avremmo perso 0-2 (calcolo matematico ottenuto sottraendo i gol segnati da Icardi al risultato omologato dalla Figc), ma col Napoli tutta Italia ha assistito allo spettacolo – invero preoccupante – di una squadra che senza sottrarsi al ritmo del Napoli ci ha giocato agonisticamente alla pari, che avrà anche alzato un muro ma ha tirato 11 volte in porta e battuto 7 corner. Un’Inter con poche amnesie e palle costantemente sguainate, ribaltando uno schema che a fasi alterne ci ammorba da anni. Un’Inter molto squadra, come non è mai stata in tempi recenti, al netto delle sue tante imperfezioni, per merito di un allenatore che ha avuto un impatto formidabile sulle abitudini e sulle predisposizioni delle nostre mammolette nere e blu.
E’ chiaro che nessun interista, spossato da sette anni post-Triplete che avrebbero sfiancato anche un facocero innamorato, metterebbe oggi – anche oggi – una mano sul fuoco per questa Inter così dichiaratamente fuzzy, ma forse per trascorrere qualche oretta senz’ansia possiamo limitarci a leggere le cifre di queste prime nove partite, cioè praticamente un quarto di campionato: siamo imbattuti, abbiamo la miglior difesa, abbiamo fatto 7 punti in 3 scontri diretti, abbiamo fatto 4 punti in due delle tre trasferte più difficili del campionato.
Questo cosa vuol dire? In linea generale, poco o nulla. Arrivare nelle prime quattro continua a rimanere un obiettivo ampiamente a rischio, perchè mancano giusto quelle 29 partite da giocare e perchè le altre non stanno lì a guardarsi allo specchio. La Roma ha vinto le ultime 11 trasferte consecutive, anche la Lazio in questo campionato è a 4 su 4… due esempi poco casuali per dire che sono cazzi, concetto un po’ rude ma che speriamo Spalletti faccia passare nel segreto degli spogliatoi e della sala mensa.
Per noi, invece, questo secondo posto vuol dire tanto. L’accoppiata culo-brutto gioco ci aveva servito su un piatto d’argento il paragone con l’Inter del Mancini-2, quella che andò in fuga prima di Natale e poi, a conferma di un andazzo superiore alle proprie possibilità, crollo a metà strada e terminò maluccio. Ma le ultime due partite (la tenacia di inseguire fino all’ultimo la vittoria col Milan, l’elevatissima densità complessiva dimostrata con il Napoli) ci proiettano in una nuova dimensione, dove i valori intrinseci possono contare anche di più di quelli tecnici tout court. Da qua alla Juve, il prossimo esamone epocale, ci sono partite che non possiamo sbagliare, a cominciare dalla Samp martedì, la Samp – touch your balls – con cui l’anno scorso iniziò la fine. Il rosicamento che si sente attorno è quasi meglio del rumore dei nemici.

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Le cose semplici


A volte il calcio ti si semplifica davanti all’improvviso, come quando a scuola ti facevano dividere numeratore e denominatore e scoprivi che una roba spaventosa tipo quarantaquattro centotrentaduesimi in realtà era uguale a un terzo. E nella sera del derby, del record d’incasso, della gente (amica o nemica) che ti aspetta al varco della verifica, provi a tirare le somme di una partita pazza e difficile da interpretare e – nella consueta ricerca dei meriti tuoi e dei demeriti altrui, degli eventi determinati e del culo eventuale – improvvisamente ti si semplifica il quadro.
E alcune cose sono (sembrano, almeno) davvero semplici, tipo che se fai viaggiare veloce il pallone è più facile creare le occasioni per vincere, o che se i tuoi davvero forti sono in palla per gli altri sono cazzi, o che se crossi bene magari qualcuno la mette, o che se un giocatore abbraccia un giocatore avversario in area – che sia il primo minuto o il novantesimo, che quello resista stoicamente o cada come una pera matura – è rigore, benchè per cent’anni di questi falli ne abbiano fischiato uno su venti, o forse uno su cinquanta, merito di un televisorino che sta cambiando le abitudini degli arbitri. Meglio (per restare in tema): le sta semplificando.
Eppoi è così semplice, a volte, avere un centravanti che a 24 anni ne ha già messi 80 in 134 partite con la tua maglietta nera e azzurra, un centravanti che avrà i suoi difetti (dai troppi selfie ai troppi tatuaggi alle troppe biografie alle troppo ingombranti dinamiche famigliari) ma è un giocatore da leccarsi i baffi, nonostante – e qui andiamo nel complicato, quando sarebbe così bello semplificare – la curva non lo riconosca e una parte della tifosotteria ogni tanto lo ritenga scarso, non decisivo, un lusso inutile, palesemente inferiore a (segue nome di attaccante qualsiasi di squadra medio/alta qualsiasi a livello del primo e del secondo mondo calcistico).
Eppure, semplificando, l’azione del secondo gol dice tante cose: Icardi che strappa un pallone a centrocampo e si invola verso l’area dove segna con un gesto spettacolare e strepitosamente fine, per interposto cross di Perisic che nel giro di due secondi e cinque metri si libera di un avversario, guarda di sottecchi dov’è il centrattacco e gliela mette sul piede volante.
No, dico: i due più buoni, non a caso. I due che una parte del popolo nerazzurro avrebbe giubilato volentieri: per non vedere più lui e la bionda (Icardi) o per un presunto pacchetto di milioni da reinvestire non si sa bene come (Perisic). E invece no, sono qui e lottano insieme a noi, tiè.
Resta ancora una cosa da semplificare: l’eloquio di Spalletti. Ma è un’impresa superiore alle capacità umane, forse a Certaldo nel 2375 troveranno la stele di Rosetta di Spalletti e i posteri sbobineranno a colpo sicuro. Ma non è importante, davvero. A me piace sentirlo parlare e non capire: in un certo modo, è rassicurante. Resto con i miei dubbi e le mie certezze, non devo interpretare nulla, vado a dormire senza ansia da prestazione: è bellissimo.
Sabato c’è Napoli-Inter, cioè la prima contro la sorprendente seconda, che ha vinto a Roma ma perchè ha avuto un culo spaziale e che ha vinto il derby ma perchè il Milan sostanzialmente fa cagare. Se perderemo, magari male, ci saranno i caroselli, perchè siamo ormai a metà ottobre, le giornate si accorciano e noi siamoancora  troppo davanti, troppo fortunati, troppo positivi, troppo brutti ma vincenti, troppo sereni per essere anche simpatici. Se non perderemo, vabbe’, si vedrà (ma il merito potrebbe essere della legge dei grandi numeri). Comunque non importa: anche Kim Jong un avrebbe firmato per 22 punti in 8 partite, da qui in poi sono tutti sedicesimi di finale e la nostra forza sta nel gruppo e soprattutto in Nagatomo.

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Quando il calcio passava da Biscardi

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Prima che Zuckerberg nel Terzo Millennio aprisse le porte di un immenso Bar Sport globale a qualche miliardo di persone, inventando una cosa oggettivamente fichissima e mettendo nel contempo le basi per la più devastante catastrofe cultural-intellettuale da Adamo ed Eva a oggi (il mio pensiero vale uno, come quello di un nazista dell’Illinois o di uno juventino revisionista, e no, non c’è un cazzo da fare), Aldo Biscardi nel 1980 fece una cosa molto più modesta ma, per i mezzi e le menti di allora, di un certo qual impatto: nel Bar Sport portò qualche telecamera e vi invitò una ristretta cerchia di persone – calciatori, dirigenti, giornalisti, opinionisti, politici, uomini di sport, uomini di mondo, celebrità – e con la formula open (bevete e fate caciara quanto vi pare, non c’è problema) ne fece uno spettacolo scomposto e a suo modo irrinunciabile. Irrinunciabile per il pubblico a casa, assetato di sangue e liti e polemicone senza scadenza, ma anche per gli stessi protagonisti, che facevano la fila per trovare spazio e visibilità nel lunedì sera di Rai3, dove si rigiocavano le partite del giorno prima al netto degli errori arbitrali, ci si accapigliava di brutto e poi bòn, ci si teneva qualcosa in canna per il lunedì successivo.
La morte sistema sempre le cose e tutti diventiamo più buoni a ripercorrere le gesta del de cuius, ma la coralità con cui oggi tutti parlano di Aldo Biscardi come di un grande innovatore lascia pensare che la cosa sia piuttosto vera. Lo riconosce tra gli altri Aldo Grasso, uno con cui in vita volarono i coltelli e che sul Corriere.it si arrende all’evidenza che Biscardi alla fine abbia avuto ragione: “Riconosco che è stato l’inventore del calcio parlato, non importa se a spese della grammatica”. L’analisi critica di Biscardi, del resto, è tutta un fiorire di ma e però, e forse è per questo che stasera lo piangiamo o rimpiangiamo un po’ tutti, compresi quelli che non lo sopportavano ma (ecco il ma) lo guardavano sempre. Che lo snobbavano ma non si sottraevano all’invito.
Prima di diventare la stanca replica di se stesso, cercando di rimanere impermeabile ai costumi che cambiavano e agli innumerevoli tentativi di imitazione che sputtanavano il format, Biscardi ha vissuto una ventina d’anni da vero e proprio Gran maestro del calcio in tv. Gran maestro nel senso di cerimoniere, non di manovratore. Anzi, lui lasciava molto fare: la formula originaria del suo Processo, che lo vedeva come giudice super partes tra difesa e accusa, gli consentiva di accendere micce e aspettare che la discussione esplodesse senza nemmeno doversi preoccupare che qualcuno alla fine dimostrasse di avere ragione. Cosa importava? L’esigenza principe era far spettacolo, provocare risse verbali (mitica la sua frase “Non accavallatevi, parlate solo due o tre per volta”), trascinare le tensioni ad libitum (qualcuno prima o poi calcolerà le ore dedicate al gol annullato a Turone, un numero astronomico). Lui era lì a interpretare il giudice e il vigile, a fare gesti teatrali, dire cose cerimoniose, violentare l’italiano, imbeccare i contendenti, chiamare la pubblicità e l’applauso in una successione che appariva ansiogena ma che era il frutto di un pensiero.
E poi gli piaceva mostrare medaglie al valore. Perchè il livello sarà stato infimo, a volte, ma al Processo intervennero presidenti della Repubblica: Pertini, tre ore di collegamento dalla Val Gardena, e Ciampi, che gli diede il la per la campagna dell’inno da far cantare ai giocatori. E poi presidenti del Consiglio (tipo Andreotti), tutta l’intellighenzia sportiva e non del Bel paese e, tra i tanti, anche personaggi che mai avresti immaginato sentir parlare di calcio, tipo Carmelo Bene. E niente, tu stavi lì disturbato e rapito, non eri mediamente d’accordo con il 99 per cento delle opinioni espresse e magari ti sentivi ferito nella tua intelligenza ogni 15 secondi da quei quattro balùba, ma il lunedì ti mettevi davanti alla tv per non perdersi un secondo di quello che poteva succedere, perchè qualcosa succedeva sempre.
Il merito di Biscardi fu quello di aver sempre lavorato senza rete, sempre in diretta, preparandosi un canovaccio ma poi tirando avventurosamente le fila anche di fronte agli ossi più duri da gestire: la diretta è stata la forza del programma e per gestire quel marasma, per dargli in qualche modo una forma, ci voleva molto mestiere e un gran pelo sullo stomaco. Nel suo ecumenismo si è anche legato a personaggi di dubbio gusto, da un Berlusconi che chiamava quando gli pareva come fosse casa sua a un Moggi che l’Aldone tra un ammiccamento e l’altro ha aiutato a costruirsi un’immagine sornione e simpatica quando invece, nell’ombra, manovrava già di brutto (e, dicono, qualche volta gli dettava la scaletta). Gli davano anche del bieco maschilista, per via di quelle vallette quasi mute che ingentilivano il panorama ma non intervenivano praticamente mai. Soprammobili. Ma loro, le vallette, hanno poi rivelato che lui era gentile e paterno e però perfezionista e quindi premetteva: “Parla solo se sei sicura di non dire castronerie”. E non era facile, esere sicure.
Ma Biscardi è sopravvissuto a tutto. Anche a un processo intentatogli dagli arbitri, la sua controparte naturale, in cui il giudice lo aveva assolto perchè sostanzialmente riconosceva che il programma era tutto fuorchè una cosa seria. E può permettersi, nell’ora della sua morte, di passare alla storia come il primo vero influencer in tema di moviola in campo, un suo pallino da sempre, invocata ogni volta a gran voce nello scetticismo generale. Curiosamente, lui che basava il suo programma sull’uso del Moviolone (una moviola che ingrandiva l’immagine e non ci si capiva francamente un cazzo, ma tutti la vedevano come un’innovazione che internet al confronto è una cagata), aveva anticipato con una visione nitida il concetto del Var. Ma se ai suoi tempi avessero introdotto il Var, il suo Processo – privo di materia prima – sarebbe morto di stenti, no? Invece il Var è arrivato 30 anni dopo le prime intemerate di Biscardi e va bene così: l’uomo che ha allungato il calcio (che fino ad allora si spegneva con la Domenica sportiva) di 24 ore, fino al lunedì notte, meritava una carriera lunga, prestigiosa e candidamente fondata sulla nostra vacuità.

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Il Var, impetuoso al tramonto, salì sulla Juve e dietro una tendina di stelle


Sì, lo so, avrei potuto far finta di  interessarmi un po’ di più della questione catalana o del sempiterno problema della vendita delle armi negli Stati Uniti, ma la lettura più istruttiva della giornata è stata di gran lunga l’intervista dell’ex arbitro Roberto Rosetti alla Gazza. Rosetti è il responsabile del progetto Var in Italia e quindi, dato il suo incarico, ha detto un sacco di cose ovvie  sul Var (che è una svolta epocale, che è perfettibile ma va già benissimo, che il calcio ne uscirà migliore ecc. ecc.), ma approfittando della pausa ha anche tirato una riga e fornito un sacco di cifre sulle prime sette giornate di campionato. Cifre legate in modo diretto o presunto al Var. Cifre, porca miseria, molto interessanti.
Intanto, quanti episodi ha preso in esame il Var nelle prime 69 partite di campionato? L’avreste mai detto? 309 (182 gol, 83 sospetti rigori, 44 altre cose),  circa 44 per ogni giornata. Non tutte le volte il gioco si è fermato: nella maggior parte dei casi gli addetti al Var non hanno chiamato l’arbitro perchè l’azione andava bene così. Un tot di volte, invece, il gioco è stato fermato eccetera eccetera. Quante decisioni ha cambiato il Var? 21 (su 309), cioè in media 3 per ognuna di queste prime 7 giornate. 288 volte è stata confermata la decisione della terna arbitrale.
Queste cifre suggeriscono un po’ di cose: che arbitri e collaboratori non sono stati delegittimati da questa nuova diavoleria e anzi fanno mediamente bene il loro lavoro, che il calcio non sta diventando nè pallanuoto nè baseball e che, al netto di qualche lungaggine (in due casi, tra cui Inter-Spal, il Var si è piantato come un qualsiasi pc tipo ctrl+alt+canc), il meccanismo è già piuttosto efficiente: o qualcuno per caso preferiva 21 errori in più (domanda retorica: ci torno più avanti)? Altri numeri: il tempo medio di revisione a gioco fermo di un’azione sospetta è inferiore al minuto, il tempo medio di recupero dopo il 90′ è aumentato rispetto allo scorso campionato di 19 secondi. Inezie.
Ma le altre cifre fornite sono, sotto un certo aspetto, al limite dello sbalorditivo. Rispetto allo scorso campionato, i falli fischiati sono diminuiti (da 260 a 203), le ammonizioni sono diminuite (da 313 a 245,  quelle per proteste da 27 a 20), le espulsioni sono diminuite (da 24 a 15, quelle per gioco violento da 9 a 6). Minchia, è tutto diminuto (tranne il cornetto Algida, una mia vecchia battaglia). Ma guarda caso i rigori sono aumentati, e mica di poco: da 20 a 34, quasi il doppio. Scusate la pedanteria, ma riussumo e sottolineo: diminuiscono falli, ammonizioni ed espulsioni, praticamente raddoppiano i rigori.
Rosetti commenta: meno falli, ammonizioni ed espulsioni perchè i giocatori, positivamente condizionati dal nuovo strumento, ci stanno più attenti e protestano meno. Bergomi, sul Corriere sempre di oggi, aggiunge: ci può essere un positivo riflesso sul gioco e sui gol, perchè i difensori sono più “prudenti” e lasciano  qualche centimetro in più agli attaccanti. Bene, siamo tutti contenti.
Curiosamente, nessuno fa la domanda-clou: scusate, ma se tutto il resto è diminuito perchè i rigori sono quasi raddoppiati? Già, perchè? Aggiungo un dato altrettanto clamoroso, la democratizzazione del penalty: a oggi, in 7 giornate hanno già avuto un rigore a favore 15 squadre e ne hanno avuto almeno uno contro ben 18 squadre. Tutte, tranne Inter e Roma. Delle statistiche della Roma non so un cazzo, ma su quelle dell’Inter sono abbastanza ferrato. L’Inter, storicamente massacrata nel dare/avere dei rigori, in questa benedetta stagione ne ha già battuti 3 (2 confermati dal Var) e non se ne è visto fischiare neanche uno contro. La Juve 2 a favore e 2 contro, incredibile.
Ora, queste cifre ci offrono dati oggettivi e conducono a qualche considerazione soggettiva ma molto attendibile. Il Var non è la perfezione assoluta (il Toro avrebbe un paio di cose da dire, per esempio) ma chi potrebbe stroncarlo se – dati alla mano – ha corretto una ventina di errori e ha decisamente rasserenato il clima in campo e sugli spalti?
Già, chi?
Il fatto che la Juve sia rimasta da sola a fare la guerra al Var sta ormai valicando i confini del patetico. Il dirigente squalificato per avere insultato il Var è l’apoteosi, la risata che li seppellisce. Un grottesco episodio che arriva dopo le avvelenate dichiarazioni del capitano, dell’allenatore e degli opinionisti-tifosi piazzati ad arte in tutte le trasmissioni mainstream per combattere una guerra di retroguardia, per cercare di diffondere disperatamente il messaggio che il Var fa schifo quando i fatti, purtroppo per loro, dicono l’esatto contrario.
La Juve ha perso domenica scorsa i primi punti del suo campionato, in un campo in cui solitamente passeggiava sotto l’occhio compiaciuto degli avversari e quest’anno no, nonostante due dei giocatori di casa li abbia già comprati (uno ha pure segnato). Dopo sei vittorie ha pareggiato nonostante il Var proprio in quella partita abbia mostrato una grossa e fisiologica falla, perchè è comunque manovrato da esseri umani che se decidono di vedere braccio e non spalla bòn, la decisione è presa e vaffanculo. La Juve è seconda in classifica con sei vittorie e un pareggio in casa dell’Atalanta e quindi potrebbe elegantemente dire che, con 19 punti su 21, non è che il Var le abbia cambiato granchè la vita. E invece no, sono sette giornate che si muovono scomposti, che si agitano sulle poltrone, che vomitano bile ed esprimono uno sconcerto così genuino e sincero che dice più di mille articoli e centomila ore di inchieste tv.
Il Var non ha cambiato nulla sui valori del campionato: dopo sette giornate ai primi sei posti ci sono le migliori sei (il Milan arranca, ma il Var non c’entra una sega) e agli ultimi sei posti ci sono le peggiori sei. Il Var ha cambiato però una cosa importante: che la situazione dubbia ha una seconda chance, ha la possibilità di essere rivista. Alla Juve di tutto questo non frega un emerito cazzo, anzi, si sente crollare la terra sotto i piedi: preferiva godere del beneficio del dubbio (nel dubbio, ti do il rigore/gol/fallo a favore; nel dubbio, non ti do il rigore/gol/fallo contro) e che gli altri si inculassero. Ecco, questa cosa è cambiata. E il fatto (temporaneo, provvisorio, culattone ed etereo finchè volete) che Juve e Inter siano alla pari dopo sette giornate, imbattute, con sei vittorie e un pareggio, spiega moltissime cose. Per la Juve (che resta la più forte e la favorita del campionato, anche con il Var) l’Inter è un’intrusa, come il Var. E adesso che le loro ossessioni sono salite a due, io spero – spero ardentemente – che prima o poi escano pazzi.

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Vedi l'Inter e dici boh


La cosa fantastica – e al tempo stesso spaventosa, a pensarci bene – di questo inizio di campionato dell’Inter è che nessuno, dico nessuno, da Zhang fino all’ultimo relitto da bar sport (e passando da figure-chiave tipo Spalletti e me, voi, noi tutti) sembra averci minimamente capito qualcosa. O meglio, sembra poter essere in grado di mettere in seria relazione la realtà (terzi in classifica quasi a punteggio pieno, miglior difesa del campionato) con il percepito (una squadraccia che mediamente gioca di merda e che salva il culo in qualche modo prima che l’arbitro fischi tre volte).
Se una cosa possiamo spremere dalle fredde cifre e da quello che si è visto finora è che l’Inter sta viaggiando pericolosamente in bilico tra gli altari e la polvere. E pericolosamente in bilico anche tra gli umori della tifoseria, ormai già borderline dopo appena sei giornate, tra la stupefatta esaltazione da zone alte della classifica e le indicibili perplessità su due terzi della rosa e, in generale, sul futuro del nostro campionato. Dopo tre partite in casa sono già partite le sentenze dei fischiatori, che rischiano di assottigliare ancora di più la rosa, quantomeno la sua sanità mentale. Ok la pazza Inter, ma qui siamo già al mezzo delirio collettivo.
E in effetti c’è da diventarci pazzi. Prendi i gol. Partiamo da quelli fatti: 12, media perfetta di 2 a partita, e fin qui tutto ok. Nove (9), cioè i tre quarti, sono stati segnati negli ultimi 20 minuti. Bene o male? Bene: la squadra ci crede fino alla fine, riesce a risolvere le partite nel finale? O male: non riusciamo mai a sbloccare, siamo lenti e inconcludenti fino a quando abbiamo l’acqua alla gola? Boh.
Quelli subiti, due (Dzeko e Verdi), dicono che siamo la miglior difesa del campionato. Ed è un dato strabiliante se pensiamo che solo su due uomini (Handanovic e l’incredibile Skriniar) oggi mettono tutti d’accordo, mentre sul resto – a cominciare da un Miranda non brillantissimo – si naviga a vista. Mentre preghiamo in tutte le lingue che la coppia centrale goda di infinita salute, abbiamo iniziato un’altra stagione con l’eterno problema degli esterni, con D’Ambrosio che diventa uomo irrinunciabile, con Nagatomo che (rumore di tuoni in sottofondo) dobbiamo ringraziare di esistere (no, sennò chi giocava in un paio di partite?). I nuovi sono eterei: Cancelo subito lungodegente, Dalbert ancora in pieno cantiere fisico e mentale (sarà veloce di gamba, ma a prendere una decisione ci mette mezz’ora). E quindi: boh.
A centrocampo siamo in un discreto marasma. Non ce n’è uno che potresti salvare al 100 per 100, non uno. Borja Valero non arriva in fondo alle partite (e anche sul durante avremmo da ridire), Vecino alterna buoni lampi a lunghe mediocrità, Gagliardini (che si era perso) deve tornare “quel” Gagliardini, così come Brozo deve tornare il Brozo che un tot di volte tutti giuriamo di aver visto, senza incaponirsi nei suoi scioperi bianchi o nei suoi ingobbimenti  a vuoto. Joao Mario è un mistero, perchè nel breve lasso di sei partite lo abbiamo visto entrare e cambiare tutto, ma anche un paio di volte giocare per gli altri. Eppure, è il centrocampo dei terzi in classifica. Boh.
In attacco i punti fissi sono Perisic e Icardi (che nelle ultime due partite avrà toccato tre palloni, di cui uno in difesa che sembrava Sergio Ramos. Avere Icardi e non mettergli un pallone decente, boh). Candreva – entrato come Brozo nel girone dei fischiati, da cui storicamente non è facile uscire – è sprofondato nel loop dei cross inutili e forse bisognerebbe toglierlo da lì. Sta uscendo come un gigante Eder, no dico, Eder!, l’emblema del “non è da Inter” ma che almeno ci mette una garra che tre quarti dei compagni si sognano. Poi succede che entra un ragazzo mai sentito nominare prima che lo comprassimo e San Siro prova palpiti di eccitazione. Beh, è il minimo data la situazione. Due gol a partita, l’attacco dei terzi in classifica ti perlime da morire. Boh.
E poi c’è il mister, anche lui in bilico come la squadra e tutti noi. In bilico tra le cifre che gli danno ragione e i fatti che lo mettono di fronte a un lavoro ancora lungo. In bilico tra le nozze e i fichi secchi, laddove un allenatore può limitarsi a fare il suo oppure a diventare valore aggiunto. Spalletti è geniale a non farsi capire dal mondo ma a farsi capire dalla squadra (almeno a non rinunciare mai a farlo). Il suo “smettila di scuotere la testa” detto a Brozo dalla panchina è la miglior indicazione tecnico-umana uscita dalla nostra panchina da mesi, forse anni. Facciamo come lui: crediamoci.
L’Inter di oggi è un deja-vu recentissimo: due anni fa l’inguardabile Inter manciniana arrivò fino a Natale da capolista (anche con 4 punti di vantaggio) e rischiò di girare da campione d’inverno prima di vedersi ridimensionare le sue forse eccessive ambizioni. E anche questa Inter deve decidere di che morte morire, nel senso che dietro due squadre probabilmente inarrivabili si gioca un sottocampionato che si può vincere, se l’ingranaggio si mette a funzionare davvero. Oggi siam qui a chiederci quanto pesa il culo sui nostri 16 punti, ma intanto li abbiamo messi in saccoccia. Il campionato vero sono le dieci partite contro le uniche cinque avversarie vere, e per ora siamo a punteggio pieno. Adesso andiamo a mietere il grano a Benevento: a metà ottobre, dopo la pausa, nel giro di dieci giorni il trittico Milan-Napoli-Samp dirà chi siamo davvero.
 

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Eugenio Bersellini e la sua meravigliosa idea di Inter

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A noi che oggi ci lamentiamo del mercato Suning col freno a mano tirato, chissà che effetto avrebbero fatto gli eventi nerazzurri dell’estate del 1977, quando nel giro di pochi giorni l’Inter perse la finale di Coppa Italia col Milan (derby che si giocò a San Siro il 3 luglio!), in quella che fu anche la partita di addio al calcio di Sandro Mazzola, e ingaggiò come nuovo allenatore Eugenio Bersellini. Che, all’epoca, non solo era un trainer tutt’altro che trendy nei risultati e nell’immagine, ma era anche appena retrocesso in B con la sua Sampdoria in crisi sportiva e societaria, costretta a fare le nozze con i fichi secchi di una rosa ridotta all’osso, pessimo mix tra vecchie glorie e giovani di incerte speranze.
Chissà, forse fu l’estrema dignità di quel campionato, l’orgoglio sfoderato contro ogni evidenza, la quasi-rimonta del girone di ritorno vanificata proprio all’ultima giornata a conquistare il cuore del presidente Fraizzoli, che cercava un allenatore solido e senza grilli per la testa per completare la rifondazione post-Grande Inter. Mazzola aveva appena chiuso la carriera per diventare dirigente, Facchetti si apprestava a iniziare la sua ultima stagione: a fine campionato l’Inter si sarebbe ritrovata senza i nomi immensi del suo passato e ormai lanciata verso un futuro tutto da scrivere, ricco di scommesse, incognite e talenti da plasmare. Se ne stava andando un decennio vissuto così, cercando di spremere il possibile dall’eredità del recente passato e di trovare disperatamente i campioni di domani. Tutto questo mentre la Juve vinceva uno scudetto dopo l’altro e il Milan si stava preparando a prendersi quello della stella.
Ecco, fu in questo bel quadretto che Eugenio Bersellini fece il suo ingresso nella storia dell’Inter.
Era quel che oggi, così estraneo ai modi e ai i lussi estremi del suo stesso mondo, catalogheremmo come un proletario. Montanaro della val di Taro, lombardo ad honorem per una modesta carriera da calciatore quasi tutta giocata tra Brescia, Monza e Busto Arsizio, portava pure male i suoi anni (ne aveva 41 quando arrivò a Milano, ne dimostrava almeno dieci di più) ed era uno di quelli che se poteva (quasi sempre) andava in panchina in tuta, a fasciare le sue forme da ex sportivo e a sottolineare che lui la domenica era lì per lavorare e non per vestirsi della festa. Il nuovo mister dell’Inter aveva allenato “solo” Lecce, Cesena e Sampdoria, ma era già per tutti il “sergente di ferro”: per i modi sbrigativi – così apparentemente lontani dalla sua timidezza e dai suoi modi pacati -, il decisionismo, l’attenzione straordinaria alla preparazione fisica, la tendenza a non farsi impietosire da niente e da nessuno quando c’era da andare in ritiro, anche a lungo.
Ecco quel che cercava Fraizzoli: proprio un sergente di ferro, dopo i tanti brav’uomini (Invernizzi, Masiero, Chiappella) o monumenti del passato (Herrera, Suarez) che si erano avvicendati in panca dopo il glorioso scudetto del 1970/71, senza riuscire a evitare gli sprofondi (tanti quarti e quinti posti, addirittura un nono) di un rinnovamento a tratti poco coraggioso e a tratti inadeguato ai tempi e alle qualità degli avversari. Bersellini, anni più tardi, raccontò quel che chiese alla società: tempo, soprattutto. Tempo per un programma serio di ricostruzione, anche senza grandi nomi, per tornare a essere competitivi lanciando i giovani e un nuovo spirito nerazzurro.
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Bersellini cominciò con quel che c’era (non tantissimo) più i primi due acquisti a sua immagine e somiglianza: un ragazzo molto magro e dai grandi numeri, Altobelli, e un jolly totale, Scanziani. Dopo due giornate, giusto per far capire l’andazzo, lanciò in prima squadra il 19enne Baresi. Finì con un quinto posto e vincendo in rimonta la Coppa Italia con il Napoli, all’Olimpico, una finale che la Rai manco trasmise in diretta: gol di Restelli pareggiato da Spillo, risolve Bini che la mette a tre minuti dalla fine. Per noi il primo titolo dopo sette anni. Pochi giorni dopo inizieranno i Mondiali di Argentina: ci andrà un solo interista, per dire com’eravamo messi (Bordon, portiere di riserva).
L’anno dopo la triade Bersellini-Beltrami-Mazzola completa la rifondazione, pescando ancora in provincia e nel vivaio: arrivano Beccalossi e Pasinato, la coppia Altobelli-Muraro affila le punte. Ma sarà una stagione difficile: quarti in campionato (colpa anche delle tre sconfitte nelle ultime tre giornate), eliminati ai quarti di finale in Coppa delle Coppe dal Beveren e in Coppa Italia dalla Juve. Mentre l’altra metà di Milano, nel salutare Rivera, festeggia ahinoi lo scudo.
Ma l’Inter di Bersellini aveva preso forma. Quella del campionato 1979/80 è una squadra che ha ormai metabolizzato il credo berselliniano, un calcio poco estetico (a parte il Becca), nuovo, diverso, frenetico, totale, che può permettersi di reggere grazie a una preparazione atletica maniacale rispetto alla media italiana di quei tempi. Nessuna follia sul mercato: al mister basta innestare su un impianto giovane un jolly esperto con molto sale in zucca (Caso) e un centrale di difesa stagionato (Mozzini) con cui dar cambio adeguato a Bini e Canuti. E’ un’Inter fresca, simpatica, molto lombarda, un cocktail di atletismo e di talento. Parte sparata in campionato e in quel magico autunno assesta una spallata a tutto e tutti: nel giro di quindici giorni 2-0 al Milan con la magica doppietta di Beccalossi e 4-0 alla Juve con i gol, tutti nel secondo tempo, di Altobelli (3) e Muraro. Sarà una cavalcata solitaria, con un finale di pura amministrazione di un enorme vantaggio e di un carburante ormai quasi finito. Il gol scudetto (il 27 aprile, terzultima giornata, Inter-Roma 2-2) lo segna Mozzini, a 2′ dal termine, con una ciabattata dal limite nemmeno tirata con il suo piede: un gol enormemente simbolico di cos’era quell’Inter e di cos’era Bersellini.
Io c’ero, seduto sulla gradinata opposta, l’odierno primo blu, un ragazzotto che esulta al suo primo scudetto dal vivo, abbraccia suo zio e gli rompe gli occhiali. Lo zio che oggi compie 90 anni, tu guarda gli scherzi del tempo.
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Niente sarà più come prima. Fu l’ultimo campionato senza stranieri. Fu, soprattutto, il campionato del calcio scommesse, degli arresti a bordo campo, delle maxi squalifiche, del Milan in serie B, della Juve incredibilmente preservata, della verginità perduta di un movimento che si scoprì sporco oltre ogni immaginazione. Uno scandalo che non sfiorò l’Inter e i suoi uomini tutti di un pezzo, da Fraizzoli a Bersellini, personaggi d’altri tempi, sempre e comunque.
Prima di andarsene, dopo cinque anni spesi bene, Bersellini non riuscì più a spingere l’Inter oltre l’aurea mediocritas in campionato (ancora un quarto e un quinto posto), ma arrivò a un passo dalla finale di Coppa dei Campioni (sconfitti nel doppio confronto dal Real) e a vincere un’altra Coppa Italia (contro il Torino) salutandoci alzando un trofeo. Tornerà a Genova a completare il lavoro (una Coppa Italia anche lì), lascerà un gran ricordo di sè anche a Torino sponda granata. A noi lascia quello di uno scudetto strepitoso, vinto contro ogni logica contemporanea sotto la guida di un tipo tosto, grassottello, stempiato e – diremmo oggi – terribilmente cazzuto. La terra (e il prato sopra) le sia lieve, mister.

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Se il trucchetto del dubbio non funziona più

Breve storia vera. Anche se ho la ragionevole sensazione che non ve ne fregherà un cazzo, vi debbo raccontare che due settimane fa mi sono trovato in una drammatica situazione: avevo urgente bisogno di un reggilibri. No, ma mica uno a caso: ne volevo uno carino, tipo quelli visti in vacanza in cento diversi negozi di stronzate alto di gamma, acquisti sempre abortiti nell’ineluttabile evidenza di non poter farcelo far stare, il reggilibri, nel già stipato trolley a misura di Easy Jet. Ho così trascorso due giorni a macerarmi: dove posso trovare in Italia, vicino a me, negozi di stronzate alto di gamma forniti di reggilibri carini tipo quelli là? Finchè – perchè non ci ho pensato prima? – ho fatto la cosa più ovvia: ho digitato “reggilibri” su Amazon e mi si è aperto un mondo. E per l’ennesima volta nel corso degli ultimi dieci-dodici anni almeno, relativamente a qualsiasi questione in cui internet e derivati c’entrassero almeno di sguincio,  ho fatto tra me e me la stessa considerazione: quanta fatica inutile si faceva, prima?
Cioè: tipo il Var. No?
Quanta fatica inutile ha fatto l’Inter, prima del Var? E’ una domanda che oggi possiamo fare serenamente, senza complottismi e pianginismi, guardando semplicemente alla Storia e alle prime tre giornate di questo campionato, in cui con il Var ci sono stati assegnati due rigori che gli arbitri non ci avevano dato. Due rigori decisivi, perchè entrambi hanno sbloccato il risultato. Chissà se avremmo 9 punti senza il Var? Boh, forse sì, forse no.
Si tratta, sia chiaro, di due tipici rigori “da Var”. Non due clamorosi errori dell’arbitro, ma due rigori oggettivamente difficili da vedere, border line, quasi superiori all’umana percezione (come essere sicuri al 100% e in una frazione di secondo del contatto ai danni di Icardi, o dell’esatto punto del fallo su Joao Mario a cavallo della riga?). Più che legittimo pensare che l’arbitro non fosse in grado di prendere la giusta decisione. Addirittura, che l’arbitro proprio non li potesse vedere correttamente.  E quindi? Ora c’è il Var, prima non c’era. Bene, fine discussione?
No, per niente. Il punto è proprio lì, in quella zona grigia che sta tra la percezione e la decisione dell’arbitro. Chiamiamolo “dubbio”. Ecco, nel dubbio, all’Inter i due rigori non erano stati dati. E non è una questione da poco, questa. Non è prendere una decisione sbagliata, ma non prendere una decisione corretta. La sfumatura è importante, ma l’effetto è uguale. Quante centinaia di partite, quante decine di campionati sono stati determinati o condizionati pesantemente dai dubbi? Da rigori, per esempio, che “nel dubbio” non hanno dato a noi, a volte sistematicamente (nel 2013/14 un solo rigore nell’intero campionato, 21 rigori in tutto negli ultimi 5)? O da rigori che, nel dubbio, non sono stati dati contro la Juve -tanto per fare nomi e cognomi -? O, nel dubbio,  a suo favore?
Tre partite non sono nulla in confronto all’eternità. Ma due rigori a favore dell’Inter nelle prime tre giornate di campionato sono un fatto epocale, e due rigori contro la Juve sono un fatto apocalittico. Lo si capisce dalle reazioni scomposte dell’emisfero gobbo nei confronti del Var, una lesa maestà di cui faticano ancora a capacitarsi. Reazioni scomposte che arrivano mentre la Juve ha 9 punti in tre partite: cioè ha sempre vinto, ha rimediato al Var con la sua forza, così, semplicemente segnando più gol dei rigori contro. Certo, si è presa qualche piccolo, relativissimo spavento e ha fatto un pochino di fatica in più. Il giocare ad armi pari ti fa pagare qualche prezzo.
Con tutti i suoi attuali (e provvisori, si spera) difetti, il Var può arrivare a un risultato immane: eliminare la zona grigia del dubbio con una oggettività inoppugnabile. Eliminare i rigori dati o non dati così, una po’ alla cazzo di cane, tipo i falli di confusione, approfittando della vaghezza della situazione. Tenendo la media di queste prime tre giornate, alla fine potrebbero ballare diverse decine di gol, tra rigori dati e non dati a ragion veduta. Certo che la Juve è nervosa: lo sarei anch’io se sapessi che la distanza dagli inseguitori un pochino si accorcia, e che sono finiti i chiodi da spargere sulla strada.
Il Var non risolverà il campionato (la Juve, ribadisco, è a punteggio pienissimo nonostante il Var), ma da subito sistema un po’ di cose. Mette tutti sullo stesso piano e rasserena gli animi (non avremo più “dubbi” su cui incancrenirci per semestri). Il resto, tranquilli, è tutto come prima: la palla è rotonda, bisogna segnare dei gol, possibilmente uno in più degli altri. Ma il sistema dell’aiutino è già tutto crepato, e quello degli alibi pure. Eggià, sarà meno frustrante anche perdere, a volte: senza il dubbio che sarebbe potuta andare diversamente se (segue lamentela), si potranno mandare affanculo anche i propri beniamini con una soddisfazione e una serenità che per decenni a noi tifosotti è stata negata.

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(Non solo) culo

AS Roma v FC Internazionale - Serie A
Tra i primi 15 minuti della partita di Roma, giocati in discreta serenità e con un gol incredibilmente sbagliato (eh, chissà come sarebbe andata), e gli ultimi 25, contenenti il finale più orgasmatico degli ultimi tot mesi (forse anni), ci sono stati 50 minuti in cui la Maggica ha preso tre pali (tre pali belli pieni, eh?, mica quei tiracci che scheggiano il legno e bòn) e in sostanza ci poteva fare a pezzettini. Letta così, con uno sguardo oggettivo e sincero, Roma-Inter resta una partita enigmatica, un piccolo mistero buffo e la clamorosa prova provata che la nostra Inter è capace di tutto e di niente, e il niente ci deve preoccupare, ok, ma il tutto lo può fare benissimo se ci si mette.
E poi c’è un altro fattore, palpabile ma impalpabile: il culo.
Il culo è l’apostrofo rosa tra le parole “t’avevo detto che finiva male, ma ‘sti gran cazzi?”. Il culo aiuta gli audaci e bacia i belli. Il culo non lo vedi ma sussiste e ti cambia non dico la vita, ma la serata sì. Il culo non compare nel risultato finale, del tipo
Roma-Inter 1-3*
(* di culo)
oppure in classifica, del tipo
INTER 6*
JUVENTUS 6
MILAN 6
NAPOLI 6
SAMPDORIA 6
(*una partita di culo)
ma l’interista savio e progressista non può non tenere conto della dose epocale di culo che ha preceduto i fuochi d’artificio all’Olimpico. In pratica, la faccenda dell’asterisco dovremmo farla nostra in qualche modo, per rimanere mentalmente sani e non illuderci di avere trovato la via, per mantenere alta la guardia e pure l’asticella nelle nostre pretese. Cioè, al bar con uno juventino non lo possiamo ammettere (“Avete vinto di culo!”, “Culo un cazzo!”), ma mentre siamo nella nostra intimità, stesi sul letto in cameretta intenti a guardare il soffitto e a ripensare alla partita di Roma dove non si vinceva dai tempi del Vate, possiamo – dobbiamo farlo – permetterci di sussurrare:
“Ok, vero, un briciolo di culo lo abbiamo avuto”.
E lì scatta il sospiro di sollievo. Sì, l’ho detto. No, non sono un bruto. “Culo”. Che liberazione. Non c’è da vergognarsi del culo. Per carità. Basta non farne un sistema di vita, o il refugium peccatorum, o l’ultima speranza di default. Bisogna tenere conto per onestà intellettuale che per circa 10 centimetri (4 per correggere il tiro di Kolarov, 4 quello di Nainggolan e 2 quello di Perotti) abbiamo trascorso due giorni a sperimentare tecniche di onanismo invece che affrontare la questione dell’inevitabile esonero di Spalletti e dell’invio al macello comunale di almeno sei-sette titolari. Ecco, tutto qui. Questo è il culo: 10 centimetri nell’eternità di una vita a smoccolare per pali, traverse, piedi a banana e rigori farlocchi. 10 centimetri.
Per cui, con gli animi distesi, e nell’eventualità che un giorno la fisica per compensazione ci possa punire (quella partite maledette in cui i centimetri e le zolle ti si rivoltano contro e gli altri ti infilano a ogni merda di spiffero), non dimentichiamo il ruolo importante e fattivo del culo in una delle vittorie più belle dell’ultimo lustro. Mentre ci crogioliamo sulle giravolte di Icardi e sugli slalom di Perisic (gesti di puro talento, l’anti-culo per eccellenza), ce lo possiamo permettere, in scioltezza: sì, ogni tanto ho culo e me ne vanto. E col cuore in pace prepariamoci a un futuro dove il culo sarà come il jolly di Giochi senza Frontiere: una cosa che ti giochi una volta ogni tanto, senza abusarne, quando il fato e la rotondità della palla te ne daranno l’opportunità.
Perchè – è evidente dopo 180 minuti di campionato – il cocktail tra il culo attivo nostro e la Var passiva della Juve potrebbe portare situazioni insperate. Basta essere lì ad approfittarne, a danzare sulla fascia, a metterla in mezzo e a fare piroette che neanche Nureyev: non è culo, questa è classe, cari i miei coglionazzi.

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Generatore di titoli sul Var per la Gazza (e Tuttosport)

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Le sconvolgenti novità della prima giornata di campionato (rigore contro la Juve, rigore a favore dell’Inter dopo 3 minuti e mezzo di gioco invece che dopo 3 mesi se va bene) portano a pensare che, dopo appena 90 minuti di calcio giocato, l’unica cosa su cui valga davvero la pena soffermarsi sia il Var. E sull’argomento si soffermeranno per settimane (e più probabilmente per mesi o anni) i quotidiani sportivi, in un climax giornalistico che necessiterà di uno speciale apporto creativo e umanistico sui contenuti. Ecco, dunque, una serie di titoli che consiglio a titolo gratuito a due quotidiani sportivi che certamente ne avranno bisogno – di titoli, dico – e per i quali provo tecnicamente e professionalmente compassione (in senso letterale).
E NAUFRAGAR M’E’ DOLCE IN QUESTO VAR. Titolo che sottintende una generale soddisfazione degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica per il nuovo dispositivo tecnologico: è molto bello ed esprime una sua rasserenante positività, ma è da usare prudentemente dopo un numero congruo di giornate e nella certezza di un saldo positivo tra decisioni corrette ed errate.
VAR WEST. Titolo da usarsi in una situazione opposto rispetto al precedente, allorquando l’applicazione del nuovo dispositivo si riveli spesso fallace o foriera di polemiche, e quando di conseguenza nell’opinione pubblica inizi a montare il dubbio che il Var sia una sòla epocale e prevalga un diffuso sentimento di confusione.
VAR BASTEN. Ideale per l’mmancabile l’intervista al campione del passato perchè esprima un parere importante sul nuovo dispositivo. Di particolare effetto anche i possibili giuochi di parole con Van der Sar , Van der Vaart e Van Gaal. Interessante anche l’applicazione nel ciclismo e nella pittura. E anche nella musica, per quanto si presenti piuttosto arduo chiedere un parere sulla moviola in campo a Van Morrison, ai Van Halen o a Ornella Vanoni. Ma la Gazza non si ferma davanti a nulla.
VAR CONDICIO. Titolo ideale quando le statistiche inizieranno a farsi attendibili e ogni squadra potrà fare i conti tra decisioni favorevoli e sfavorevoli. Ottimo anche per un’intervista a un giurista sportivo o a un ex magistrato appassionato di pallone.
VARCAMENARSI. Titolo che esprime un ampio scetticismo sull’applicazione pratica del Var. Non è una bocciatura, ma una critica profonda, uno schierarsi pronunciato verso un possibile futuro no.
VAR MORTO. Questa invece è una bocciatura immediata e senza sconti. Ottimo titolo per commenti e opinioni di direttori, editorialisti ed espertoni, oppure per una prima pagina di impatto dedicata a una qualsiasi partita (meglio se di una squadra importante) il cui risultato è stato erroneamente determinato dal Var e per cui si ritiene che bòn, l’Italia ne ha avuto abbastanza.
RICORSO AL VAR. Vedasi “Var condicio”, titolo sottilmente legato a una visione pedante e leguleia della questione, ideale a corredo di un’articolessa di una grande firma o anche per una prima pagina sulla decisione di particolare impatto su un tal partita. Oppure, ottimo per un paginone storico e analitico sui primi dieci interventi del Var.
VAR DI NECESSITA’ VIRTU’. Titolo adatto a colonnino in prima pagina con commento del direttore o di una prima firma. Esprime fiducia e sconforto allo stesso tempo, un titolo democristiano dove ognuno legge ciò che vuole e niente, si arriva alla giornata successiva con normalità.
VARDALAND. Titolone di grande effetto da usarsi quando il Var sia stato usato con risvolti e conseguenze spettacolari: chessò, 10 ricorsi al Var in una stessa partita con conseguenti 25 minuti di recupero, oppure 5 ricorsi al Var tutti a favore di una stessa squadra che vince 8-0 in 11 contro 7, ecco, cose così.
SPECIALE TUTTOSPORT
Ci sono poi titoli che la pur caciarona Gazza non può permettersi di usare, ma un Tuttosport sì. Siccome sono generoso, tre consigli anche al nemico:
VARGOGNA! Titolo da usare in concomitanza con la prima sconfitta della Juve causata dall’applicazione del Var (cioè, presto).
VARFANCULO! Titolo da usare in concomitanza con la prima serie di sconfitte della Juve causate dalle applicazioni del Var (cioè, presto).
SCUDETTO DI VARTONE! Titolo da usare in concomitanza con il primo campionato perso dalla Juve dopo tot consecutivi, in circostanze direttamente ricollegabili a una lettura faziosa del Var nelle precedent 38 giornate (cioè, presto).

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