Non celebrare funerali (istruzioni per l'uso)


Ventotto giorni, sette partite senza vincere. Togliendo le due di Coppa Italia (ormai un capitolo chiuso, non parliamone più), restano le cinque di campionato. Cinque partite, tre punti, due gol segnati, ‘na tragedia. Cinque partite che sono l’imprevisto seguito delle 15 precedenti: zero sconfitte, primato in classifica per due giornate, un meraviglioso periodo che adesso sembra lontanissimo anche se solo un mese e tre giorni fa si prendeva a pallate il Chievo divertendosi un casino.
Non sono tra quelli che passano da paillettes e cotillons ai paramenti funebri nel giro di ventotto giorni. Nel senso che, così come ho vissuto con divertito realismo il periodo delle 13 partite in cui non si perdeva mai (prevedendo che prima o poi sarebbe successo e nel frattempo respirando a pieni polmoni quell’arietta frizzante che c’era in vetta),   ora, nel momento in cui non vinciamo più, non mi flagello nè maledico indonesiani e cinesi fino alla settima generazione: niente, la nostra parabola ha imboccato la fase discendente (non siamo attrezzati per linee rette inclinate verso l’alto) e siamo rientrati nei ranghi. E questa semplice manovra, indigesta dopo essere stati anche capolista, ha messo in mostra tutte le nostre magagne. Che – infortuni a parte – c’erano anche quando le cose andavano bene (Joao Mario, per dire, ha avuto un anti-rendimento assai lineare, e la rosa è manifestamente incompleta dai primi di luglio), ma erano ben nascoste dall’entusiasmo dei risultati, in un meccanismo psicologico individuale e collettivo ben noto a chi fa sport.
Dopo Inter-Chievo ci attendeva un mini-ciclo molto duro di sei partite (che non si è ancora concluso, ne manca una cruciale, crucialissima): quattro difficili/difficilissime – Juve a Torino, Lazio in casa, Fiorentina a Firenze, Roma in casa – e due facili contro due squadre però molto in forma: abbiamo perso proprio queste due, le altre le abbiamo pareggiate e questo, nonostante tutto, è stato comunque un segnale importante, dato anche in momenti di estrema difficoltà (tipo un’Inter-Lazio giocato poco dopo il derby-disastro). Dopo la pausa resta Inter-Roma, che adesso assume un significato fondamentale. Poi arriveranno un tot di partite da vincere sempre: quella sì che sarà una prova senza appello.
E poi, cosa è successo in queste cinque partite? Intanto, che Napoli e Juve hanno fatto 10 (dieci) punti più di noi e ciao, buon viaggio, arrivederci al 2018/19. Ma questo, tornando al sano realismo di cui sopra, è un dato tutt’altro che sconvolgente: non siamo al livello di Napoli e Juve, lo siamo stati per quattro mesi e va bene così, è stato bello finchè è durato. Più significativo è quello che hanno fatto Roma e Lazio, con cui ci giochiamo il terzo e quarto posto. Roma e Lazio che il 24 recupereranno le loro partite, così la finiremo di fare calcoli eventuali e approderemo a una classifica reale.
La Lazio, purtroppo, ha fatto cinque punti più noi, mantenendo un mostruoso ruolino di marcia in trasferta che rende ancora più prezioso lo 0-0 che gli abbiamo imposto a San Siro. Ha sorpassato la Roma e ha davanti un buon calendario, almeno fino a Napoli-Lazio dell’11 febbraio. E’ gasata.
La Roma è invece franata. Ha fatto 5 punti, due più di noi, vincendo come sappiamo con il Cagliari al centesimo minuto con un gol segnato con non si sa quale parte del corpo. Poi due pareggi e due sconfitte, un solo punto nelle ultime tre partite, non è più predestinata al terzo posto ma – ora come ora – a giocarsi alla pari con Inter e Lazio in due posti Champions in un triangolare che durerà 18 partite.
E noi? La situazione è piuttosto chiara. Con un centravanti da un gol a partita e la terza difesa del campionato siamo dove meritiamo di stare. Anzi, ci siamo pure concessi un po’ di lusso. Quando il labile meccanismo si inceppa – uomini che perdono la forma, altri ai limiti dell’ammutinamento tecnico e umano, reparti occasionalmente decimati dagli infortuni – siamo molto più in balìa degli eventi. E’ chiaro che servirebbe qualche puntello, quantomeno per stare sereni se a uno viene il mal di pancia o per consentire all’allenatore di avere a disposizione qualche opzione in più per cambiare le cose in corso d’opera. Lo avremo? Boh.
Quello che mi dispiacerebbe non avere – mi riferisco al nostro collettivo di tifoseria – è quel mood che in qualche modo ci ha issati ben oltre l’asticella appena uno o due mesi fa. E’ ovvio che è più facile essere ottimisti se vinci, se giochi bene, se segni, se sei primo. Ma non è altrettanto ovvio sbaraccare tutto cinque mesi prima che il campionato finisca, quando non hai mai perso con nessuna delle tue concorrenti e quando restano 18 partite da giocare, con tutto quello che può ancora accadere di conseguenza. Non siamo al livello delle primissime, ok, ed è giusto rimarcare le differenze ed evidenziare le falle: quando non è sterile muguigno si chiama ambizione. E se arriveremo quinti o peggio, vabbe’, saremo autorizzati ad assaltare il Centro Suning con cori, striscioni, pomodori e catapulte. Ma prima, accidenti, non sarebbe meglio giocarsela tutti insieme?

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Viva la Rai (tu dimmi da che parte stai)


Grazie a internet ci si mette un minuto: qualche clic e un doveroso incrocio di informazioni ed ecco un raggio di luce illuminare gli oscuri e misteriori motivi per cui Giunone è incazzata con Enea, i pisani odiano i livornesi (e viceversa, ovviamente), The Joker ha un problema con Batman e Selvaggia Lucarelli ce l’ha a morte con Asia Argento (e viceversa, ovviamente).
Ma, di preciso, cos’ha mai fatto l’Inter alla Rai?
Clicco e riclicco e non trovo una cippa. L’Inter, è notorio, non gode di buona televisione. Ormai alle derive di Sky e di Premium ci abbiamo fato il callo e ne abbiamo colto (più o meno) le intime motivazioni, tra aziendalismi assortiti, retropensieri spinti e dna dei commentatori. “Molti nemici molto onore” è uno slogan destro e un po’ sinistro, ma è giusto per rendere l’idea. Lo sappiamo, bòn, nella vita c’è di peggio di qualche prostituto intellettuale e stiamo pur sempre parlando di quattro calci a un pallone. Ma la Coppa Italia 2017/18 ha aperto un nuovo scenario. Tirando in ballo la Rai, di cui ogni tanto dimentichiamo l’esistenza e che con la Coppetta invece si riappropria occasionalmente del palco principale. Sia chiaro, noi mica pretendiamo trattamenti di riguardo (per carità!) o le telecronache tifose (che sono una pagliacciata). Ma…
… di preciso, cosa abbiamo mai fatto alla Rai?
Riavvolgiamo il nastro e torniamo alla sera di Inter-Pordenone, 12 dicembre, ore 20,45. E’ chiaro a tutti che si tratta di un evento simpaticamente anomalo. Una squadra di Lega Pro che non è mai stata in A e nemmeno in B si trova a giocare 1) gli ottavi di Coppa Italia 2) con l’Inter 3) capolista in Serie A 4) a San Siro 5) in diretta 6) in chiaro 7) sulla tv di Stato. Bum! Per chi ama lo sport ci sono tutti gli ingredienti per vivere con un certo pathos la vigilia e guardare con curiosità la partita. Davide contro Golia e quanto ce n’è. Anche il nostro cuore nerazzurro batteva affettuosamente per l’avventura sopra le righe del Pordenone, figurarsi quello dell’Italia non interista. Tutti col Pordenone, chiaro, giusto così. Tutti a gufare: embe’, l’avremmo fatto anche noi per un Juventus-Giana Erminio o per un Milan-Pro Piacenza.
Un po’ meno scontato, piuttosto, che anche la Rai, col passare dei minuti, si trasformi in una specie di Tele Pordenone, schierandosi senza alcun pudore giornalistico, etico, umano, professionale e  concettuale per Davide e gufando apertamente contro Golia, augurandosi ogni cinque minuti che la partita potesse andare in un certo modo, uno solo, quello più sorprendente, più clamoroso, più apocalittico, più fantasy, più orgasmoso, che al confronto il Leicester è ‘na stronzata. Durante i rigori, al match point del Pordenone sembra di stare a Berlino nel 2006. E alla fine la delusione è palpabile quando lo spietato Nagatomo mette il duemillesimo penalty: lo staff Rai è stravolto come i quattromila pordenonesi sul terzo anello blu. Minchia, è passata l’Inter, che barba, che noia, che sfiga.
Resta il dubbio: atmosfera fastidiosa, occhei, ma come non comprendere che nella specialità del momento un uomo di sport possa nutrire una naturale simpatia per il Pordenone, per quanto essa ti sfugga tamquam dal gargarozzo e sgorghi dei microfoni copiosa come l’effetto del morbo di Montezuma? Assolti per insufficienza di prove.
Il 27 dicembre, in diretta tv in chiaro su Rai1, va in scena Milan-Inter. L’Inter nel breve volgere di 15 giorni è caduta in disgrazia e arriva in pullman con gli avvoltoi sopra, ma il Milan (una squadra barzelletta in crisi epocale) è messo molto peggio. Quindi, secondo l’algoritmo Rai, al contenuto già accattivamente della partita (no, dico: il 27 dicembre al posto della replica di “Tutti insieme appassionatamente” hai in prima serata un derby dentro-fuori di Coppa Italia. Sciambola!) bisogna aggiungere un carico artificiosamente emozionale, per fare finta che la partita interessi davvero a questa accozzaglia di non-milanesi e per creare un ambiente del genere “calcio emozionante tipo (metti un Paese a caso) e non come la nostra sbobba che però vi edulcoriamo perchè pagate il canone e noi vi vogliamo ravvivare la serata”. Ergo: va in campo una squadra disperata, con un allenatore disperato, con un pubblico disperato ad affollare gli spalti mentre piove e tira vento. Sosteniamola, no?
Telecronisti e commentatori, allo stadio e nello studio, vengono rapidamente settati sulla modalità “raccontiamo una partita di merda apprezzandone lo spirito agonistico e sottolineando in ogni occasione gli sforzi della più debole e le mancanze della più forte che magari perde e quindi yeah!”.
Non è colpa della Rai se quel mollaccione di Joao Mario ha centrato a porta vuota il corpo morto di uno dei fratelli Donnarumma invece di sfondare la rete col pallone, nè se Skriniar ha azzoppato Kalinic (che non avrebbe segnato mai) facendo entrare Cutrone (che ha segnato), nè se l’Inter da quattro partite fa sostanzialmente cagare per una serie di motivi che qui non è il caso di ripetere. Ma 120 minuti di tifo mascherato sono fastidiosi per quei poveri milioni di interisti già prostrati da Brozovic eccetera eccetera.
Il dopopartita non è stato meglio della partita. L’arrivo al microfono di Gattuso (di Gattuso!) viene salutato con salamelecchi che a Pyongyang si sognano. Poco prima, dal terreno di gioco, Thomas Villa congedava Cutrone dopo l’intervista con “ora vai a fare la doccia sennò prendi freddo”. Al che ha iniziato a scendermi sangue dal naso e, arginando l’epistassi e senza più chiedermi che cosa avesse mai fatto l’Inter alla Rai (a quel punto avevo anche i miei cazzi), ho girato su Boing.

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Vi ricordavate che dovevamo morire?


Cioè, guarda la sfiga: non ti vanno a togliere la pausa natalizia proprio nell’unico anno in cui ne avresti avuto bisogno come la crema di mascarpone sul panettone? Naturalmente, fino alla scorsa stagione abbiamo detto il peggio possibile delle lunghe vacanze natalizie del nostro calcio. Vinci prima di Natale? Ecco, adesso ‘sta cazzo di pausa ci toglie il ritmo. Perdi prima di Natale? Ecco, invece di rimediare velocemente alla sconfitta se ne vanno tutti alle Maldive e buonanotte al secchio. Fai cagare e perdi i pezzi prima di Natale (è la storia di queste ore)? Ecco, nel periodo in cui fino a un anno fa avremmo quantomeno potuto ricaricare le pile, ti aspettano nel giro di dieci giorni Milan, Lazio e Fiorentina. Ovvero: derby dentro-fuori di Coppa Italia con i cugini che stanno molto peggio di te e, arrivati al fondo del barile, non possono che fare meglio (anche se è difficile immaginare come); match-spareggio per il quarto posto nel tuo momento peggiore con avversari non impeccabili ma certamente più sereni davanti alla prospettiva di un insperato sorpasso; prima di ritorno su campo tradizionalmente ostico e avaro. Poi, dopo una pausa per non ho capito bene cosa, ci sarà la Roma.
No, prima che mi dimentichi: Buon Natale a tutti.
Dicevamo: ognuno di noi aveva ben presente che prima o poi si doveva morire, un po’ perché ce lo auguravano tutti (vabbe’, ci sta) e un po’ perchè ce le ricordavamo spesso anche tra di noi, come i frati trappisti, incontrandoci agli angoli dei chiostri ogni volta che la serie positiva si allungava di uno. Diciamo che, se quattro indizi fanno una prova (Juve, Pordenone, Udinese, Sassuolo: quattro partite, un gol), il momento magico è ampiamente finito e, senza isterismi (in fondo siamo ancora terzi), bisogna provare a riordinare le idee e fare un po’ di training autogeno, oltre che rimettere in piedi la baracca (leggasi: quei quattro o cinque che improvvisamente si sono afflosciati su se stessi) senza per forza attenderci un altro momento magico, ma un concreto cammino verso il nostro unico obiettivo.
Vabbe’, lasciamo da parte la grottesca serata col Pordenone, ma nelle tre partite prenatalize di campionato abbiamo fatto un punto, tra l’altro in quella più difficile, in cui probabilmente abbiamo speso le ultime riserve di quella energia mentale che ci aveva trascinato fin lassù. Tre partite, un punto, un gol: Juve e Napoli ne hanno fatti sette, Roma e Lazio quattro. Ergo, in tre partite abbiamo perso sei punti da Juve e Napoli, tre da Roma e Lazio.
E sono proprio i tre punti persi da Roma e Lazio che fanno tremendamente girare i coglioni, oltre che preoccupare per il futuro. Persi con Udinese e Sassuolo. Persi alla vigilia degli scontri diretti, che sono quelli veri, quelli decisivi (perchè Napoli e Juve possiamo già darli per persi, e il campionato ce lo giochiamo sicuramente con le romane).
Serviva una pausa e non ci sarà. Siamo soli con noi stessi. Del tipo: con Miranda e D’Ambrosio che staranno fuori un mese, con Perisic in crollo fisico verticale, con Candreva che mira direttamente alla sagoma, con Icardi che in tre partite avrà visto quattro palloni, con il centrocampo non brillantissimo (per dire). Quello zuzzurellone di Brozo ci suggerisce l’immagine più nitida: come lui, noi che rincorriamo l’avversario senza morderlo, ci fermiamo per lasciarlo ripartire,  scuotiamo la testa, non lo prendiamo più.
Doveva capitare, prima o poi, sennò non si perdeva mai, sennò era scudetto, e onestamente non siamo attrezzati. Ora però bisogna metterci una pezza: in questo campionato a cinque, tutto possiamo fare tranne arrivare quinti. Ricordati che puoi arrivare quinto, fratello: lo dicevano anche i frati trappisti prima del torneo conventuale di scala 40.

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Christmas Party, la classe non è acqua

Mentre altre squadre di Milano annullavano la festa di Natale optando per un più sobrio ritiro punitivo alla Cayenna, l’Inter festeggiava il ritorno fra gli umani (cioè la fine dell’imbattibilità) con il tradizionale Christmas Party, ormai un appuntamento classico dell’inverno milanese in cui i più genuini valori dello sport si fondono con la raffinitezza delle scelte tipicamente fashion. Ecco, in alcune immagini scattate alla festa nerazzurra, allietata dalle note di Max Pezzali, come l’interismo si dimostra vieppiù una tendenza, una moda, un gusto innato (cose che peraltro sapevamo).
ch1
Davide Santon (voto: 7,5) si presenta alla festa in un elegante total black con papillon, mentre la moglie Chloe (voto: 5), che non è italiana, cade in uno spiacevole equivoco – aveva capito “Carnevale” – e si presenta in costume da Batgirl sexy, provando a sdrammatizzare con un largo sorriso davanti ai fotografi sbalorditi in attesa che la tata arrivasse con un vestito vero.
ch9
Antonio Candreva (voto: 5,5) opta per un serioso doppiopetto nero da manager delle pompe funebri, suscitando l’ilarità di Andrea Ranocchia (voto: 6,5) che va sul sicuro con un abito della festa da bravo ragazzo, simbolo della ritrovata serenità.
ch3
L’eleganza e la semplicità premiano sempre e Steven Zhang (voto: 8) si dimostra ancora una volta a suo agio nei panni dell’occidentale alto di gamma. Non male anche Luciano Spalletti (voto: 6) che sceglie un elegante e paraculo cromatismo nero e azzurro, inspiegabilmente prostrato da una cravatta stile sacco nero condominiale.
ch2
Danilo D’Ambrosio (voto: 6) sceglie una soluzione classica e di sportiva eleganza, che peralto – data la sua rudezza da terzino – lo fa confondere in più occasione con i camerieri del catering. Bene ma non benissimo la moglie Enza (voto: 5), vestita da cosplayer di Pretty Woman.
ch7
Inqualificabile abito da pomeriggio ad Ascot per Francesco Toldo (voto: 5), mentre Luis Suarez (voto: 5,5) sceglie bene il vestito, ma poi non trova la cravatta e prende a caso da un cassetto quella sociale di 18 anni fa in versione tarocca, comprata a 10mila lire in un chioschetto nel parcheggio esterno di Appiano Gentile.
ch6
Joao Mario (voto: 8) impeccabile nell’abito, nella sciarpetta, nel portamento, nel sopracciglio e nello sguardo malandrino a metà tra Rodolfo Valentino, Lewis Hamiltom e Lawrence d’Arabia. Eleganza e sintomatico mistero, metrosexualismo a livello Beckham. Se questa foto diventa un minimo virale, si candida a icona gay del 2018.
ch8
Ciccio Colonnese (voto: 5,5) osa troppo con un look a metà tra Amedeo Minghi e David Copperfield, mentre Salvatore Fresi (voto: 5) al contrario punta eccessivamente sul minimal con un abito Facis comprato al Carrefour e uno smartphone al posto del fazzoletto.
ch10
La coppia più ammirata della festa: Mauro Icardi (voto: 7) sfoggia un elegante abito modello Don Diego de la Vega con cravatta smilza alla Lionel Messi, mentre per Wanda Nara (voto: senza voto) non c’è voto, non c’è parola, non c’è aggettivo, non c’è reggipetto.
ch11
Javier Zanetti (voto: 7) punta al blu con sicurezza e con maglioncino in stile Marco Branca, Piero Ausilio (voto: 6) si accorge di non brillare per originalità e come al solito fissa un punto indefinito quando gli scattano una foto, mentre Billy Bob Thornton (voto: 6) si affida a una soluzione senza acuti per temperare il suo naturale look maledetto.
ch5
Tra le vecchie glorie, Beppe Baresi (voto: 7) è quello vestito con la soluzione più semplice e al tempo stesso più elegante. Non sfigura nemmeno Spillo Altobelli (voto: 6) colto però nel momento imbarazzante in cui cerca di vendere a un prezzo di favore il suo cellulare al vecchio compagno di tante battaglie.
ch14
Gioco, partita e incontro: i coniugi Nagatomo (voto: 9) vincono alla stragrande. Ormai Yuto è un punto di riferimento totale: miglior voce, miglior look, miglior prolungamento del contratto. No, facciamoci delle domande.
ch12
E veniamo al caso della serata. Mentre, a destra, Joao Miranda (voto: 6,5) sorride intabarrato nel suo smoking modello Notte degli Oscar, che lo fa sinistramente assomigliare a Sammy Davis jr, a sinistra Milan Skriniar (senza voto) si mostra fiero della sua scelta stilistica: giacca dello smoking di due taglie più piccola, camicino bianco comprato all’Auchan di Cesano Boscone, jeans, sneakers e niente calze.
ch16
Skriniar, a suo completo agio tra gli elegantoni della festa, posa con Andrea Pinamonti e Zinho Vanheusden cui, con un atto di nonnismo, ha fatto togliere la cravatta. Il significato del suo sguardo al fotografo non lascia spazio ad altre interpretazioni: “Scatta alla svelta che li devo portare a troie”.
ch13
Come Nagatomo, anche Skriniar è ormai un punto di riferimento irrinunciabile per lo spogliatoio: qui trascina Marcelo Brozovic (voto: 6), pettinato alla cazzo ma vestito in maniera stranamente normale, in una irresistibile gag che strappa un’altra risata a Ranocchia, un uomo ormai visibilmente rinato.

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Non perdiamo mai


Il momento più bello della partita è stato il dopo-partita. Quando alle domande dei cronisti avrebbero tutti potuto rispondere soddisfatti di averla sfangata (0-0 in casa della Juve, di sicuro non sono due punti persi, non lo sono mai stati) e invece non lo ha fatto nessuno, da Spalletti all’ultimo dei giocatori arrivato a tiro di microfono. Tutti a sottolineare – a confessare, quasi – che va tutto bene, ovvio, ma che avrebbero potuto fare meglio e osare di più. Ed è tutto positivo – il punto, la consapevolezza, la sincerità – ed è tutto vero – l’impresa ma anche quel passo indietro rispetto a Napoli, dove fu uno 0-0 un po’ più spavaldo con i Sarri-boys nel loro momento migliore. Bello, bene: se non ci si accontenta si ragiona da capolista, da squadra vera.
Il punto va pesato e soppesato. Abbiamo portato a casa uno 0-0 all’Allianz Fragile Stadium dove a) la Juve segnava da 44 partite consecutive e b) dove la Juve vince tipo 16-17 partite a campionato. Un pareggio che ci mantiene imbattuti, vitali e lanciati dopo 16 giornate. Imbattuti con i tre peggiori scontri diretti giocati in trasferta, cinque punti e un solo gol subito. Imbattuti e con la miglior difesa del campionato, che peraltro è la base essenziale per restare imbattuti. Quindi imbattuti razionalmente, non a cazzo: e 16 partite sono tante, quasi metà torneo.
C’è anche l’altro lato della medaglia, parlandone da vivi (cioè imbattuti): dopo l’incasellabile vittoria di Roma, partita folle se ce n’è una, e il confortante pareggio di Napoli (il nostro primo figurone quanto a solidità), è arrivato questo pareggio a Torino che dà molte conferme e segna anche alcune distanze. La Juve ha fatto meglio e di più, non ha vinto perchè non ha segnato (avendo il quadruplo delle occasioni) ma esce comunque molto sollevata dal trittico Napoli-Champions-Inter che la rilancia a tutti i livelli, mentale e anche fisico. L’Inter deve fare tesoro del bello e del brutto di questo pareggio, soprattutto del brutto: che non avremmo segnato probabilmente mai anche con 90′ altri minuti a disposizione, che se ci neutralizzano i nostri sbocchi naturali non abbiamo mai armi sufficienti per cambiare il corso delle cose e che a difendere siamo strepitosi ma per vincere – e restare in vetta, e fronteggiare la concorrenza di quattro squadre che non mollano quasi mai – bisogna imporsi. Anche a Torino, anche con la Juve.
E’ bello poter fare tutti ‘sti discorsi, no? Fare un po’ i malmostosi dopo un pareggio a Torino, che statisticamente è una mezza vittoria. Rimproverare alla squadra un atteggiamento un po’ troppo passivo contro la vincitrice degli ultimi sei scudetti.  Forse è il segno, il sintomo di un’ambizione che riaffiora prepotente e che contagia tutto l’ambiente. Spalletti chiude l’intervista dicendo che non ci manca niente, che siamo a livello della Juve, che avevamo le loro stesso possibilità di vincere o di non perdere: ecco, dobbiamo pensare così tutti, dal campo al bar sport. Ma non per stare sopra le righe: no, per inseguire un obiettivo che ci compete.
Stavamo tornando quelli che non vincono mai, oggi siamo quelli che non perdono mai. Che è uno straordinario upgrade. Imbattuti nel campionato più equilibrato e livellato verso l’alto degli ultimi (boh, chi si ricorda?) anni. L’affollamento in vetta può essere il miglior stimolo a non distrarsi, ora che entriamo nella sempre pericolosa zona panettone. Non si respirava un’aria così frizzante da sette stagioni almeno:  grazie ragazzi, e ricordatevi di osare, chè a noi ci piacete un casino quando lo fate.

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Visti da Torino


Un’Inter come sempre poco sportiva ha infierito su un Chievo incompleto (mancavano Castro, Hetemaj, Radovanovic, Eriberto, Marazzina, Cristiano Ronaldo e Messi) vincendo 5-0 al termine di una sterile quanto irritante prestazione d’attacco: solo 5 gol, appunto, a fronte di 37 tiri in porta, un misero 13,5% che deve far riflettere Spalletti e l’intera società. Cioè, non la società Inter, Zhang, Thohir, Tronchetti Provera, quelli lì. No: la società nel suo complesso, le coscienze, il singolo cittadino, De Coubertin, Malagò, Gentiloni, Dio. Il pandoro è in crisi e l’arroganza del panettone ha prevalso, facendosi giuoco di un clima natalizio orribilmente calpestato nei suoi valori più pregnanti.
L’Inter si è presentata all’appuntamento priva di Miranda, Gagliardini e Vecino ma Spalletti, prudentemente, li ha sostituiti con altri giocatori. Una mossa ai limiti del regolamento che alla lunga sortirà i suoi frutti.
Dopo un sostanziale predominio tattico degli ospiti, la squadra a barre nerazzurre è passata in vantaggio al 23′ con Perisic in circostanze eticamente inaccettabili: tiro di Santon che non segna da mille anni, respinta di uno strupefatto Sorrentino, Perisic non aspetta che l’avversario si rialzi e la mette dentro. I maestri del calcio si rivoltano nei loro sepolcri. Il Chievo non demorde e agisce genialmente come Muhammad Alì con Foreman a Kinshasa (l’altro mena, lui assorbe) ma poi cede al 38′: Icardi scorrettamente ruba palla e si invola, finta una prima volta il tiro (senza rispetto per l’avversario) e poi la mette sul secondo palo, molto vicino al palo, quindi praticamente un palo a favore, eh, ci risiamo.
Nel secondo tempo la musica non cambia. Perisic sigla il 3-0 al 57′ in un festival della disonestà: approfitta di un malinteso tra i difensori del Chievo, prende palla e invece di restituirla la tiene, attende l’uscita di Sorrentino e tira di sinistro dove lui non può prenderla, da vero bullo: un inutile, irritante sfoggio di brutalità. Il colmo lo si raggiunge tre minuti dopo: Candreva si invola sulla destra senza aspettare i difensori in maglia gialla, crossa al centro dove Skriniar scivola, la palla gli colpisce la testa e finisce rocambolescamente in rete. Il Var, naturalmente, tace. Il quinto gol arriva al 90′, nonostante il Chievo avesse chiesto di non recuperare e quindi, calcolando il coefficiente Istat, la partita potesse considerarsi già finita e comunque nel semestre bianco certe cose non si possono fare.
Niente a che vedere con il calcio champagne di Sarri o con i capolavori tattici di Allegri e Di Francesco: l’Inter continua un campionato al di là delle proprie possibilità e dei parametri del buon costume, confidando in un complotto plutocratico e atomistico e in una buona stella che non sembra non tramontare mai. Li attendiamo qui, allo Juventus Stadium, confidando di poter giocare ad armi pari: senza pali, senza Var, senza culo, l’Inter è un piccolo punto nell’universo del calcio. Senza Icardi, senza Perisic, senza Candreva, senza Handanovic, senza Borja Valero, senza Brozovic, senza D’Ambrosio, senza Skriniar, senza Santon, senza Ranocchia, senza Joao Mario, beh, con il Chievo non sarebbero proprio esistiti.

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Sant'Antonio


Quello tra i calciatori e la beneficenza è, per dirla alla Facebook, un rapporto complicato. Ci sono esempi (non tantissimi) più o meno clamorosi – dall’apertura diretta del portafoglio fino alla gestione di progetti ad hoc o fondazioni – che si perdono in un mare magnum di generica e giovanile indifferenza: l’argomento è complicato, si presta al populismo e non si può nemmeno pretendere che le sorti del mondo dipendano dalla propensione alla bontà dei campioni dello sport, ma l’immagine media del calciatore e del suo conto corrente a sei-sette zeri è più legata al macchinone, alla figa, all’attico, al privée e al braccio stratatuato che non al fin di bene, ordinario o patinato che sia.
Poi ti arriva tra capo e collo una bella storia da Norcia – una storia reale, di sofferenza vera, di gente normale, di generosità senza effetti speciali – e ne apprezzi la concretezza, la semplicità di tirare una riga tra due punti e unirli.
Norcia fino all’anno scorso era una città ricca di monumenti e anche di calcio, una delle più classiche sedi di ritiro estivo del centro Italia. Poi arrivano i terremoti del 2016 e cambia tutto: il 24 agosto il paese trema e si inginocchia, ancora di più il 26 ottobre (quando crolla gran parte della chiesa di San Salvatore) e il 30 ottobre, il tragico giorno del colpo di grazia, una spaventosa scossa di magnitudo 6,5 alle 7,41 del mattino: il sisma cancella la secolare storia di Norcia, crollano la basilica di San Benedetto e il suo campanile settecentesco, crollano le chiese di Santa Maria Argentea, di Sant’Agostino, di Santa Rita e San Francesco, della Madonna Addolorata; cedono porzioni delle mura e dei torrioni medievali, il Palazzo Comunale, la Castellina. Norcia, quella Norcia, non c’è più.
Sei mesi dopo, è un lunedì di maggio, Antonio Candreva nel suo giorno di riposo lascia Milano e va in visita alla zona di Norcia per incontrare i ragazzi delle scuole. Norcia la conosce bene, ci è stato in ritiro con la Ternana e con la Lazio. La mattina la trascorre nel capoluogo, poi si sposta nella frazione di Ancarano dove pranza con i bambini e con la piccola comunità sfollata dopo il sisma. Un incontro che deve essergli rimasto nel cuore perchè Candreva decide di dare il suo contributo alla ricostruzione regalando ai bambini di Ancarano un campo da calcio. La struttura sportiva sorgerà nell’ambito del progetto «Casa Ancarano» che funzionerà come ricovero, mensa e servizi e sarà realizzata grazie alle donazioni di alcuni privati. Il campo sarà inaugurato a maggio 2018, un anno dopo l’incontro con i terremotati. Candreva, ovviamente, taglierà il nastro.
Tra il calciatore Candreva e il suo gesto di generosità c’è molta coerenza. Candreva è un giocatore che sorride poco e suda molto. Talentuoso e sgusciante, è pur sempre un operaio, umanamente l’antitesi del mondano. Come Bartali, ha il naso triste come una salita. E l’occhio malinconico. Gli puoi rimproverare qualche soluzione pretenziosa e qualche cross sbilenco, ma non l’impegno. Un impegno che va al di là dell’ordinario e che nei momenti di scarsa vena lo porta a peggiorare la sua situazione, a prendersi qualche fischio di troppo, perchè è uno che non si nasconde, che insiste, anche nei cross sbilenchi, costi quel che costi. Ci mette la faccia.
Ha fatto un bel gesto, straordinario, significativo, senza fronzoli. Il calciatore regala un campo di calcio. Il ragazzo triste regala un sorriso. Complimenti Antonio, è proprio da questi assist che si giudica un giocatore.

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Il fallo di Perisic e le nasate a Roberto Spada


Chissà se l’uso alquanto bizzarro del Var e, più in generale, del buon senso in Udinese-Napoli e Lazio-Fiorentina avrà ricondotto la grottesca discussione sul fallo-non-fallo di Perisic in Cagliari-Inter a un simpatico momento lisergico del sabato sera. No, perchè tra Udine, dove al Napoli viene dato un rigore random senza avere ben capito chi sgambetta chi (resta in piedi anche l’affascinante ipotesi di uno sgambetto incestuoso), e Roma, dove alla Lazio viene dato allo scadere un rigore contro in circostanze tipo film di Bud Spencer e Terence Hill, è andato in scena una sorta di tentativo di buttare il Var in vacca, e dovremmo tutti ringraziare De Rossi se invece questo simpatico strumento mantiene il suo appeal e la sua stringente necessarietà: quella di poter rivedere un’azione e decidere altrimenti se la si è vista male, punto.
All’Inter, che in tema arbitrale è da sempre un’apripista (passiva, spesso), è invece toccata in sorte la sera prima una nuova modalità del Var: il terzo tempo. Mi spiego: il primo tempo è l’azione che vede l’arbitro in campo, il secondo tempo è l’azione che l’addetto al Var vede nel suo salottino e che quindi l’arbitro rivede al monitor, il terzo tempo (per fortuna ininfluente sul risultato, ma molto influente sui cervelli più deboli e sui fegati più compromessi) è l’azione vista e reinterpretata in tv da ex giocatori di serie A ed ex arbitri di serie A che – al settecentesimo moviolone ingrandito col telescopio ottico – con personalissime opinioni smentite dalla stesse immagini che scorrono dietro il loro crapone pretendono di dimostrare che a) hanno ragione loro, fidatevi, b)  il Var ha le sue falle e c) il 99% delle persone non capisce un cazzo mentre loro sì.
Ora, io posso tranquillamente accettare che un esperto (disponendo di un tempo infinitamente superiore a quello di un arbitro e del Var stesso) cerchi di chiarire chi ha atterrato Maggio – l’avversario, il fuoco amico, poltergeist – o se la gamba dello stuntman viola è davvero arrivata prima del piedone laziale. Ci sta. Ma non posso accettare che di fronte alla solarità di un’azione o di un gesto vengano avanzate in diretta tv della ipotesi alternative, in quella che un tempo Paolo Rossi avrebbe definito la negacion de la evidencia.
A Cagliari Pairetto jr si ferma 30 secondi davanti al monitor: 25 secondi in attesa che arrivino le immagini (forse è il caso di sostituire i vecchi Telefunken) e 5 secondi, forse meno, per guardare un’altra volta l’unica cosa che gli interessa: dove inizia e dove finisce il salto di Perisic. Perchè poteva anche darsi che Ivanone nostro si fosse tuffato a bomba nell’area piccola, o fosse piombato sugli avversari volando come Bruce Lee in “L’urlo di Chen terrorizza Casteddu”, o che allargando indice e medio della mano destra avesse puntato ai bulbi oculari di Rafael e zac!
Invece no: Perisic, in un gesto atletico abbastanza mostruoso (alle Olimpiadi di Saint Louis sarebbe salito sul podio nel salto in alto da fermo), sale e poi scende in perpendicolare, non si sposta di un millimetro. E’ il portiere del Cagliari che si sposta, che cerca di andarlo a contrastare, com’è ovvio che sia. Ergo, tutto regolarissimo. Tranne che per l’ex arbitro che dice che la condotta di Perisic è stata “negligente”, il tutto sotto lo sguardo di compatimento di Riccardo Ferri, incredulo nel sentire tutto ciò, lui che di manate e di gomitate – date e prese – e di mischie e di colpi di testa è uno dei massimi esperti italiani.
No, perchè allora facciamo una class action e sosteniamo Roberto Spada nella sua causa per lesioni contro il giornalista Rai che lo ha colpito violentemente a nasate.
Ma vabbe’, tutto questo è già in archivio. Se si discute l’azione di Perisic (e il gol, si badi bene, del 3-1, nemmeno decisivo), vuol proprio dire che siamo diventati grandi, sempre meno barzellette, sempre meno folklore,  sempre più avversari accreditati, sempre più uccelli paduli in agguato ad altezza rettale. Ora che si è esaurito il filone aureo del culo, non sanno più come catalogarci. “Quelli che il Var”, forse. Ecco, forse. Ma se i favori arbitrali sono il salto di Periris, ragazzi, di pastasciutta ne dovete ancora mangiare.
Come vorrei che tutto questo rosicamento fosse per noi come lo spinacio per Popeye. Perchè adesso le difficoltà aumentano. Tipo che le nostre formazioni abitudinarie già domenica col Chievo – con tre titolari assenti – ce le possiamo scordare. Tipo che la nostra rosa risicata si fa risicatissima. Tipo che poi c’è la Juve. Non possiamo distrarci a festeggiare i due punti guadagnati sulla quinta. Abbiamo giusto il tempo di stringerci a coorte. Chi non salta (come Perisic) prostituto intellettuale è.

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Veltroni e la variante Ciciretti


Partita veltroniana, da ripercorrere senza vergognarsi attraverso una sequela di “ma anche”. Magari non benissimo però abbiamo giocato, sì, ma anche il Toro ha giocato, eccome. Abbiamo rischiato di vincerla, ma avrebbe potuto farlo anche il Toro. L’1-1 va considerato in quest’ottica buonista: girano un po’ i coglioni ma poteva andare molto peggio, perchè altre Inter recentissime l’avrebbero persa e non è solo un modo di indorare la pillola. Il palo di Vecino sistema le statistiche del culo (8 pali a favore e 8 contro, entriamo ufficialmente in un terreno neutro, panico tra i commentatori) ed è un grande rimpianto, ma se Obi qualche minuto prima l’avesse messa da mezzo metro saremmo qui a piagnucolare e a commentare tra i singulti che moriremo tutti e arriveremo sesti se va bene.
Inter-Torino è in questo senso un pareggio perfetto, perchè l’intreccio dei “ma anche” si sovrappone alla prestazione oggettivamente buona – o non cattiva – dei nostri (uè, abbiamo vinto partite giocando molto peggio) e ti fa dire, come poche altre volte accade, che va bene così.
Quindi potresti girare pagina con il cuore quasi leggero se non ci fossero le altre. Tipo la Roma, che proprio con il turno più difficile ha fatto l’impresa (ed è sempre più in corsa per qualsiasi cosa), rimontando due punti a Napoli e Inter. Nel club delle elette-che-le-vincono-tutte, siamo l’unica squadra ad avere perso punti per due volte fuori dagli scontri diretti (prima col Bologna, ora col Toro; hanno perso due punti la Lazio con la Spal, la Juve con l’Atalanta e il Napoli, appunto, col Chievo). E’ la prima volta che due squadre scialano nella stessa giornata, e forse è un piccolo segnale che qualcosa – poco, ma tant’è – si va incrinando. Anche perchè per qualche decina di minuti ha tremato anche la Juve: la variante Ciciretti (un gol imprevisto, come le successive difficoltà a rimediare) diventa la mina vagante nel futuro delle grandi, l’unica teorica speranza di scompaginare qua e là un copione noioso.
Adesso, vabbe’, bisogna fermarsi per la Nazionale e per noi va bene così, soprattutto con Icardi sofferente e qualche uomo che se rilassa un po’ i garretti è tutta salute. Ma è un peccato per il pathos, perchè dopo 12 giornate arriva finalmente un turno veramente cazzuto e ci toccherà aspettarlo due settimane. Roma-Lazio, Napoli-Milan e Sampdoria-Juventus sono tre partite che in qualche modo potrebbero ridisegnare la classifica e noi con l’Atalanta abbiamo un incrocio meno insidioso eppure difficile lo stesso, perchè con le squadre della terra di mezzo finora è andata bene ma non benissimo. Vabbe’, nel frattempo godiamoci lo spettacolo dello spareggio mondiale: chè se si perde la Russia, ci resta davvero solo l’Inter.

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Samir Handanovic nella cultura popolare


Gli interisti, distratti da dicerie invidiose (“avete un culo a capanna”) e da risultati esorbitanti (“con Nagatomo titolare state facendo più punti di Mourinho”), continuano a non rendersi del tutto conto della straordinarietà del momento che stanno vivendo, invece di goderselo a nastro come un lavoratore stagionale che fa 5+1 al Superenalotto. Per dire: il fallo da rigore di Handanovic. Ecco, è stato subito – e assai superficialmente – catalogato come “immane cazzata”, e il nostro portierone (che ci ha salvato il culo un tot di volte negli ultimi due mesi e mezzo) come “zuzzurellone borderline sopravvalutato”. Eppure il gesto atletico, tecnico e (diciamolo) criminale di Handanovic sul povero Cerci, che ha costretto l’establishment calcistico a far ricorso al Var (“no, ditemi che quello che ho visto è vero”), è invece un commovente omaggio ai grandi del passato e nel contempo un ponte lanciato verso il futuro. Insomma: non avete capito un cazzo, e ve lo spiego.
Stile libero

Hando Samiranovic, zio materno di Samir Handanovic, fu campione di nuoto under 15 jugoslavo. Nel Dna del nipote c’è probabilmente qualcosa che rimanda al tuffo come concetto globale. Da sempre Samir si tuffa, a caccia di palloni, e ha fatto molta più carriera dello zio, che si è ritirato 19enne dalle competizioni perchè risultato positivo alla birra. Samir invece ha proseguito la sua personale e spasmodica caccia alle sfere di cuoio e, più in generale, alle figure in movimento.
La rivalutazione del frisbee

Nel momento in cui il Cio promuove a sport i videogiochi da Fifa 2018 al Tetris, il frisbee rischia di venir declassato a gioco antiquario, tipo il tamburello. E invece guardate con quale appassionato trasporto Samir Handanovic ha voluto rendere omaggio a una dei movimenti più spettacolari del frisbee. La Fif (Federation International de Frisbee) ha annunciato di voler insignire il portiere dell’Inter della tessera onoraria di ambasciatore del frisbee nel Sud Europa.
Il rugby sloveno

La nazionale di rugby a XV della Slovenia rappresenta il proprio paese nelle competizioni di rugby internazionali.
È attualmente inserita nella terza fascia del ranking mondiale, non ha mai partecipato alla coppa del mondo, ma partecipa regolarmente al Campionato europeo per Nazioni di Rugby, dove è attualmente inserita nella 2ª divisione poule B. Riassumendo: fa ca-ca-re. Il ct sloveno, dopo Verona-Inter, ha informalmente contattato Ausilio per sapere se Handanovic sarà libero durante le vacanze di Natale: lo convocherebbe per l’atteso test match contro Andorra.
L’insostenibilità dello streaking

Per dire: c’è chi non sopporta i fascisti, chi i parenti della moglie, chi le zanzare, chi il free jazz punk inglese.  Handanovic non sopporta lo streaking, ma proprio per niente, retaggio di un un giorno in cui da piccolo stava guardando in tv Olympia Lubiana-Mendrisio di Mitropa cup, che fu sospesa per colpa di un invasore di campo senza mutande. Come in una scena di “Vedo nudo” con Manfredi, il nostro Samir ha avuto un’apparizione – Cerci come mamma l’ha fatto – e il resto è venuto da sè.
Hip Hop Hand

Nelle strade di Lubiana non si parla d’altro: generazioni di portieri sloveni già da tempo si ispirano ad Handanovic, ma il suo fallo su Cerci entra di diritto nella cultura popolare e artistica del simpatico e vezzoso Paese ex jugoslavo. Durante il festival di break dance “La bella Lubjana”, uno studente 16enne dell’Itis ha voluto omaggiarlo con la “Samira”, nuova figura che si esprime con un tuffo, una girata su un braccio solo e una lussazione dell’omero.
Klarkus Kentanovic

Sempre nella cultura popolare slovena – e qui l’omaggio di Handanovic è davvero manifesto – si è ritagliato un suo piccolo ma significativo ruolo SuperFrika, supereroe buongustaio che neutralizza il nemico con un raggio ai trigliceridi. Quando mangia la kranjska klobasa, la tipica salsiccia slovena a base di carne di maiale speziata, il placido Klarkus Kentanovic – nella vita, impiegato all’Esatri – si trasforma in SuperFrika e parte per una nuova affascinante avventura.
Andrejevic “The Giant”

In una rara immagine di una trentina di anni fa, il campione sloveno di wrestling Andrejevic “The Giant” Bulimovic viene sollevato di peso dal campione croato Dragan “Hulk” Hoganovic durante un combattimento allestito nel parcheggio dell’Auchan di Lubiana. Il gesto atletico delle due icone del catch balcanico ha sicuramente impressionato il piccolo Samir, che ogni tanto prova a replicarlo con successo in allenamento e, talvolta, nei posticipi del lunedì.
La successione di De Gayardon

Come passa il tempo: nel 2018 si celebreranno i vent’anni dalla scomparsa di Patrick de Gayardon, il leggendario paracadutista francese che inventò il volo libero con la tuta alare. Vent’anni trascorsi invano alla ricerca di un vero successore, dopo che il ritiro dal calcio di Pippo Inzaghi ha tolto di scena uno dei possibili eredi. Handanovic ha aperto a Verona un nuovo scenario, e il mondo gliene è grato: il volo, forse, può riprendere.
Il movimento Handanovic

E’ bastato un posticipo di serie A perchè nelle palestre di mezza Europa si diffondesse la nuova moda: il movimento Handanovic, ormai straconsigliato dai personal trainer. Il movimento si compone di tre fasi: tuffo di pancia su un tappetino cone se non ci fosse un domani (ottimo per rafforzare gli addominali), allungamento (utile per i dorsali), inarcamento (specifico per il quadrato dei lombi). In alcune palestre si esegue con accompagnamento musicale, fino al ricovero in Ortopedia.
L’imitazione del Mancio

A Roberto Mancini il nostro Samir deve molto, in termini di stima, di insegnamento e di ispirazione. Non potendo segnare gol di tacco nè pettinarsi con quella chioma sale e pepe che attizza le donna di mezza Europa, Handanovic ha voluto citare Mancini in campo con una delle sue imprese meno note ma di grande impatto scenico. Quel plastico volo del Mancio, colpito in faccia da una pallonata scagliata da Andreolli (il tiro più preciso di un’intera carriera), rimane un gesto di rara eleganza nella sua drammaticità. Samir ha saputo replicarlo solo in parte, ma ha molto tempo davanti per riprovarci.

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