
22 maggio 2010. Bayern-Inter. Mattina
Di base, il 22 maggio è il compleanno di mia madre. Ora, sarebbe normale che io adesso alzassi il telefono e le facessi gli auguri – o magari tra un po’, sono le 7 di mattina, se le telefono a quest’ora minimo le vengono le palpitazioni. Ma, di base, non sto più facendo niente di normale ormai da settimane. Sono diventato una persona orribile. Non bevevo birre, e ora bevo birre. Non ero ansioso, e adesso sono ansioso. Non ero scaramantico, e adesso sono scaramantico. Per cui, per evitare di intavolare con mia madre un discorso potenzialmente e cabalisticamente scomodo sulla coincidenza compleanno-finale di Champions (non so, del tipo: è il 22 maggio, vinciamo!), ecco, non gliel’ho detto.
Non le ho detto che vado a Madrid.
Oggi glielo dirò. Perché sarò costretto a telefonarle per gli auguri – non posso essere così orribile da non farglieli per scaramanzia – e quindi a spiegarle dove sono. Non so, metti che le telefono da Madrid e le dico che sono a Pavia e in quel momento passano duemila tifosi del Bayern intonando “Stern des Südens, du wirst niemals untergehen, weil wir in guten wie in schlechten Zeiten zu einander stehen” eccetera, mica potrò dirle che sono a casa. Certo, potrei sempre dirle per depistarla che sono a Berlino, ma lei mi chiederebbe che cosa faccio a Berlino nel giorno della finale di Champions. Con la squadra di Monaco di Baviera, poi.
Comunque, a questa cosa penso dopo.
Parto, direzione Malpensa. La macchina si avvia, buon segno (ormai sono a questo livello) (non ho pestato cacche di cane, cattivo segno). Passo vicino al giornale dove trascorro regolarmente retribuito le mie giornate e vivo una scena irreale, quasi felliniana. Sono le 7,30 del mattino, è sabato, non c’è in giro un cazzo di nessuno ma il baracchino è aperto ed è un tripudio di nerazzurro.
Il baracchino io lo vedo tutti i santi giorni dalla finestra della redazione, è dall’altra parte della strada ed è il mio personale calendario perpetuo. Lì si vendono bandiere, sciarpe, maglie, pupazzi, gadget. Apre solo il pomeriggio ed è gestito da un tizio che si chiama Francesco, uno dei più fini uomini di marketing della provincia e, forse, dell’intero Nord Ovest. A seconda delle bandiere esposte, tu sai che giorno è e cosa sta succedendo nel mondo: se gioca l’Inter o la Juve, se è Natale o il 25 Aprile, San Valentino o Carnevale, se eleggono il presidente Usa o se la regina d’Inghilterra è in visita in Italia, se inizia il semestre della Spagna alla Ue o il Papa è in viaggio in Sudamerica. È dall’inizio del mese che il baracchino (di solito variopinto e multitasking) è monotematico: vende cose nerazzurre e basta. Il tizio ha fiutato il vento e cavalca l’onda interista. Tra coppe e scudetti sta vendendo l’iradiddio, immagino. Finché – forse un piccolo errore di sottovalutazione, capita anche ai commercianti top – si arriva al momento cruciale della stagione e la merce inizia a scarseggiare. Giovedì sera (momento toppissimo, l’antivigilia di un sogno) il tipo si arrende, chiude baracchino e burattini e incolla sulla porta un foglio A4. Io dalla finestra del giornale lo vedo e non resisto, scendo a leggere avvinto della curiosità e temendo il peggio (tipo chiuso per malattia, forza Juve o robe così). Il foglio – un avviso con grafia incerta – però riporta il seguente messaggio alla clientela: “Merce Inter esaurita in tutta Italia, vado a Como a cercarla”.
A Como? Boh, lui saprà.
Ieri pomeriggio, venerdì, il baracchino aveva riaperto ma era stato lasciato in gestione a due simpatiche signore che non distinguevano una maglia dell’Inter da una T-shirt di Hello Kitty. Tutto quello che era rimasto era una maglia di Eto’o taglia S: “La prenda!”. Ma io volevo Milito L, al limite XL, e le signore non si facevano una ragione del mio rifiuto. Ci avevo messo una pietra sopra, anzi, un macigno, ricavando un pessimo presagio dal fatto che un baracchino davanti al mio posto di lavoro straboccasse di maglie dell’Inter per settimane e io, al momento di partire per Madrid, all’ultimo momento fossi rimasto clamorosamente senza.
Alle 7,30 di sabato 22 maggio, comunque, il baracchino non solo è aperto ma è un tale stormire di bandieroni nerazzurri che la Curva Nord a confronto è un cimitero abbandonato. Appesa all’esterno, insieme ad altre, vedo la maglia di Milito. È andato davvero a Como e ha fatto rifornimento, penso ammirato. Mi precipito, accelero – metti che nei prossimi 5-10 secondi arrivi un bambino e me la fotta – e parcheggio in derapata tipo Colin McRae. Un veloce saluto, 20 euri e sono equipaggiato di Milito 22 tarocca, mi congedo non senza genuflettermi riconoscente di fronte al tipo. Con 5 minuti di ritardo sulla tabella di marcia, continuo il mio viaggio verso Malpensa.
Arrivo perfettamente in orario, ma stravolto dall’angoscia. Non so come si chiami la mia patologia mentale, ma la posso descrivere con esattezza: non riesco a organizzarmi con troppo anticipo, niente, non ce la faccio. Qualsiasi cosa debba fare – prendere un treno, andare al cinema, presentarmi a un appuntamento – calcolo i tempi in modo da arrivare in orario, e di solito succede così. Ma se il tragitto è lungo, in corso d’opera sto male. Tipo stamattina. Inizio a pensare: e se adesso c’è un incidente, un ingorgo, mi si affloscia una gomma, fondo il motore, sbaglio strada, un commando di rapinatori assalta un portavalori e io sono la prima macchina dietro? Cioè, perdo l’aereo e non vado a Madrid? Con tutto quello che ho speso? Di più, con tutto quello che abbiamo passato?
Mi viene in mente Dinamo Kiev-Inter, quarta partita del girone eliminatorio di Champions, era il 4 novembre, santa madonna, sei mesi e mezzo fa che sembrano sei lustri. Tre partite fatte e tre pareggi, cioè tre punti, poco, pochissimo. Andiamo a Kiev e segna Shevchenko, sembra una maledizione, sembra già tutto scritto, un’altra inculata galattica, firmata da un ex cacciavite poi. Ma all’88’ la mette Milito, al 91′ Sneijder. Pazzesco. Nel giro di tre minuti, da fuori con ignominia a dentro con onore. Pazzesco, pazzesco.
E dopo tutto questo, insomma, io perdo l’aereo?
Vabbe’, mentre penso a tutto questo arrivo a Malpensa. Con i battiti a 120 e la pressione a 180 ma ci sono, in orario. Mi metto in coda al check-in, una bolgia di gente impaziente e smaniosa come me.
(da “Il Triplete è merito mio (e l’Inter non lo sa)”, pag. 158-161)
