Perché è nelle scuole che si combatte il razzismo

Ciao Romelu

Ti scriviamo a nome della Curva Nord, si i ragazzi che ti han dato il benvenuto appena arrivato a Milano.

Ci spiace molto che tu abbia pensato che quanto accaduto a Cagliari sia stato razzismo.

Devi capire che l’Italia non è come molti altri paesi europei dove il razzismo è un VERO problema.

Capiamo che ciò è quello che possa esserti sembrato ma non è così.

In Italia usiamo certi “modi” solo per “aiutare la squadra” e cercare di rendere nervosi gli avversari non per razzismo ma per farli sbagliare.

Noi siamo una tifoseria multietnica ed abbiamo sempre accolto i giocatori provenienti da ogni dove sebbene anche noi abbiamo usato certi modi contro i giocatori avversari in passato e probabilmente lo faremo in futuro.

Non siamo razzisti allo stesso modo in cui non lo sono i tifosi del Cagliari.

Devi capire che in tutti gli stadi italiani la gente tifa per le proprie squadre ma allo stesso tempo la gente è abituata a tifare contro gli avversari non per razzismo ma per “aiutare le proprie squadre”.

Ti preghiamo di vivere questo atteggiamento dei tifosi italiani come una forma di rispetto per il fatto che temono i gol che potresti fargli non perché ti odiano o son razzisti.

Il razzismo è una cosa completamente differente e tutti i tifosi italiani lo sanno bene.

Quando dichiari che il razzismo è un problema che va combattuto in Italia, non fai altro che incentivare la repressione di tutti i tifosi inclusi i tuoi e contribuisci a sollevare un problema che qui non c’è o quantomeno non viene percepito come in altri stati.

Noi siamo molto sensibili ed inclusivi con tutti. Possiamo garantirti che tra noi ci son frequentatori di diverse razze e provenienze che condividono questo modo di provocare i giocatori avversari dell’Inter persino quando questi ultimi sono della loro stessa razza o provenienza geografica.

Ti preghiamo di aiutare a chiarire quello che realmente è il razzismo e che i tifosi italiani non sono razzisti.

La lotta al VERO razzismo deve cominciare nelle scuole non negli stadi, i tifosi son solo tifosi e agiscono in modo differente allo stadio e nella vita reale.

Stai certo che quello che dicono o fanno a un giocatore di colore avversario non è quello che direbbero o farebbero nella vita reale.

I tifosi italiani non saranno perfetti ma sebbene comprendiamo la frustrazione che ti possono creare certe espressioni, queste non sono utilizzate a fini discriminatori.

Ancora una volta …

BENVENUTO ROMELU

(Curva Nord, post pubblicato sulla pagina Facebook “L’urlo della Nord” il 3 settembre 2019)


(traduzione di Settore)

Ciao Romelu

Benvenuto in Italia. Gli italiani non sono razzisti, noi non siamo razzisti, nemmeno quei pecorai del Cagliari sono razzisti. Il problema, quello vero, è che tu sei negro.

E’ meglio che mettiamo in chiaro le cose subito, alla seconda giornata. Ci siamo accorti che non sei un negro di quelli normali, che stanno zitti, pedalano, giocano la loro partita, fanno un selfie e via. No, tu sei un negro fortissimo (questo ci va bene) e purtroppo (che noia!) sei uno di quei negri orgogliosi di essere negri.

Questo, oggettivamente, è un problema.

Ora, come distinguere se la gente ti ulula perchè sei fortissimo, perchè stai tirando un rigore o perchè sei negro?

Questo, oggettivamente, è un altro problema. Ma noi ti proponiamo una soluzione, che dovresti aiutarci a divulgare proprio in quanto negro progressista. Dimentica questa stronzata del razzismo: noi non lo siamo, gli italiani non lo sono, nemmeno quei quattro inculapecore con l’anemia mediterranea lo sono. Noi vogliamo solo aiutare la nostra squadra: dai, ma come ti salta in mente di pensare che siamo razzisti? Anzi, farti il verso della scimmia mentre tiri un rigore è un segno dell’enorme rispetto che l’Italia intera nutre nei tuoi confronti: hanno paura di te e ululano. Ti rispettano e ululano. Capisci?

Certo, tu ci dirai: ma perchè mi fanno il verso della scimmia invece di insultarmi o disturbarmi o distrarmi in maniera, come dire, normale? Non sarà mica che siete razzisti?

E no, Romelu, noi non siamo razzisti. Noi siamo un paese accogliente, una tifoseria accogliente, una curva accogliente. Il problema è che tu sei negro. Grande, grosso, fortissimo e negro. Cioè, se eri bianco non stavamo mica qui a scriverti.

E tu devi capire, in quanto negro che si mette a fare le battaglie tipo Martin Luther Blisset o come cavolo si chiamava, che adesso ci metti nei casini. Cioè, noi vogliamo continuare a fare il cazzo che ci pare, noi e le altre 19 curve e anche i singoli tifosi sparsi per lo stadio che non ce l’hanno necessariamente con i negri in quanto negri, però all’occorrenza devono essere liberi di insultare chiunque perchè questa è l’essenza del tifoso, caro Romelu. Insultare chiunque.

Quindi, accontentati di essere il centravanti dell’Inter e dimenticati di essere negro, o domina l’istinto di vivere la tua triste e vistosa pigmentazione con quell’orgoglio un po’ demodè alla Martin B. B. King o come cavolo si chiamava. Facendo casino, non fai altro che incentivare la repressione di tutti i tifosi, compresi i tuoi, cioè noi, e sollevare un problema che qui in Italia non esiste, cioè il razzismo.

Pensa che ci sono dei negri e dei marocchini anche in curva, e pensa che insultano negri e marocchini in campo: non è bellissimo? Non è fratellanza? Non è amore?

Cerchiamo di essere amici, dai: il tuo predecessore, un coglione, non lo è stato e non se l’è passata benissimo. E pensa che era bianco.

La lotta al razzismo deve iniziare nelle scuole, nelle scuole!, e non negli stadi, dove vogliamo continuare indisturbati a ululare ai negri giustificandoci dicendo che è tifo. Non venire a crearci problemi inutili, Romelu. E’ così dalla notte dei tempi. Prima ululavamo ai terroni, poi l’Europa si è riempita di negri e non è mica colpa nostra. Vogliamo continuare a essere gli animali che siamo sempre stati, così, senza inutili retropensieri.

Noi nella vita reale non ululeremmo mai a un negro. Ma allo stadio sì, perchè è nelle scuole, nelle scuole!, che si combatte il razzismo, ammesso che esista, non negli stadi perchè gli italiani non sono razzisti e amano i negri, ma li amano nelle scuole, non negli stadi dove li rispettiamo facendo il verso della scimmia perchè li temiamo come se fossimo nelle scuole perchè è lì che si combatte il razzismo negli stadi che non esiste.

Benvenuto Romelu, uh-uh, salta non noi. E Juve merda!

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Ho visto una partita di calcio femminile. E sono ancora io

Ho appena aggiunto alle esperienze della mia vita la visione di una partita di calcio femminile. La visione completa, dall’inizio alla fine, dagli inni nazionali alle interviste post-gara. Non mi sono bevuto il cervello, Murdoch non mi ha infilato un chip sotto pelle, non sono schiavo delle mode del momento, non me ne vanterò al bar spacciandomi per espertone di calcio femminile, non ho intenzione di fare nessuna retorica su questo sport nè su questo evento che mi avvince il giusto (non molto), non sono nemmeno particolarmente coinvolto dal passato, dal presente e dal futuro del movimento. Di cui, lo confesso, mi sono sempre bellamente fottuto. Però niente, ho visto la partita Italia-Australia. Su Rai 1 c’era Linea Verde e poi il tg, su Retequattro c’era il tenente Colombo, su Rai Sport 24 il canottaggio e io no, mi sono visto Italia-Australia di calcio femminile, tutta, dall’inizio alla fine.

Oh, innanzitutto vi faccio una confidenza. Non è cambiato nulla. Mi sono specchiato e mi vedo uomo, eterosessuale, interista, progressista, podista, appassionato multisport. Lo stesso pirla di due ore prima, uguale.

Passiamo alla disamina tecnica. Boh, pensavo molto peggio. Mi immaginavo ventidue culone che facevano rinvii alla cazzo per novanta minuti, e invece in effetti è uno sport vero, calcio vero, schemi, tecnica, calci veri, pestoni, gambe tese. Certo, è un calcio giocato da donne, che non è proprio come quello giocato da uomini. Con qualche risvolto naif, tipo che al ventesimo fuorigioco fischiato alle nostre attaccanti (due gol annullati dal Var, uno per un millimicron) mi sono alzato dal divano e ho detto, rivolto al televisore:

“Minchia, non sarà il caso di dare un’occhiata ogni tanto, ogni tanto!, alla vostra cazzo di posizione e alla linea delle difensore, difenditrici, vabbe’, ci siamo capiti?”

E comunque sono i Mondiali, quindi il livello massimo, e il livello massimo di questo sport non riconosciuto dagli uomini non è affatto male. Tipo che un paio d’ore ogni 55 anni si possono anche spendere con un certo piacere. Tipo che, mediamente, i calci d’angolo li tirano meglio di Candreva e Politano. Per dire.

L’Italia ha vinto 2-1, segnando il gol vittoria al 95′, ma questo post lo avrei scritto lo stesso se avesse perso 6-0. Non salirò sul carro delle vincitrici (che seguirò con simpatia, sapendo benissimo che Italia-Australia potrebbe restare l’unica partita di calcio femminile che ho mai visto). Ma non voglio nemmeno confondermi – dopo giorni in cui ne ho lette di tutti i colori – con la folla dei detrattori.

Scusate, ma che cazzo vi ha fatto il calcio femminile?

Non vi piace? E non guardatelo. Non succede mica niente. Io adoro lo sport, ma ce ne sono moltissimi che non seguo: qualcuno non mi interessa, qualcuno non lo capisco e qualcuno mi fa cagare. E quando uno sport mi fa proprio cagare, tipo, chessò, il dressage

(e lo confesso, mi fa cagare tantissimo)

non è che ogni due ore scrivo sui social infamità o battutacce (nemmeno divertenti) sui dresseur (l’ho inventato al momento, ma magari è giusto) o sull’equitazione in generale o sul cavallo come animale sottoposto a tortura. Non lo guardo, punto. Quando alle Olimpiadi c’è il dressage, smanetto di default sul telecomando, mi chiedo quale sia l’utilità del dressage nel Terzo millennio (suppongo la stessa del Secondo: zero), mi chiedo come si possa trovare interessante un cavallo che fa tic-tic-tic con un damerino in sella, roba che neanche alla sagra del paese qui vicino troverei interessante. Ma bòn, giro, e mi guardo il tiro con l’arco o il tenente Colombo. Il dressage, nel frattempo, soppravvive alle mie paturnie. Il movimento internazionale del dressage se ne fotte di me, continuerà a prosperare e resterà sport olimpico finchè io sarò in casa di riposo, reparto non autosufficienti, e in sala tv dopo la lotta greco-romana inizierà il dressage e io dirò

“Cazzo! Gira! Gira!”

e l’operatore socio sanitario mi porterà in camera e chiamerà le mie figlie a cui dirà che “vostro padre è intemperante e disturba gli altri degenti, c’era la gara dei cavalli è…” e io gli dirò “Gara dei cavalli un cazzo, è quella merda del dressage!”, e le mie figlie gli diranno “Ci passi papà per favore”.

Vabbe’, mi sono perso. Torno alla domanda: che cazzo vi ha mai fatto il calcio femminile?

Vi posso assicurare che il calcio maschile, dopo questi pittoreschi mondiali donne, manterrà il suo ruolo dominante. Davvero. Ma da subito, eh? C’è il Mondiale Under 20 e siamo in semifinale, poi inizia l’Europeo Under 21 e abbiamo uno squadrone, poi ci sono Coppa America e Coppa d’Africa (per i feticisti del pallone), poi inizierà il ritiro dell’Inter, poi sorteggeranno il calendario del campionato – che mi hanno detto che si farà regolarmente -, poi al primo fresco inizieranno anche le coppe europee – si giocheranno anche nel 2019/20 nonostante l’ambiziosa invadenza del calcio femminile – e poi ci sarà da gufare la Juve. Resterà tutto uguale.

Quindi, ditemi, che cosa stracazzo vi ha mai fatto il calcio femminile?

In questa Italia piena di paure, si è aggiunta anche questa. Che non vorrei – anche se personalmente ne ho il fortissimo sospetto – dipendesse anche dal fatto che questa nazionale ha una capitana non caucasica e un gran numero di omosessuali in rosa. Il che farebbe tornare tutto, a livello non sportivo. A livello sportivo, invece, state tranquilli: le donne aspirano al professionismo com’è giusto che sia, ma non prenderano mai come l’ultimo panchinaro maschio della vostra squadra. E non faranno mai il posticipo di calcio femminile anche posto di Inter-Juve. Cambiate canale, usate la Gazza di questi giorni per incartare il pesce o svasare i gerani. Fottetevene, come avete sempre fatto, e come ho sempre fatto anch’io. Ma lasciate giocare a pallone le donne. Vi fanno cagare? Se ne faranno una ragione. Intanto loro sono ai mondiali e noi no – noi maschi, dico. Scrivete la vostre imperdibili battute sui social: le donne – anche in questo momento, dovunque, a qualsiasi livello – continueranno a fare sport alla faccia vostra, e con la copertura tv (e quindi la prova di esistenza in vita, e quindi anche eventuali soldi) che si guadagneranno con i risultati. Nessuno vi/ci obbiga a guardare il calcio femminile o il dressage. Cambiate canale, non sopravvalutatevi e non rompete più i coglioni.



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Handa Nara (la maratona più pazza del mondo)

Metti che il Kenya debba scegliere, tra i venti top-maratoneti che ha, i 4 da mandare alle Olimpiadi 2020. Ogni volta è così, procedura complesa e crudele, ne devi lasciare a casa 16 forti. Vabbe’, Eliud Kipchoge ha il posto fisso da mo’, per distacco abissale. Poi sceglie anche il secondo, quello col tempo migliore, e si riserva di decidere gli altri due nomi all’ultima corsa, una specie di Trial. Il selezionatore in realtà la scelta l’ha già fatta. er uno in particolare. E’ uno pazzo, ma che per le Olimpiadi va benissimo. Uno forte, ma parecchio discontinuo (una testa di cazzo, diciamo). Lo prende da parte e gli dice: ascolta, alle Olimpiadi ci vai tu, è già stabilito, basta che oggi arrivi in fondo, sticazzi il tempo, basta che arrivi in fondo. Ok?

L’ultima maratona prima delle Olimpiadi parte. Il prescelto fa il suo dovere, poi comincia a farsi prendere un po’ dall’ansia, tipo che fa un chilometro a 2′ 45″ e quello dopo a 3′ 30″, in fondo ci arriva di sicuro e pure bene, però non è così che si corre. Poi prova ad allungare, poi rallenta, poi inciampa, poi fa il chilometro più veloce, poi si ingrippa. Comunque sia è in vantaggio sulla tabella di marcia e, accidenti, sa che arriverà in fondo in carrozza. ‘Na passeggiata de salute. Ma dopo il trentesimo chilometro ne fa di ogni. Allo spugnaggio del 32esimo corteggia pesantemente una volontaria e fa a botte col di lei fidanzato. Al 34esimo chiama un amico da un telefono a gettoni. Al rifornimento del 35esimo beve una birra media ghiacciata, al 37,5 fa uno spugnaggio con il catrame, al 38esimo si infila in un giardino dove è in corso una grigliata e mangia quattro wurstel con salsa barbecue, al 39esimo inizia a cantare “Nessun dorma” a squarciagola, al 40esimo trova per terra una copia di Playboy e si masturba dentro un wc chimico, al 41esimo prende sulle spalle un altro concorrente e lo trasporta per 500 metri, al 42esimo si mette a fare la ruota, a 50 metri dall’arrivo si ferma e concede un’intervista a Rolling Stones, poi finalmente taglia il traguardo. E’ arrivato in fondo, secondo i patti andrà alle Olimpiadi. Il selezionatore gli fa ok col pollice, poi sviene.

Ecco, l’Inter ieri sera è stata più o meno così. Ieri sera, in particolare, e negli ultimi sei mesi, più in generale.

Non voglio usare termini assoluti per descrivere il ciclone emozionale di Inter-Empoli, ma riferire soltanto sensazioni personali. Si è trattata di una delle esperienze più devastanti da quando sono interista – e sono decenni, santa madonna. Ci sono state altre volte in cui ho perso anni di vita sul divano o sugli spalti, ma non voglio scomodare paragoni inadeguati con partite magicamente epiche, o epicamente disastrose. Questa era un’Inter-Empoli – la terza contro la terz’ultima, che poi in effetti retrocede – e non ci sono paragoni adeguati. Era un’Inter-Empoli. Una fottuta Inter-Empoli, sulla carta la partita meno importante e meno affascinante dell’anno. Sulla carta, certo.

Che sia finita bene, è solo un particolare. A me – saranno anche questi ultimi sei mesi da tragedia etica e sportiva – non è ancora passata. Mi sembra di essere ancora davanti alla tv a vedere una partita divertentissima – purtroppo, una delle due squadre in campo era l’Inter – con 100 azioni d’attacco e 20 palle gol – purtroppo, una su tre capitata all’Empoli, davanti ai miei occhi spaventati e al mio cuore a brandelli.

Non è umano. Non è sano. E non venitemi a intortare con la solita storia della pazza Inter. Questa non è pazzia. E’ un qualcos’altro per cui non esiste una parola. E’ un mix di cose – purtroppo, la metà negative.

Ho perso il mio solito anno di vita, sbigottito, davanti alla tv. Senza Orociok (meno male, ne avrei mangiato un container), ho provato le seguenti sensazioni:

  • Vinciamola. Non importa come, ma vinciamola
  • Meno male che è l’ultima partita della stagione 2018-19
  • Non voglio più vedere – mai più, mai più – almeno sei-sette dei giocatori in campo

Questo è, per quanto mi riguarda, l’elemento più interessante, che ha reso Inter-Empoli un’esperienza unica. Tifavo Inter, è ovvio, fino allo sfinimento, ma nel contempo mi auguravo di non rivedere mai più questa Inter. Tifavo Inter, alla morte, e ne invocavo la rifondazione, alla morte. Non mi sono nemmeno accorto del fischio finale. Ero ancora lì che sudavo come un mantice e tifavo Inter e contemporaneamente la stramaledivo e finalmente, quando mi sono accorto che gente in borghese passeggiava per il campo, ho capito che eravamo in Champions. Che non so come, facendone di ogni, eravamo arrivati in fondo.

Ho cambiato canale. La Lega era al 34 per cento (al 45% a Pavia). Ho chiuso gli occhi, sfinito. Icardi, Dalbert, Perisic. La traversa. Wanda Nara. Non ho dormito. La stagione è finita così. Una stagione completamente insensata, tipo il fallo di Keita su Dragowski. Ciao Inter, ti amo ma hai abusato della mia pazienza. Vorrei poterti dire che ci rivediamo tra altri sei mesi, ma sono un uomo debole. Grazie Handa, uomo del destino. A tutti gli altri il mio cordiale vaffanculo. Forza Inter.

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Lo zen e l’arte di cagarsi addosso per Inter-Empoli

Nel tennis, il “braccino” (in inglese choke) è una gran brutta cosa. Dal tennis club Cesano Boscone fino a Wimbledon, ha colpito milioni di giocatori nella storia. Cos’è il braccino? Stai giocando, sei in vantaggio, magari anche nettamente, e improvvisamente ti blocchi. Basta un non so che – un piccolo errore, una palla lunga di due centimentri, un nastro sfavorevole, un pensiero di troppo – e trac!, sei fottuto. Più ti avvicini alla possibile vittoria e più ti incasini, perchè il tuo cervello ormai è in pappa. Hai paura di sbagliare, e quindi sbagli. Il tuo avversario ti appare come in realtà non è, tantomeno com’era fino a mezz’ora prima, quando lo prendevi a pallate. Tipo che magari stai giocando con tuo cugino e improvvisamente lui si trasforma in Rafa Nadal. Ovviamente non è così, lui è sempre quello scarso di tuo cugino, ma la tua mente ormai allo sbando lo percepisce come un Nadal che le prenderà tutte e non ne sbaglierà mai più una, anche perchè le sbaglierai tutte tu. In quel breve lasso di tempo in cui sei preda del braccino, vorresti non aver mai giocato a tennis. Ecco, se c’è una cosa consolante nel braccino del tennista è che dura relativamente poco. Qualche minuto – basta e avanza per perdere una partita – e poi vaffanculo, perdi e bòn, vai a mangiare la pizza con tuo cugino e ci si vede alla prossima.

L’Inter il braccino ce l’ha da tipo 6-7 mesi.

Parliamo del campionato. Alla fine del girone d’andata (29 dicembre), avevamo 39 punti, a -12 dalla Juve e a -5 dal Napoli, ma a +8 sulla quinta, che era il Milan del quale parlavamo con una certa compassione. Qualche inciampo, soprattutto all’inizio, e almeno un furto con scasso (Inter-Parma). Ma avevamo vinto 12 partite su 19. C’erano tutte le condizioni per fare una seconda parte di campionato in carrozza, giocando con un piede solo, e arrivare terzi senza nemmeno accorgersene. Nella seconda parte di campionato, abbiamo invece fatto 27 punti. Abbiamo vinto 7 partite su 18 (cioè praticamente una ogni tre). E adesso siamo qui ad aspettare una partita con l’Empoli in casa manco se dovessimo giocarci con il Liverpool ad Anfield lo spareggio per evitare la radiazione dal calcio.

Prima di Capodanno, peraltro, l’Inter aveva già sofferto di un braccino specifico. Nelle due partite di Champions in cui avevamo un obiettivo vero e necessario, un obiettivo con un nome e un cognome (pareggiare a Londra, battere in casa il Psv), abbiamo fallito. Due volte su due. A casa. Non un buon segno, non un giudizio lusinghiero sul profilo della squadra. Ma ci consolava un campionato in cui invece qualcosa di buono lo stavamo facendo e la classifica dell’andata sembrava dirci una cosa: ok, la Juve la vediamo col cannocchiale, il Napoli non è lontano ma ha qualcosa in più, ma le altre si fottano, quest’anno per la Champions non ci sarà da penare fino all’ultimo secondo.

Infatti.

Nel girone di ritorno, in estrema sintesi, abbiamo fatto cagare. Tradotto in cifre: 11 punti meno dell’Atalanta, 8 del Napoli, 7 del Milan, 6 della Roma. Ci hanno rubato due punti a Firenze, ok. Ma avevamo un tale vantaggio che sarebbe bastato trasformare in vittoria uno dei tanti pareggini per essere tranquilli, nonostante le cifre di cui sopra. E invece no. Risultati da metà classifica, gioco loffio, musi costantemente lunghi.

Cosa è successo dal 29 dicembre in poi? Bah, niente di che. Il nuovo dirigente più alto in grado assunto a metà stagione con un ingresso in società morbido tipo scazzottata di Bud Spencer e Terence Hill (mezz’ora e aveva già messo fuori rosa l’uomo della Provvidenza rivelatosi lacero e bollito); un attaccante croato – peraltro mediamente impresentabile – offerto a la qualunque e rimasto in carico con palpabile entusiasmo; un capitano degradato che per due mesi marca visita millantando malanni smentiti della società con simpatici comunicati ufficiali (“non ha un cazzo”); partite giocate senza attaccanti di ruolo; un impatto in Europa League che il Tenerone al confronto era Chuck Norris; un capitano degradato (vedi sopra) che al rientro sprizza vitalità a ogni poro e impiega il tempo libero a fare foto porno-soft con la moglie procuratrice, e nel mentre realizza un suggestivo bilancio di tre gol su rigore in sei mesi; no, niente di che.

Con tutto questo, e con tutto il braccino che vogliamo mettere in conto, abbiamo il match point in casa contro una squadra – l’Empoli che tremare il mondo fa – che è la peggiore del campionato come rendimento in trasferta (8 punti, ne ha perse 12 su 18 con 2 gol subiti a partita), mentre l’Inter-mozzarella in casa non ha subito gol 10 volte su 18, per dire. Nelle ultime sette partite Inter ed Empoli hanno fatto lo stesso numero di punti, 10. L’Empoli arriva da tre vittorie consecutive (come il Milan), questo è vero. Ma è l’Empoli, santa madonna. E noi siamo l’Inter.

Già.

Ma non c’è folklore, in tutto questo. Non c’è pazza Inter. Siamo all’apoteosi di un pessimo campionato a livello ambientale. Nell’anno che sembrava aver rimesso qualcosina al posto giusto (la Champions riguadagnata, una squadra tutt’altro che perfetta ma apparentemente costruita con un minimo di criterio, un allenatore che poteva plasmarla in continuità di lavoro) ci siamo ri-trasformati nel solito cantiere perenne, una Salerno-Reggio Calabria del calcio che ama complicarsi la vita. Per andare in Champions basta vincere con l’Empoli. Il fatto che questa cosa – vincere in casa con l’Empoli – appaia a molti un’enormità, ecco, è come ammettere che abbiamo il braccino prima ancora di metterci in maglietta e pantaloncini. Un caso clinico, etico e morale, prima ancora che calcistico.

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Lo zen e l'arte di cagarsi addosso per Inter-Empoli

Nel tennis, il “braccino” (in inglese choke) è una gran brutta cosa. Dal tennis club Cesano Boscone fino a Wimbledon, ha colpito milioni di giocatori nella storia. Cos’è il braccino? Stai giocando, sei in vantaggio, magari anche nettamente, e improvvisamente ti blocchi. Basta un non so che – un piccolo errore, una palla lunga di due centimentri, un nastro sfavorevole, un pensiero di troppo – e trac!, sei fottuto. Più ti avvicini alla possibile vittoria e più ti incasini, perchè il tuo cervello ormai è in pappa. Hai paura di sbagliare, e quindi sbagli. Il tuo avversario ti appare come in realtà non è, tantomeno com’era fino a mezz’ora prima, quando lo prendevi a pallate. Tipo che magari stai giocando con tuo cugino e improvvisamente lui si trasforma in Rafa Nadal. Ovviamente non è così, lui è sempre quello scarso di tuo cugino, ma la tua mente ormai allo sbando lo percepisce come un Nadal che le prenderà tutte e non ne sbaglierà mai più una, anche perchè le sbaglierai tutte tu. In quel breve lasso di tempo in cui sei preda del braccino, vorresti non aver mai giocato a tennis. Ecco, se c’è una cosa consolante nel braccino del tennista è che dura relativamente poco. Qualche minuto – basta e avanza per perdere una partita – e poi vaffanculo, perdi e bòn, vai a mangiare la pizza con tuo cugino e ci si vede alla prossima.

L’Inter il braccino ce l’ha da tipo 6-7 mesi.

Parliamo del campionato. Alla fine del girone d’andata (29 dicembre), avevamo 39 punti, a -12 dalla Juve e a -5 dal Napoli, ma a +8 sulla quinta, che era il Milan del quale parlavamo con una certa compassione. Qualche inciampo, soprattutto all’inizio, e almeno un furto con scasso (Inter-Parma). Ma avevamo vinto 12 partite su 19. C’erano tutte le condizioni per fare una seconda parte di campionato in carrozza, giocando con un piede solo, e arrivare terzi senza nemmeno accorgersene. Nella seconda parte di campionato, abbiamo invece fatto 27 punti. Abbiamo vinto 7 partite su 18 (cioè praticamente una ogni tre). E adesso siamo qui ad aspettare una partita con l’Empoli in casa manco se dovessimo giocarci con il Liverpool ad Anfield lo spareggio per evitare la radiazione dal calcio.

Prima di Capodanno, peraltro, l’Inter aveva già sofferto di un braccino specifico. Nelle due partite di Champions in cui avevamo un obiettivo vero e necessario, un obiettivo con un nome e un cognome (pareggiare a Londra, battere in casa il Psv), abbiamo fallito. Due volte su due. A casa. Non un buon segno, non un giudizio lusinghiero sul profilo della squadra. Ma ci consolava un campionato in cui invece qualcosa di buono lo stavamo facendo e la classifica dell’andata sembrava dirci una cosa: ok, la Juve la vediamo col cannocchiale, il Napoli non è lontano ma ha qualcosa in più, ma le altre si fottano, quest’anno per la Champions non ci sarà da penare fino all’ultimo secondo.

Infatti.

Nel girone di ritorno, in estrema sintesi, abbiamo fatto cagare. Tradotto in cifre: 11 punti meno dell’Atalanta, 8 del Napoli, 7 del Milan, 6 della Roma. Ci hanno rubato due punti a Firenze, ok. Ma avevamo un tale vantaggio che sarebbe bastato trasformare in vittoria uno dei tanti pareggini per essere tranquilli, nonostante le cifre di cui sopra. E invece no. Risultati da metà classifica, gioco loffio, musi costantemente lunghi.

Cosa è successo dal 29 dicembre in poi? Bah, niente di che. Il nuovo dirigente più alto in grado assunto a metà stagione con un ingresso in società morbido tipo scazzottata di Bud Spencer e Terence Hill (mezz’ora e aveva già messo fuori rosa l’uomo della Provvidenza rivelatosi lacero e bollito); un attaccante croato – peraltro mediamente impresentabile – offerto a la qualunque e rimasto in carico con palpabile entusiasmo; un capitano degradato che per due mesi marca visita millantando malanni smentiti della società con simpatici comunicati ufficiali (“non ha un cazzo”); partite giocate senza attaccanti di ruolo; un impatto in Europa League che il Tenerone al confronto era Chuck Norris; un capitano degradato (vedi sopra) che al rientro sprizza vitalità a ogni poro e impiega il tempo libero a fare foto porno-soft con la moglie procuratrice, e nel mentre realizza un suggestivo bilancio di tre gol su rigore in sei mesi; no, niente di che.

Con tutto questo, e con tutto il braccino che vogliamo mettere in conto, abbiamo il match point in casa contro una squadra – l’Empoli che tremare il mondo fa – che è la peggiore del campionato come rendimento in trasferta (8 punti, ne ha perse 12 su 18 con 2 gol subiti a partita), mentre l’Inter-mozzarella in casa non ha subito gol 10 volte su 18, per dire. Nelle ultime sette partite Inter ed Empoli hanno fatto lo stesso numero di punti, 10. L’Empoli arriva da tre vittorie consecutive (come il Milan), questo è vero. Ma è l’Empoli, santa madonna. E noi siamo l’Inter.

Già.

Ma non c’è folklore, in tutto questo. Non c’è pazza Inter. Siamo all’apoteosi di un pessimo campionato a livello ambientale. Nell’anno che sembrava aver rimesso qualcosina al posto giusto (la Champions riguadagnata, una squadra tutt’altro che perfetta ma apparentemente costruita con un minimo di criterio, un allenatore che poteva plasmarla in continuità di lavoro) ci siamo ri-trasformati nel solito cantiere perenne, una Salerno-Reggio Calabria del calcio che ama complicarsi la vita. Per andare in Champions basta vincere con l’Empoli. Il fatto che questa cosa – vincere in casa con l’Empoli – appaia a molti un’enormità, ecco, è come ammettere che abbiamo il braccino prima ancora di metterci in maglietta e pantaloncini. Un caso clinico, etico e morale, prima ancora che calcistico.

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Il paradosso di Warwick

Nel 1976 Adriano Panatta trionfò agli Internazionali di Roma battendo Vilas in finale, ma al primo turno rischiò l’impossibile vincendo al tie break del terzo set con Warwick, dopo avergli annullato 11 match point (sei sul 5-2, tre sul 5-4 e gli ultimi due al tie break: stavano 6-4 per Warwick e Panatta fece gli ultimi quattro punti). Il mese dopo vinse il Roland Garros, battendo Borg ai quarti e Salomon in finale, ma superò il primo turno battendo 12-10 al quinto set tale Utka, cui annullò un match point con una veronica.

No, era per dire che le vicende del Liverpool e (soprattutto) del Tottenham, finaliste in Champions dopo un percorso – diciamo così – accidentato, non sono certo un inedito nella storia dello sport. I loro gironi eliminatori (i più duri in assoluto, al limite della crudeltà) sono stati come i primi turni di Panatta: qualificati a parità di differenza reti per numero di gol segnati, è come fossero passati al tie break annullando qualche match point. L’Inter è il Warwick di Roma ’76: ha avuto un’infinità di palle per chiudere la partita e si è suicidata sull’ultima. E il Napoli è l’Utka di Parigi ’76: ad Anfield al 93′ ha avuto con Milik l’occasione di vincere il match, ma l’ha sbagliata.

Se ci aggiungiamo l’Eintracht, cui abbiamo steso un tappeto rosso negli ottavi di Europa League e sconfitto ai rigori in semifinale dal Chelsea, le suggestioni degli incroci del destino con l’Inter sono parecchie. Abbiamo regalato la qualificazione al Tottenham, potevamo esserci noi in finale a Madrid? Abbiamo sbagliato un rigore all’andata con l’Eintracht, potevamo esserci noi a Londra a giocarci la finale ai rigori?

Ehm, no.

Curiosamente, nell’anno in cui siamo tornati in Champions, mai come adesso possiamo dire di avere sperimentato le differenze. Che sono enormi. Poteva l’Inter post-vacanze di Natale (mobbing Perisic, Icardi degradato che sparisce per due mesi e si dà al porno, ecc. ecc.) essere protagonista del percorso del Tottenham cui abbiamo ceduto il posto? Cioè, tipo battere due volte il Dortmund, passare i quarti con il City andando a segnare tre gol a Manchester, e poi fare la pazzesca rimonta con l’Ajax andando a segnarne altri tre ad Amsterdam?

No.

E probabilmente non avrebbe passato nemmeno i quarti di Europa League con il Benfica, per non dire della semifinale con il pur malmostoso Chelsea. Probabilmente non avremmo messo insieme cinque rigoristi nemmeno per tentare la lotteria a Stanford Bridge. Ma questa in fondo era la Coppa di ripiego. Torniamo a quella vera. Nella Champions, dagli ottavi in poi, cosa avrebbe mai potuto fare l’Inter? Non la più che dignitosa Inter autunnale. No, quella delle due partite con l’Eintracht. O quella di Inter-Bologna, o di Cagliari-Inter, o di Inter-Lazio, o di Udinese-Inter?

Le partite che ci sono rimaste negli occhi e nel cuore degli ultimi due mesi di questa folle e meravigliosa Champions 2019 (le quattro pazzesche semifinali, ma anche City-Tottenham, Bayern-Liverpool, Juve-Ajax, Psg-United, Atletico-Juve e – sì, ammettiamolo – Juve-Atletico), parlando di Inter, ci restituiscono solo paragoni impietosi. Nell’anno della Champions riguadagnata, la Champions si è mostrata anche terribilmente distante dai nostri standard. Del resto non puoi pensare, a questi livelli, di stare fuori dai giochi per sette anni e rientrare come se nulla fosse. Questo, ovviamente, al netto delle differenze tecniche tra le rose dei singoli club. Differenze, anche queste, enormi.

L’Inghilterra, dopo anni sincopati, porta quattro club nelle due finali, un record. E nelle quattro – incredibile – non ci sono i due Manchester (passi lo United, stagione un po’ così, ma il City è in testa al campionato con 95 punti). Noi – l’Italia, intendo – quest’anno siamo stati la Juve, che vince il campionato con mille punti di vantaggio ma in Champions tra ottavi e quarti sbaglia completamente tre partite su quattro; la Roma, che non passa gli ottavi con il Porto; Inter e Napoli sfigate al sorteggio e sfigatissime nel verdetto dei gironi, ma poi pessime nell’approccio in Europa League alle prime difficoltà. Un velo pietoso su Milan e Lazio.

Ne dobbiamo mangiare di pastasciutta. Per ora, da calciofili, nell’inquieta attesa di Inter-Chievo (sì, proprio così: l’inquieta attesa di Inter-Chievo), godiamoci la bellezza altrui. La bellezza, la tecnica, l’intensità, la voglia, la fame, le palle, le gigantesche palle altrui. Tipo il Liverpool che ne fa 4 al Barcellona senza Salah, o tipo il Tottenham che ne fa tre all’Ajax senza Kane. Cioè, sarebbe come se noi giocassimo le partite più importanti e più impossibili della stagione senza Icardi*.

(*adoro chiudere i pezzi buttando lì un tema che fa incazzare).

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I Gufi tipo (cronaca in leggera differita)

Se martedì sera, con il vostro culo appiattito sul divano e con una Peroni ghiacciata in mano, vedrete in totale relax Tottenham-Ajax e non (devastati dalla tensione) Tottenham-Juve una ragione c’è, e mi pregio di raccontarvela. La ragione è che i Gufi sono vivi e lottano insieme a voi.

Gufi 2019

Diciamo intanto che la stagione 2018/19 dei Gufi era proceduta a sbalzi paurosi. In contumacia avevamo festeggiato l’eliminazione dei gobbi in Coppa Italia, che ci coglieva di sorpresa nell’intimità delle nostre reciproche case e ci toglieva l’incubo peggiore, la sia pur residuale opzione Triplete. Poi la prima riunione per Atletico-Juve, serata esaltante, e la seconda per Juve-Atletico, un drastico ritorno alla realtà (Cholo, tu quoque). In cerchio davanti alla porta di casa der Pomata, dandoci appuntamento a un’indeterminata prossima volta, guardavamo le nostre facce da funerale: “Adesso vedrai che avranno culo al sorteggio ecc. ecc.”. Sorteggio: Ajax. Poi la vincente di City-Tottenham. Vabbe’, quattro messaggi su Whatsapp ed eravamo già tutti d’accordo per sabato 1 giugno: “Dovete esserci tutti, se le donne vi fanno problemi lasciatele”, “Io porto la birra”, “Io il salame”, ecc. ecc.

Ajax-Juve: facciamo finta di niente, ce la vediamo a casa, rassegnati. Juve-Ajax, Er Pomata ha un sussulto d’orgoglio: “Stasera tutti uniti come un sol uomo a fianco dei Lancieri di Amsterdam”. Vabbe’, non deludiamolo. Mi chiama Er Quadricipite: “Andiamo insieme?”. Ok. Ci troviamo in periferia a Pavia, dove lascio la macchina con la paura di tornare e trovarla appoggiata su quattro file di mattoni. Andiamo con quella der Quadricipite, che a un certo punto, a una rotonda fa:

“Qui la sera di Atletico-Juve avevo sbagliato strada. La risbaglio”. “Ma così la allunghiamo di 30 chilometri”, faccio io allibito. “E chi cazzo se ne frega, vamos!”, ribadisce Er Quadricipite puntando il muso della Golf verso la direzione sbagliata. Quando arriviamo a destinazione, sia pure in ritardo, c’è solo Er Pomata. Er Pagnolada ha appena mandato un messaggio denso di disperazione in cui dà forfeit innalzando al Signore un potente “Juve merda”. “Niente, siamo solo noi, più Er Monnezza e Er Condominio che stanno arrivando”.

Cioè, Er Pomata, Er Monezza, Er Quadricipite, Er Condominio, Er Blogghe: la formazione tipo. Nel corso di questi cinque anni di grandi sofferenze e immani gioie ci siamo schierati in varie formazioni, fino all’apoteosi di Juve-Atletico, così numerosi che c’era anche il secondo anello. Ma quando tutto ebbe origine (Juve-Benfica, semifinale Europa League 2014, gufata per evitare la finale a Torino) eravamo proprio noi cinque, i fondatori, gli uomini del destino.

1 maggio 2014: the first gufation

Ci guardiamo, ma non diciamo niente.

L’atmosfera è molto distesa, siamo preparati al peggio, anzi, lo diamo per scontato. Solito ricco buffet prima della partita. Parliamo del più e del meno (Inter, Juve, figa) senza nemmeno accorgerci che la partita è iniziata. Er Pomata ulula dal salone delle feste: “Venite su, barboni!”.

Il nuovo salone delle feste der Pomata – inaugurato con una doppia cerimonia laica e religiosa in occasione della prima gufata stagionale – è così composto: mobili antichi, preziosi broccati, divani e poltrone d’epoca, arazzi del Seicento inglese, lampadari di cristallo e un mostruoso televisore 180 pollici appeso al muro. Per motivi scaramantici, Er Pomata ha sconvolto l’ordine dei posti. Davanti al televisore adesso c’è un trumò veneziano, mentre poltrone e divani sono in curva. Boh, ci sediamo. Io sono tra Er Condominio e Er Quadricipite, su una sedia curule c’è Er Pomata e lontano, nel settore ospiti, Er Monnezza.

“Scusate amici – fa Er Pomata schiacciando tasti del telecomando a caso – sapete dirmi il significato di questo messaggio che talvolta mi appare in sovrimpressione e che mi scassa il cazzo?”

“Vuoi passare al 4K?”

“Certo che vuoi passare al 4K, dammi ‘sto cazzo di telecomando. Ma dove vivi, a Vinovo?”, fa un già nervosissimo Er Monnezza. A parte questo, regna una certa serenità. Addirittura, quando CR7 segna l’1-0 mi scappa una frase oggettivamente precisa e soggettivamente densa di significati: “Beh, non cambia niente, no?”

Ci guardiamo, ma non diciamo niente.

Al gol di Van de Beek invece diciamo alcune cose, non tutte riferibili, zompando tutti e cinque abbracciati e provocando sull’antico palazzo der Pomata l’effetto di un terremoto del 4,5 in Pakistan. “Tranquilli, c’è una piccola lesione al muro maestro, ma domani chiamo qualche moldavo a controllare”.

Fine primo tempo. Er Pomata impartisce le solite istruzioni dell’intervallo: “Chi deve bere, mangiare, pisciare, cacare, telefonare, eseguire esercizi ginnici, sistemare pratiche, scrivere articoli, sedare disordini, fare acquisti on line, prenotare vacanze, assoldare prostitute, insomma, lo faccia entro l’inizio del secondo tempo”. Er Condominio: “Posso dormire?” “Sì, ma solo 15 minuti”.

Al fischio dell’arbitro siamo di nuovo tutti assiepati. E il giovane Ajax comincia a) a fare un culo pazzesco alla Juve e b) a sbagliare molti gol, le quali cose fanno salire la pressione a tutti. Alla terza occasione fallita da Ziyech, Er Monnezza si libra in tuffo sotto il televisore macchiandosi di razzismo territoriale e cacciando un urlo bestiale: la mitica forbicina portafortuna, che da Juve-Benfica porta sempre in tasca, lo ha infilzato in zona parainguinale. “Scusa, Pomata, credo di essermi trafitto l’arteria femorale, se chiamassimo il 118 con tempestività potrei evitare il dissanguamento”. “Non rompere il cazzo proprio adesso, ti do uno straccio per tamponare la ferita, non hai mai visto Rambo?”.

Il tempo di sedersi e De Ligt inzucca il gol del 2-1. Scoppia un delirio che dura un paio di minuti, al termine del quale ci accorgiamo che Er Quadricipite ha un’espressione seria e spaventata. “Che c’è, avevi scommesso la casa sulla combo Juve qualificata-no goal?” “No, credo di avere ingoiato lo stecchino”. Cioè il moncherino di stuzzicadenti che tiene in bocca dalla sera di Juve-Benfica. “Ah vabbe’, cazzate”. “Scusa Pomata, posso recarmi un attimo al più vicino ospedale per sottopormi a una lavanda gastrica? Magari torno in tempo per le interviste del dopopartita, oltre a evitare una peritonite”. “Ma sei fuori? Ti do un Gaviscon”.

Al 79′ l’Ajax segna il 3-1. In piena trance agonistica, mi alzo, apro la finestra e lancio un urlo tipo Tarzan. Er Pomata fa di corsa tutta la stanza tipo Tardelli ai Mondiali ’82 e prende in pieno il bicchiere che Er Condominio aveva appoggiato per terra. Il bicchiere schizza contro il termofisone in ghisa prussiana e niente, non si scheggia nemmeno.

“In hoc signo vinces”, dice Er Condominio abbracciando Er Pomata. Si mettono a piangere.

Io sto ancora urlando frasi sconnesse alla finestra. Mentre sento qualcuno dire “porca troia, annullato” perdo l’equilibrio e cado dal primo piano direttamente sul tetto della macchina der Pomata. “Annullato, cazzo”, dice lui affacciandosi e guardando verso di me. “Scusa, hai la Kasko vero?”, gli faccio contrito. “Ci guardo dopo, vieni su che manca ancora un casino”. “Credo di avere riportato una leggera commozione cerebrale e di essermi rotto alcune costole e almeno un femore. Se chiamassimo il 118? Facciamo ricucire l’arteria al Monnezza e mi faccio dare un’occhiata”. “Torna su subito, cazzo, ho l’acqua ossigenata ma la prendo dopo”.

La partita finisce con sollievo generale, compreso quello della Juve presa piacevolmente a pallonate per un numero indefinito di minuti. Al piano terra partono i baccanali. La quinta stagione di successi va in archivio con una spaghettata celebrativa e un gelato che er Pomata ritrova in fondo al frigo: c’era ancora attaccato il prezzo, in lire. Ma nessuno dice niente per non turbare l’atmosfera di festa. La Juve non ci ha tradito nemmeno questa volta. Se non fosse che la odiamo, quasi la ameremmo.

Un altro famoso quintetto

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Invettiva di un icardiano contro Icardi

Mi presento. Sono icardiano da sempre, anzi, da prima ancora che arrivasse all’Inter. Da quando nella stagione 2012-2013 segnò i gol con cui la Samp fece sei punti su sei con la Juve e, a seguire, da quando si disse che questo formidabile e semisconosciuto anticristo bianconero sarebbe arrivato all’Inter. Ero a San Siro, in bermuda, il 18 agosto 2013, Inter-Cittadella, per il suo debutto a Milano. Il suo primo gol in campionato con la nostra maglia sarà contro la Juve. Il resto è Storia. Ancora oggi non mi capacito che confusa tra M’Vila e Mudingayi, tra Rocchi e Belfodil, tra Botta e Dodò, un’operazione di mercato del genere sia riuscita alla sgarrupata Inter post triplete. Mauro Icardi è il nostro unico vero top player, è uno degli attaccanti più forti al mondo, è ancora giovane e la sue cifre, in quanto ancora giovane, sono straordinarie.

Forse è per questo che, camminando per Pavia, leggevo ieri sera la sua lettera su Instagram e mi incazzavo in modo crescente dopo aver faticosamente completato ogni singola riga, schivando passanti, perdendo spesso il segno (leggere sul telefonino un testo in corpo -1 camminando fa incazzare di suo) e la voglia di passare alla riga successiva, forzandomi di non desistere e sperando si arrivasse al punto, uno qualsiasi. Già mi fa incazzare che il capitano “in sonno” dell’Inter (210 presenze, 122 gol) (le cifre, LE cifre) abbia cambiato la foto del profilo con una in maglia Argentina (8 presenze, di cui 4 in amichevole, 1 gol), dove proprio per grottesche questioni di amore e di rispetto non se lo cagano da anni, inspiegabilmente dato il valore oggettivo e le cifre oggettivissime di cui sopra, preferendogli talvolta anche cadaveri.

La lettera – scritta a otto mani da Federico Moccia, Gigi D’Alessio, Kevin “Spillo” De Amicis (youtuber, trisnipote dell’autore di Cuore) e Annamaria Bernardini De Pace – è una roba che non si può leggere, e non per il corpo -1. E lo dice il più icardiano degli icardiani, uno che – in una specie di “Icardi spiegato alle mie figlie” – ha speso un mesetto fa un pranzo familiare per spiegare appunto alle figlie che sì, se chiede più soldi ha ragione, perchè stanti le regole del mercato attuale non è possibile che uno come lui non sia tra i 10 giocatori più pagati in Italia – in Italia, non nel mondo, eh? -dove anche Douglas Costa, Emre Can e Donnarumma prendono più di lui. Quindi io voglio bene a questo ragazzo, molto bene. Però la lettera è una melassa illeggibile se si pensa a un ex capitano che marca visita da settimane – ama l’Inter, la ama tantissimo, ma non gioca – e parla per interposta moglie-manager che in tv fa incazzare a cadenza settimanale società, compagni di squadra, colleghi, amici, conoscenti, vicini di casa e me (per dire).

Vuole andare via? Ne ha facoltà. Io, icardiano di ferro, ho dato sempre per scontato che uno così potesse/dovesse nutrire altre ambizioni. Con rammarico, ma con un atteggiamento che potrei definire realistico e paterno, sono pronto a salutarlo a ogni avvicinarsi d’estate, da almeno tre estati.

Ha dolore? E chi non ne ha nello sport, santa madonna. Agassi inizia “Open” con la devastante descrizione clinica del dopo-partita del suo penultimo match. Roberto Baggio e Paolo Rossi hanno segnato vagonate di gol trascorrendo migliaia di ore con le borse del ghiaccio sulle ginocchia. Lo sport è anche dolore. Io direi che per gli attuali 4,5 milioni annui, ancorchè paga da fame rispetto a un Dybala, si può fare.

Amore, rispetto, cuore, figli. Inframmezzati da qualche accenno al veleno, questi concetti ripetuti all’ennesima potenza dalla alla lettera di Icardi una pesantezza micidiale, come una peperonata mangiata a mezzanotte. Ma come gli è venuto in mente? Boh. Pensa che abbiamo tutti l’anello al naso?

Esattamente sei ore prima che Maurito pubblicasse la sua letterina, le agenzie di stampa battevano questo testo, meno mieloso ma assai più pregno di significati: “L’Inter ha reso noto sul proprio sito internet i risultati finanziari dell’ultimo semestre del 2018. Le buone notizie per Suning arrivano dai ricavi, cresciuti di 64,4 milioni di euro rispetto allo stesso dato relativo a dicembre 2017. Un dato positivo legato in buona parte agli introiti derivanti dalla partecipazione alla fase a gironi di Champions League, che ha portato nelle casse nerazzurre 42,5 milioni di euro. Nello stesso periodo del 2017 gli introiti per la partecipazione a competizioni UEFA erano stati di 539mila euro. In totale l’Inter ha ottenuto ricavi per 180,1 milioni tra commerciali e diritti tv. Un aumento del 55,7%. In aumento ancora gli introiti relativi agli sponsor, 60,7 milioni di cui olte 40 milioni da accordi con brand asiatici”.

Ecco Maurito, questa è la letterina della società. Mentre ci ammorbi con un mieloso loop finto amoroso-rispettoso, tu stai non-giocando e quindi non-partecipando al raggiungimento dell’unico obiettivo che ha un senso per l’Inter, la qualificazione alla Champions League che è il grimaldello per cambiare profilo, obiettivo, ambizione (le cifre, Mauro, LE cifre). Un obiettivo necessario, urgente e – fino a prima della pausa – apparentemente facile, quando senza nemmeno fare cose strabilianti ci eravamo già staccati sullo sfacelo altrui. Due mesi dopo, eccoci qui a cagarci in mano.

L’Inter oggi gioca per la Champions League (e l’Europa League, finchè dura, ma sputaci sopra) senza il suo (ex) capitano, il suo unico top player, il suo attaccante da cento e passa gol, e questa – questa – è l’unica cosa che noi tutti vorremmo che ci fossa spiegata per bene. Capirai dunque, caro Mauro, che anche al più spassionato e irragionevole degli icardiani – tipo me – la tua lettera ha l’effetto della dolce Euchessina su un bambino dell’asilo. Ami l’Inter? E allora gioca, cazzo. Poi fate quello che volete: che tu te ne voglia andare, che tu voglia guadagnare il doppio, che tu sogni finalmente di vincere qualcosa, lo ribadisco, sta nelle cose. Che tu – così follemente innamorato dell’Inter – stia lavorando per mandare tutto a puttane, no. L’unica cosa coerente della tua lettera così densa di amore è che sì, sembra in effetti una di quelle cose da innamorati. O da ex innamorati. Ripicche, minacce, vendette, musi lunghi. Beh, a noi di ‘ste cose non ce ne frega una cippa. Datti una mossa e gioca. Poi ti saluteremo, sicuramente con affetto. Perchè andarsene così sarebbe da calci in culo da qui a Rosario, altro che amore.

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Abisso

Se il calcio fosse una roba seria, e se l’Italia fosse un posto di gente seria, Fiorentina-Inter segnerebbe uno spartiacque nella storia del Var e del metro arbitrale, oltre che del calcio del terzo millennio sempre alla ricerca vana di una qualche sicurezza. E’ assai probabile che non succederà un cazzo, date le prime due premesse. Però sarebbe tragico, per il calcio. Perchè bisognerebbe invece interrogarsi nel profondo su quello che è accaduto in questa partita che – per inciso – costa all’Inter due punti già conquistati nella lotta per un posto in Champions, due punti quindi più importanti e sanguinosi del solito.

Riassumendo, fino al centesimo minuto di Fiorentina-Inter si è assistito a una storia a suo modo virtuosa: l’arbitro che non vede o giudica male un numero mediamente elevato di episodi sicuramente non lampanti a occhio nudo ma evidenti davanti al monitor – beh, il Var l’abbiamo inventato apposta, no? – e che cambia quindi le sue decisioni, “purtroppo” sempre a sfavore della squadra di casa. Al centesimo minuto accade l’incredibile, forse l’irreparabile: l’arbitro, dopo cento minuti trascorsi a farsi smentire dal Var – sta nelle cose, io speravo che la classe arbitrale avesse superato la fase “orgoglio e vergogna” e considerasse il Var per quello che è, cioè il suo quarto assistente, quello con più tecnologia a disposizione, quindi il più prezioso – e con uno stadio al limite della rivolta (bisogna pur sempre considerare che si tratta di una folla scomposta che non ha il Var a disposizione), prende una decisione grottesca, ridicola, assurda: guarda l’immagine 50 volte e decide che la verità non sta in quello che vede e che vediamo noi col culo sul divano. Al centesimo minuto, dunque, compensa tutte le incazzature accumulate dal pubblico di casa nei precedenti 99. Le immagini dicono altro? Non fa niente. Rigore. Per un pallone finito sul petto, e il fallo di petto non esiste.

Ora, sarebbe bello poterci scherzare sopra, sdrammatizzare a tutti i costi perchè in fondo è un gioco, tirare in ballo lo stadio numero 6 del devasto nella tradizione ispanico-messicana (1. borracho, 2. muy borracho, 3. cantos regionales, 4. cantos patrioticos, 5. cantos religiosos, 6. negacion de la evidencia, 7. insultos al clero y apoteosis final) raccontata da Paolo Rossi a teatro. Ma non c’è niente da ridere, purtroppo. E’ non è questione che riguardi i soli interisti, ancora increduli che sia davvero successa ‘sta roba. Eh no, la cosa riguarda tutti – almeno in teoria, ma facciamo finta che sia così.

Non so se stasera sia finito il Var o sia semplicemente finita la carriera di un singolo arbitro. Starà all’Aia prendere una decisione, sapendo che qualcosa dovrà fare di fronte a questo scempio. Oggi il Var ha smentito serialmente un arbitro – che ci può stare, nessun episodio era “facile”, il Var sta lì per quello – e l’arbitro, al centesimo minuto, ha smentito in diretta l’immagine chiarissima che il Var offriva a lui e all’universo mondo.
Non so cosa l’arbitro abbia voluto dimostrare. Forse, a difesa della categoria, ha riaffermato il primato dell’occhio umano (“non sono un robot”) di fronte alla fredda oggettività della macchina. Forse, sempre a difesa della categoria, ha dato un bizzarro colpo di coda all’ipotesi che ad arbitrare una partita come Fiorentina-Inter, con tanti episodi così al limite della percezione umana, potessero esserci indifferentemente un arbitro di serie A, un bambino dell’asilo o una scimmia.

Non succederà niente? Boh. Sarebbe spaventoso far finta che è stato tutto normale. Perchè tutto questo non può rimanere impunito, o senza conseguenze. Milioni di appassionati di calcio – stasera non c’è bandiera che tenga, la questione è squisitamente e clamorosamente generale – vanno informati adeguatamente sulla genesi delle varie decisioni arbitrali che hanno punteggiato dal primo all’ultimo minuto Fiorentina-Inter. Punteggiato, condizionato, deciso, stravolto Fiorentina-Inter. La storia di questa partita non va lasciata cadere nel solito dimenticatoio: non lo merita il calcio, non lo merita lo sport. Che non lo meritasse l’Inter è solo un piccolo particolare, benchè per noi terribilmente importante.

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L’autogol dell’Inter

Con la rinuncia – signorile e autolesionista – dell’Inter al ricorso sui provvedimenti post Inter-Napoli, si completa il quadro degli avvenimenti e delle relative conseguenze di quello che potrebbe diventare un clamoroso caso di scuola e che probabilmente non lo diventerà, se – com’è successo praticamente sempre – tra qualche settimana di ‘sta cosa non fregherà più nulla a nessuno.

Eppure, tutto questo percorso andrebbe davvero tenuto a mente, a uso e consumo delle varie categorie di persone interessate, dai tifosotti agli ultrà, dai bempensanti ai “non sono razzista”, dai giuristi situazionisti a quelli che “le curve sono sane”. Ricapitoliamo:

  1. scontri prima delle partita ampiamente premeditati e organizzati non da qualche nazistello assoldato alla bisogna, ma da capi della curva in persona;
  2. il morto (eh beh ragazzi, giocando alla guerra può capitare);
  3. cori razzisti allo stadio (uh-uh-uh al nero è davero poco equivocabile, diciamo così), arrivati da zone ben precise e senza grandi disapprovazioni (praticamente zero);
  4. arresti e denunce in discreta quantità (capi e soldatini, i primi molto omertosi e per nulla pentiti e i secondi più chiacchieroni, parecchi già pregiudicati o daspati, ma che sorpresa);
  5. provvedimenti ad minchiam che colpiscono – anche nelle tasche – una serie di persone che non c’entrano nulla, diciamo nella misura del 99% (ah, la giustizia sportiva);
  6. decisione della società Fc Inter, punita con una durezza e una tempestività rara, di non ricorrere contro la decisione (quella che penalizza allo stesso modo diciamo 100-200 grandissime teste di cazzo e 62.000 innocenti).

Io capisco – e apprezzo – l’Inter, la sua storia, la sua signorilità, la sua multietnicità (anche societaria), la sua enorme disponilibità nell’addossarsi quella responsabilità oggettiva che è sempre più difficile da accettare. Ma questa poteva essere l’occasione di entrare mani e piedi nel piatto e di affrontare la questione in una forma diversa, un po’ meno accomodante e un po’ più utile alla causa. Sì, ok, riempieramo lo stadio di bambini, le tv ci faranno un sacco di servizi, gireranno sui social un sacco di video e di foto, i giornali gronderanno di melassa per una iniziativa che fa tanto oratorio e che non servirà a un emerito cazzo.

La questione è invece una, una sola: quella di separare la parte sana da quella marcia, quella di premiare il tifo genuino e allontanare i facinorosi, quella di stendere un tappeto rosso al pubblico pagante e dare un calcio in culo a quello razzista, squadrista, mafioso. Bisognava fare ricorso e dire: state/stiamo facendo una cazzata. E invece no, li rinchiudiamo tutti nella stessa cella, la sciura con il fascista, il nonno con il picchiatore, il nipotino con il negriero. Massì dai, due o tre giornate e tutto sarà finito.

Peccato. Questo essere signori si rivela un discreto autogol. Invece di insegnare a quei 100-200 delinquentelli che il tifo vero è un’altra cosa, ci ritroviamo a dover spiegare ai 62.000 innocenti perchè a loro viene applicata la stessa pena di chi girava con le roncole o faceva uh-uh. Verrebbe da stare a casa tutti. In futuro, dico. Perchè io non sono quella roba là. Mi dispiace anche per la parte sana del secondo verde (95%?), ma chi è causa del suo mal pianga se stesso: neanche se me lo regalassero farei l’abbonamento al secondo verde, neanche se mi pagassero mi siederei a qualche sedile di distanza da avanzi di galera o prenderei ordini da quattro balùba. Tutti dobbiamo prendere una direzione giusta, a cominciare da lì.

Comunque tranquilli. Tra qualche domenica sarà tutto finito e vaffanculo, come è sempre accaduto dalla notte dei tempi a oggi. Avanzino i bambini, che faranno tanto colore. E ciao a tutti. Anzi: uh-uh-uh (tanto è uguale).

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