La prova delle nove

L’ultima partita della vecchia Inter in campionato è stata giusto due mesi fa, 10 gennaio, 2-2 a Roma, partita gestita male, vittoria importantissima buttata via sul più bello, un punto in 2 trasferte (avevamo perso a Genova con la Samp il giorno della Befana), quel finale frustrante che aveva fatto dire a tutti in coro: no, niente, basta, non ce la possiamo fare. Poi, improvvisamente, è scesa in campo la nuova Inter, e la differenza si è vista. L’hanno vista tutti.

Nove partite. Otto vittorie e un pareggio: fanno 25 punti in due mesi, 20 gol fatti e 2 subiti. La classifica di queste nove partite: Inter 25, Juve 19, Atalanta 17, Milan 16, Roma 16, Napoli 16, Lazio 15. E non erano mica nove partite facili: avevamo quattro scontri diretti – Juve, Lazio, Milan, Atalanta – e li abbiamo vinti tutti, più la trasferta di Firenze per noi mai facile. 25 punti, 20 gol fatti e 2 subiti (no, ripeto, magari non si era capito).

Inter-Atalanta gronda segnali positivi. Abbiamo vinto soffrendo, ma non come con il Napoli nell’andata, un 1-0 uscito random da un finale vergognoso, la squadra impanicata che assisteva alle occasioni sbagliate dagli avversari e guardava il cronometro sul tabellone. E’ stato un 1-0 perfetto, un tiro un gol, una partita votata al contenimento di una squadra in grande forma che ha fatto un partitone ma che non è riuscita a passare. L’Inter che nella prima parte di stagione prendeva 2 gol a partita adesso ne prende 2 ogni 10 partite. Questo è.

Non c’è da vergognarsi ad avere fatto un match così. C’è da festeggiare. Non ci fosse il coprifuoco, avrei fatto un carosello intorno all’isolato. L’Inter ha trovato una solidità che qualche mese fa non potevamo immaginare. Oggi che ha il miglior attacco e la seconda miglior difesa ha affrontato l’Atalanta – che stasera avrebbe schiantato chiunque, si è visto da subito – con una consapevolezza, un’umiltà (che ci vuole, per adattarsi a subire più che a tenere l’iniziativa) e due colossali coglioni che costituiscono un patrimonio inestimabile al pari delle cosce di Lukaku. E’ stata una partita intelligente. L’abbiamo vinta.

Negli ultimi due mesi il concetto di squadra è stato raggiunto e consolidato. Conte sta finalmente componendo il puzzle. Questa sera, in una partita-chiave che non potevamo perdere e che sarebbe stato meglio vincere, tutti hanno portato il loro mattoncino alla causa comune. I ripiegamenti difensivi di Lautaro e di Eriksen nel secondo tempo sono stati importanti come un gol. Ha segnato un difensore, uno che dopo l’ultima stagione avremmo svenduto al peggior offerente. Nella foto sopra, Skriniar esulta al fianco di un tizio con la barba che fino a due mesi fa era l’uomo più intristito del mondo: oggi cambia le partite e guardate come ride guardando l’obiettivo. Sembra un altro. E’ un altro.

Abbiamo il campionato in mano, così come il nostro destino. Dobbiamo andare avanti così, senza macerarci a guardare cosa fanno il Milan e la Juve. Dobbiamo andare avanti così, a preoccuparsi devono essere gli altri. Forza Inter, facciamo altre nove così e (non lo dico).

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Irrilevanti un cazzo

Se mi trovate un periodo più strano nell’intera storia dell’Inter, beh, mandatemi una mail e documentatemelo, carte alla mano. Astenersi perditempo. Le cose si susseguono e si accavallano di brutto mentre noi stiamo seduti sui nostri divani tipo ottovolante di Gardaland, attaccati ai braccioli mentre ne vediamo di cotte e di crude, urliamo di sconcerto e poi di gioia, discese ardite e risalite, stomaci in gola e rutti liberi, Sole 24 Ore e Gazza, gnaooooooooooom, e via verso la prossima emozione. Che alla fine ti verrebbe da dire “vabbe’, esco a fare quattro passi nudo sul cornicione”, cose così, ma poi ti viene in mente che c’è la pandemia e il coprifuoco e allora ti rimetti sul divano e ti addormenti di botto, stravolto.

Due giorni fa il nostro maggiore azionista, che sta ad alcuni fusi orari di distanza, ci ha fatto sapere così, con quelle frasi delicatamente indirette, che
noi dobbiamo concentrarci sul campo di battaglia principale, lavorare in sottrazione. Ci concentreremo sul commercio al dettaglio, e quindi chiuderemo e taglieremo le nostre attività irrilevanti in favore del commercio al dettaglio senza esitazioni“. Il noi è riferito a Suning, cioè loro. Le attività irrilevanti invece siamo noi, noi dell’Inter, la società, i giuocatori, i tifosotti tutti, qualche milionata di persone sull’ottovolante, gnaoooooooooooom, siamo in vendita, siamo primi in classifica, gnaoooooooooooom, ho voglia di vomitare, no aspetta un attimo che mi macchi il giubbotto, gnaooooooooom.

L’attività irrilevante, nel giro degli ultimi 34 giorni, ha vinto tre scontri diretti di fila in campionato, Juve-Lazio-Milan, una cosa che non capitava da anni, così, a naso, direi dieci o undici almeno. Gli scontri diretti che erano il nostro tormento infinito, la cartina di tornasole della nostra inadeguatezza, la tranvata ogni volta che ti illudevi un pochino. E invece toh, guarda che filotto. E ora che non siamo più sempre inadeguati, che beffa, siamo diventati irrilevanti.

Ma c’è un’altra dichiarazione, al pari di quella di Zhang senior, che mi piace ricordare mentre siamo qui a dominare princìpi di erezione dopo il derby. E’ il 23 dicembre, antivigilia di Natale. Già si era tutti con le palle girate per la zona rossa incombente e per la Champions appena andata a puttane, una depressione pandemico-nerazzurra che ci faceva quasi dimenticare che, battendo il Verona, avevamo appena vinto la settima di fila in campionato. Per la serie “mai una gioia” Marotta, nel prepartita, cantava il de profundis a Christian Eriksen, un giocatorino mica da ridere (no, per dire, 450 presenze e 100 gol tra Ajax e Tottenhem, più 103 in nazionale, insomma, ne abbiamo visti di peggio) (alcune centinaia, a spanne) che Conte mandava in campo fisso al 92esimo, manco fosse il cugino di Pinamonti. “Ci sono i giocatori nella lista dei trasferibili, vogliono giocare di più e cercheremo di accontentarli, li lasceremo partire per poi sostituirli. Eriksen è fra questi, ha avuto difficoltà di inserimento, non è funzionale, è un dato oggettivo. È giusto dargli la possibilità di avere più spazio altrove”.

Non funzionale. Irrilevanti. Quel delicato gergo da riunione su Zoom tra proprietario, amministratore delegato e capo del personale. Frasi che rimbalzano incontrollate fra le tre dimensioni dell’Inter – l’aziendal-cinese, la sportivo-milanese e la reality-fattuale – e a seconda dei casi svaporano, perdono consistenza o la prendono di brutto, davanti ai nostri occhi impanicati, gnaooooooooom, che non sai se sognare il diciannovesimo o immaginarti con le pezze al culo in coda alla Caritas del calcio.

Rimanendo ai dati più oggettivi: siamo contemporaneamente in vendita, irrilevanti di fronte all’attività di commercio al dettaglio, e primi in classifica in serie A con quattro punti sulla seconda, a 15 giornate dalla fine di un campionato che se me ne trovate uno più strano – l’ho già detto? Gnaaaaaaaaaaaom! – contattatemi in pvt. Quanto reggerà questa situazione? Io non lo so, non lo sa nessuno. Ma quando vedo i miei giocatori – cioè, sono di Zhang, ma per me sono rilevanti, tanto rilevanti, mica come per lui – che dopo un gol si abbracciano tutti a crocchi piramidali, quelli in campo e quelli in panchina, Conte e Oriali, il masseur e Padelli, Lukaku che esulta in italiano, ecco, queste cose qui, a me si apre il cuore, mi viene da abbracciare e leccare il televisore e mi spingo a pensare che questa accolita di giovani milionari sappia ancora distinguere il gusto dell’impresa dall’incertezza di qualche stipendio. Sappia ancora distinguere tra la possibilità di scrivere un capitolo nel libro della storia dell’Inter e l’eventualità remota ma non scartabile che quel libro magari lo portino presto in tribunale.

I tre scontri diretti vinti in un mese sono state tre partite di grande consapevolezza e di fredda determinazione, due cosette che ci mancavano da un decennio virgola qualcosa. Ora che arriveranno partite meno fascinose bisognerà tenere la barra dritta e pedalare: già il fatto di poter dire che “il campionato si vince con le piccole” è la spia di un enorme upgrade che tra i saliscendi stagionali – gnaooooooooooom! – abbiamo costruito e messo in saccoccia.

Sarebbe facile parlare oggi di Lukaku, Lautaro e Barella. Ma forse, per un senso di giustizia divina o laica che sia, bisogna prima compensare qualche insulto e qualche sospiro di sfinimento. Handa in 52 secondi ha fatto più parate decisive che nelle 52 settimane precedenti. I due più fuori dai progetti – Eriksen e Perisic, alzi la mano chi non lo ha insultato a sangue negli ultimi due mesi (alzo la mano) – sono rientrati dalla porta principale. E ricordando le tante sòle viste a San Siro ma anche l’Eto’o terzino del Triplete, mi piace pensare che Conte, Eriksen e Perisic si siano finalmente venuti incontro. Ci hanno messo un po’ ma ce l’hanno fatta. Conte rassegnato a pensare che uno come Eriksen (già descritto sopra) e uno come Perisic (che ha giocato da titolare l’ultima finale mondiale e l’ultima finale di Champions) forse è meglio farli giocare e tenere in panca qualcun altro. Eriksen e Perisic rassegnati a non giocare magari esattamente nel posto preferito, ma disposti a riprendersi una dimensione importante, a sorridere e sudare con gli altri invece che a riscaldarsi con la pettorina o a isolarsi sulla fascia.

Siamo sull’ottovolante a mille all’ora, anche noi tifosotti dobbiamo rassegnarci a non dare nulla per scontato e ad aspettarci ancora tutto – gnaooooooom! – e il contrario di tutto. Da Inter-Juve a oggi, in campionato, 14 gol fatti e uno subito. Lukaku che esulta in italiano. Eriksen che ride. Handanovic che ricorda Spalletti. Perisic che gioca per noi. Lautaro che pare Bonimba. Caro Zhang, ségnatelo: irrilevanti un cazzo.

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Maturità (notte dopo gli esami)

Inter-Lazio è stata il contrario di Roma-Inter del 10 gennaio, una quarantina scarsa di giorni fa, che in questo calcio zippato dell’era Covid sembrano minimo tre mesi. Roma-Inter poteva essere la partita della svolta e non lo fu. All’86’, con quel golletto del 2-2 preso un po’ così – alla cazzo, come tante altre cose di questa stagione -, svanì il bel film che stavamo costruendo nelle nostre povere e già provate menti: una vittoria in rimonta, in trasferta, a Roma, su un campo difficile, in uno scontro diretto, con una squadra in forma, una risposta veloce e autorevole alla sconfitta di quattro giorni prima a Genova, in quella partita senza capo nè coda. Insomma, poteva essere un cambio di passo, una prova importante. Niente, il colpo di testa di Mancini ci aveva riportato sulla terra.

Ne è seguito un mese strano, in cui abbiamo giocato tre volte con la Juve (dando lezione in campionato e rimettendoci malamente le penne in Coppa Italia), due volte con la Fiorentina, una con il Milan, insomma un mese intenso che culminava con un’altra Roma-Inter, stavolta – che combinazione – con la Lazio, in casa e non in trasferta – c’è questa gran differeza, poi? -, altro scontro diretto, con una squadra molto in forma, con le scorie di Coppa Italia da smaltire, con il Milan in prospettiva una settimana dopo, con la pressione di dover rispondere – in un modo solo, vincendo – alle sconfitte di sabato di Juve e Milan, che se non l’avessimo fatto (no, non ci voglio pensare). Avevamo più da perdere che non da guadagnare, ma abbiamo vinto. E guadagnato.

Abbiamo giocato bene, in una bella partita perchè hanno giocato bene anche gli altri. Abbiamo segnato tre gol a una squadra in serie positiva. Abbiamo reagito a un gol preso di pura sfortuna a mezz’ora dalla fine. Abbiamo recuperato gli attaccanti che ci avevano abbandonati proprio con la Juve. Ci siamo divertiti. Dimostrandoci maturi come poche volte sappiamo fare nell’ordinario.

Non è che ci capiti tanto spesso di fare degli all in tipo questo: vincere mentre le tue dirette avversarie perdono e, nel contempo, andare in testa alla classifica da soli. Che, nel girone di ritorno, non ci capitava da 11 anni, cioè nel 2010, cioè proprio quell’anno là. Ci è capitato spesso, piuttosto, nel corso degli 11 anni a venire di alternare grandi imprese a solenne delusioni, e anche dell’odierna Inter non è che ci si possa fidare ciecamente. Ma mi piace pensare che partite come queste – partite di un certo livello giocate a un certo livello – possano davvero segnare una svolta. Non c’è nulla di automatico o di acquisito, la volta dopo si ricomincia daccapo. La volta dopo è il derby. Bòn, ci siamo capiti.

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Papi, presidenti, fondi e sprofondi

Quando sono nato, il papa era Paolo VI (da qualche mese) e il presidente dell’Inter era Angelo Moratti (da otto anni). Quando ho compiuto 50 anni, l’Inter nel frattempo aveva cambiato quattro proprietari (uno da qualche mese) e il mondo nel frattempo aveva cambiato quattro papi (uno da qualche mese). Ho sempre considerato la nostra storia societaria – presidenze molto lunghe di presidenti molto milanesi – un valore aggiunto, nel senso di valore che si aggiungeva ad altri valori. Un valore identitario, che ci legava alla terra oltre che ai colori. Moratti padre, poi il cumenda Fraizzoli, poi il self made man Pellegrini, poi Moratti figlio (con breve presidenza lasciata nelle venerabili mani di Giacinto Facchetti, lombardo pure lui). Una bellissima storia di dinastie e di cuori azzurri e neri.

Quando ho compiuto 50 anni – un passo di per sè già faticoso – stavo faticosamente metabilizzando il passaggio dell’Inter in mani straniere. L’Inter, la nostra Inter, internazionale per vocazione epperò così irresistibilmente milanese, diventava anche un po’ indonesiana. E poi sarebbe diventata cinese, con spruzzate di hongkong. Ti imponi di pensare che vabbe’, è il segno dei tempi, è il calcio moderno, è il mondo dei nuovi ricchi, è la finanza senza frontiere. Ti guardi intorno e vedi sceicchi e tycoon e ti chiedi se noi siamo i figli della serva, eh no. Il presidente – dopo Moratti padre, Fraizzoli, Pellegrini, Moratti figlio e Facchetti – diventa prima uno sconosciuto e rampante riccone di Giakarta, poi un ragazzino cinese che potrebbe essere mio figlio (perchè il padre è mio coscritto, e la cosa può inquietarmi a nastro ma anche farmi simpatia, in fondo).

E adesso?

In questo periodo dai tempi compressi causa pandemia, la nostra esistenza di tifosotti si snoda a cadenza multisettimanale su due piani paralleli. C’è il piano normale – partite, palloni, polemiche, calci, sputi, pugni in faccia, Gazza – e il piano premium – bilanci, trattative, milionate, accattonaggio, pezze al culo, morte, Sole 24 Ore.

Ormai i due piani sono ampiamente comunicanti. Non solo nelle povere menti di noi tifosotti (“Vinceremo lo scudetto? O falliremo e ripartiremo dalla serie D girone B col Seregno e il Fanfulla?), ma anche nel complesso mondo di viale della Liberazione, dove il teen-presidente non mette piede da mesi (il mio coscritto da boh, anni) e dove immagino regni quella cupa atmosfera di incertezza e quel fastidioso stridìo di sedie che ti si sfilano da sotto il culo. Per non dire di Appiano Gentile, beffardamente ribattezzato Centro Suning, quella Suning che si sta defilando un po’ alla cazzo di cane, senza la decenza di spiegare un po’ al volgo come stanno le cose (perchè d’accordo l’alta finanza, il world trade e la riservatezza, ma santa madonna!). I calciatori (categoria mediamente poco incline al sacrificio e poco pregna di alti valori morali) non moriranno di fame se non ricevono qualche stipendio, per carità, ma si trovano in quel marasma psicologico e sostanziale che – con i dovuti distinguo – li accomuna a lavoratori con qualche zero di meno ma le stesse inquietudini: mi pagheranno prima o poi? il padrone chi è? non è che tra un po’ chiudono tutto? non è che tra qualche mese sono a migliaia di chilometri da qui? o magari faccio il ritiro della nazionale disoccupati al Ciocco?

E adesso, dicevo? Dopo Thohir e il piccolo Zhang, io che ero abituato a lady Renata e al presidente da marciapiede dovrò dire con imbarazzo che il mio patròn è un fondo? E a proposito di imbarazzo: ho cercato la definizione di “fondo” e non ci ho capito un cazzo. Cioè, peggio: non ho nemmeno trovato la definizione di fondo. Cioè, neanche in Yahoo Answers. Roba che se mi intervista per strada il Milanese imbruttito faccio una figura di merda epocale e fuggo in un eremo, non dopo essermi accertato che i monaci non abbiano nè Sky nè Dazn, anzi, non abbiamo niente che mi consenta anche casualmente di avere rapporti con il mondo esterno.

Con 17 partite ancora da giocare in campionato più (almeno) una, la semifinale di Coppa Italia con quella orribile squadra a strisce scolorite, non so voi ma io oscillo tra un tifo sperticato e angosciato – che peccato mortale sarebbe non vincere uno scudetto quest’anno in questo Barnum – e una scimmia sulla spalla che mi ricorda che debbo morire, e che Suning ha problemi di liquidità, e che Bc Partner tratta sul prezzo, e che a fine anno magari sarà una diaspora, e che la Fidaty sta per scadere.

No, cioè??

“Sì amico mio, tutti i puntii accumulati entro domenica 21 marzo 2021 e non utilizzati alla data dell’11 aprile scadranno e non avranno più alcuna validità”.

Ma porca troia, che periodo di merda è? In tutto questo, nelle prossime tre partite affrontiamo Juve, Lazio e Milan, tre esamoni in 13 giorni, tre partite che potrebbero dire tanto, tantissimo, o forse tutto. A Conte e ai ragazzi dico solo di tenere duro e che tra la gloria e il disimpegno io tendenzialmente sceglierei sempre l’opzione 1, che magari sarà comunque utile per il futuro o comporterà il bonus platonico ma eterno di assurgere questo manipolo di mal stipendiati a eroi del nerazzurro. E che un grande Juve merda risuoni nei vostri cuori: la storia vi ha già privilegiati, rendetevene conto, e che Suning si inculi. Forza Inter.

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Lo zingaro e il negro

Scusate, ma al diciassettesimo post in giro per i social che mette in relazione la lite Ibra-Lukaku (monkey? donkey?) alla Giornata della Memoria no, due cose mi sento di dirle. Due cose su due multimilionari che fanno trash talking sul prato che amo di più. Sul resto, portiamo rispetto e parliamo di calcio.

A me, di tutto quello che è successo ieri sera alla fine del primo tempo del derby, interessa soltanto che venga valutato correttamente quello che tutti hanno visto: che ha iniziato Ibra (fallo di Romagnoli su Lukaku, Lukaku manda affanculo Romagnoli, Ibra che non c’entrava proprio un cazzo inizia a insultare Lukaku). Sul resto stendiamo un velo pietoso, compreso la nostra tendenza a farla più grossa di quello che è, o a indignarci una volta sì e una volta no.

La volta no era di un giorno o due prima. E c’era proprio Ibra di mezzo. Abbiamo tutti trovato estremamente divertente le parole con cui (salvo prendersi tre pere in casa, uah uah) aveva preso per i fondelli Zapata durante Milan-Atalanta – trash talk quasi polite, manco una parolaccia -, e poi come De Roon gli aveva risposto, e poi come Ibra ha risposto De Roon. E via, video condivisi, meme a pioggia, quanto ci fa ridere Ibra che fa il bullo, eccetera eccetera. Tre giorni dopo Ibra fa il bullo a casa nostra e apriti cielo.

Sembra quasi che il trash talking sia un malcostume recente, “oddio ma senti cosa dicono, oddio che stronzo questo, oddio quanto mi fa scompisciare quello”. Semplicemente, con gli stadi vuoti si sente tutto anche da casa. Si sentono bestemmie epocali, moccoli giganteschi, liti furibonde, prese per il culo, mezze parole che però a volte pesano una casino. Parlando da spettatori, una parte dello spettacolo (vabbe’, chiamiamolo così) che ci era preclusa o affidata ai labiali. Adesso è lì, tutto da godere.

Il trash talking c’è da quando esiste lo sport, a meno che a bordo campo non ci fosse De Coubertin in persona e allora magari faceva brutto. Per chi ancora non l’avesse visto, “The last dance” oltre a essere una meravigliosa serie è anche un interessante trattato sul trash talking: Michael Jordan, uno dei più grandi sportivi di ogni epoca, è stato forse la massima espressione del trash talk nelle arene sportive, un rompicoglioni immenso che non faceva distinzioni di ceto e di maglie (se la prendeva anche con i suoi, allenarsi con Michael Jordan a volte era una iattura, che qualcuno l’avrebbe scuoiato vivo se non fosse stato Michael Jordan, appunto).

Se invece vogliamo metterla sul razzismo, diciamo che due come Lukaku (il negro) e Ibrahimovic (lo zingaro) l’argomento lo conoscono piuttosto bene sulla loro pelle e non ce li vedo proprio a usarlo contro gli altri. Ibra (che per me ha detto donkey, non monkey) è un bullo con più di vent’anni di carriera ai massimi livelli, anche da bullo: secondo me ha una frase pronta per tutti (figurarsi con uno con cui ha giocato e che gli sta sul cazzo), e se non ce l’ha se la inventa al momento. Ieri sera ha pisciato fuori dal vaso, nel senso che ha iniziato lui, manifestamente. E non solo, lo hanno lasciato continuare per un po’. Quindi, spero che questo venga valutato dalla giustizia sportiva. Per il resto, ragazzi, lasciamo stare le cose serie.

Questi stadi vuoti sono insopportabili, il pubblico manca, manca l’umore, manca il sottofondo. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe stata la nostra stagione con il pubblico (qualche partita che avremmo risolto diversamente, ma anche qualche contestazione che ci avrebbe destabilizzati). Ma ieri sera, cosa sarebbe successo durante la rissa in un derby tra i due centravanti, davanti magari a 70mila spettatori? Boh, forse è meglio che sia andata così, una roba tra pochi intimi (a parte le milionate sul divano che hanno imparato il significato di monkey, donkey, bullshit e fuck your wife, meglio di un corso su Babbel).

Ci stiamo preoccupando un po’ troppo di due energumeni senza problemi economici che si sono fatti una litigata tipo campetto, tirando in ballo madri e mogli (no dico, dov’è la novità?). Torniamo alle cose serie. Forza Inter, abbasso Milan, Ibra vaffanculo, Juve merda, tifo Spal fin da quando ero bambino, viva lo sport.

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Hello gobbi

Poteva andare meglio solo se li avessimo sepolti di gol, come avremmo meritato noi e avrebbero meritato loro. A parte questo dettaglio per una volta secondario, difficile immaginarsi una serata migliore di così, una serata trascorsa a fare la Juve a brandelli come non accadeva da troppo tempo. E che l’ultima Inter a battere la Juve fosse stata quella di De Boer quattro anni e mezzo fa (tre giorni dopo essere stati battuti dal Beer Sheva in coppa), dunque in un contesto – diciamo così – piuttosto occasionale, ci lascia godere il momento ancora più intensamente, perchè stavolta non c’è stato nulla di casuale. E quindi delle due l’una: o l’Inter si sta strutturando per un livello superiore, o la Juve si sta destrutturando per quello inferiore. O magari tutte e due, che sarebbe ancora più bello.

Per evitare di passare la notte a guardare il soffitto con un sorriso ebete stampato in viso, consiglio di ripensare a domenica scorsa e alla partita buttata nel cesso con la Roma. Pensate a cosa sarebbero stati due scontri diretti vinti uno dopo l’altro, contro le due nostre peggiori avversarie degli ultimi quindici anni. Ci dobbiamo accontentare di questo partitone con la Juve, tzé, e cercare di piantare un paletto, ma che dico un paletto, un traliccio che segni il punto della svolta.

Mancano venti partite alla fine del campionato, nessun verdetto definitivo su questa o quella squadra è stato ancora emesso. A parte sul Milan, certo, che per freschezza, sfrontatezza e culo finora ha sovrastato tutti. Dietro c’è un gruppone di squadre che possono dire di avere ancora speranze. Noi siamo un po’ più avanti delle altre. Se ci serviva la partita che ci dicesse che nulla ci è precluso, l’abbiamo giocata la sera giusta contro gli avversari giusti. La certezza di un mercato che non ci sarà, l’incertezza sul futuro del club che cerca soci (o compratori), quell’atmosfera da eterna incompiuta. In altri tempi, di fronte a tanto caos, avremmo mentalmente steso un tappeto rosso alla Juve. Chissà che non sia un segno, un segno preciso.

P.S.: Barella, che cazzo di giocatore.


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Brutti ma buoni

I biscotti hanno normalmente nomi che poeticamente raccontano la loro forma, o che dialetticamente raccontano la loro storia. A parte i brutti ma buoni, che hanno il nome più sincero di tutti. Che ne so, potevano chiamarli robertini, o tortini, o zanzarini, o nutriini. E invece è stata fatta questa scelta brutale. I brutti ma buoni sono, in effetti, brutti ma buoni. E adesso non potresti chiamarli più in un altro modo.

Questo sofisticato ragionamento – che Iginio Massari me spiccia casa – mi è venuto oggi guardando l’Inter (o meglio, nei circa 60 minuti in cui sono rimasto sveglio e vigile, perchè negli altri 30 ho dormito come non mi capitava dal Gp di Ungheria del 2014). Alla nona delle dieci partite da giocare in un mese (da Inter-Torino del 22/11 a Verona-Inter del 23/12, cioè mercoledì) abbiamo messo insieme la sesta vittoria consecutiva in campionato in un sostanziale saliscendi di prestazioni mediamente bruttine, con alcuni momenti di bruttezza tipo oggi (almeno così mi raccontano, nel primo tempo dormivo come un bambino) o tipo i venti minuti finali col Napoli o come il primo tempo col Toro o come (segue elenco). Inframmezzate alle partite di serie A in questo mesetto ne abbiamo giocate anche tre in Champions, con il deprimente bilancio che conosciamo bene. Brutti col Real, buoni a Borussia, brutti con lo Shakhtar. Quindi siamo brutti, altroché, lo siamo stati in Champions, brutti e cattivi, e siamo però anche buoni, se è vero che siamo secondi in campionato e che in questo mese abbiamo recuperato 4 punti alla prima.

A questo punto potremmo fare un fioretto: ci impegniamo a seguire e a tifare con tutte le nostre forze la nostra squadra pur così brutta ma così buona, se la bruttezza giustifica i mezzi per arrivare a vincere le partite – se non tutte, il maggior numero possibile – e magari un qualcosa che possa rinfoltire la nostra bacheca dopo ormai quasi dieci anni di digiuno totale? Ci concentriamo sulla pratica e lasciamo perdere l’estetica?

Beh, si può fare, sarebbe un sacrificio molto relativo di fronte alla prospettiva di un qualcosa. Però l’Inter, senza farne una questione di mera estetica, dovrebbe tendere un po’ di più alla bellezza. Se si è belli, la fatica pesa meno. Se si è belli, l’aria intorno si alleggerisce. Se si è belli, è più facile arrivare al risultato. Non tipo oggi, quando schieriamo con lo Spezia la formazione-tipo che schiereremmo col Bayern o col Liverpool (che di per sè ti dice che c’è qualcosa di sbagliato già in premessa) e ci appiattiamo a giocare una non-partita nell’attesa che accada qualcosa. Può andare bene con lo Spezia, con le altre non so. Le partite tristi ti imbruttiscono, e noi abbiamo bisogno di leggerezza.

L’Inter, per essere più bella, intanto ha bisogno un ritocchino (vabbe’ dai, lo fanno in tante). Mercoledì ho visto in sequenza Juve-Atalanta e Inter-Napoli e ho avuto l’impressione che la squadra meno attrezzata fosse la nostra. Atalanta e Napoli avevano sei attaccanti tra campo e panca, l’Inter due. Lukaku e Lautaro, oltre al logoro Sanchez e al (boh) Pinamonti, hanno bisogno di qualcuno che li faccia rifiatare, o che consenta di rimescolare le carte o rinfrescare le forze. A gennaio il primo obiettivo deve essere quello. E poi la liberazione (anche dolorosa, anche assurda) dagli equivoci, perchè sono cose che pesano, gli equivoci, e non non abbiamo bisogno di pesi.

L’Inter brutta, a tratti oscena di questo mese, è anche molto buona, perchè il bilancio delle nove partite è 7-1-1 e vaffanculo, firmerei per la stessa cosa nelle prossime nove. Però serve cambiare faccia, serve tirare il fiato, serve darsi una rinfrescata. Serve accettare il fatto che in campo, al di là degli schemi e dei numeri, quando in campo ci vanno i buoni (e non i brutti) le cose vanno meglio. Tipo oggi, che metti Sensi e basta qualche tocco meno ammorbato della media per vincere la partita. Se non è Eriksen – dio santo, ormai l’abbiamo capito – l’uomo che ci può dare altra bellezza, beh, prendiamone un altro. Però la bellezza passa dai buoni, non dai brutti: stiamo parlando di calcio, non di biscotti.

Se una squadra che si è concessa ultimamente tanta bruttezza ne ha vinte sei su sei, vuol dire che questo campionato è molto più a portata di mano di quanto non vogliamo ammettere. Farselo sfuggire sarebbe da criminali. Bisogna pensare un po’ più positivo, da Zhang fino a Conte: scrollarsi di dosso questo nebbione concettuale e correre un po’ più liberi. E belli.

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Noi, i ragazzi dell’82

Passa il tempo, i capelli imbiancano, i ricordi si selezionano, la saggezza dovrebbe aiutarti a fare ordine negli avvenimenti e nei valori, ma il Mondiale dell’82 resta per me un momento chiave di una vita intera, una cosa che non schiodi dalla tua Top 10 perchè non c’è verso, e forse non ce n’è ragione, e comunque non è che te ne devi vergognare. Non è solo pallone, non è solo un giocoso rimando a un momento di felicità collettiva. E’ che per me quei giorni furono davvero speciali, e lo racconto sempre divertito, l’ho raccontato una sacco di volte – tipica cosa di chi invecchia – e lo racconto ancora oggi che sono appena morti Maradona e Paolo Rossi. Che piango come fossero stati miei amici e che nell’82 c’erano. L’82 erano loro.

Nel luglio del 1982 io avevo i Mondiali, e avevo anche la maturità. Non sono due cose molto compatibili, non potevano esserlo per uno che – perfetto modello di giovane italiano medio – viveva il calcio in maniera totale, molto romantica e moltissimo passionale. Che nel 1982 avrei avuto la maturità e i Mondiali mi era ben chiaro fin dal primo giorno di liceo, il calendario gregoriano e un naturale percorso scolastico mi proponevano la prospettiva di una coincidenza che, porca puttana, francamente pensavo di non meritarmi. Eppure andò così, com’era nella cose.

Nella clamorosa estate del 1982 ricordo tutto, tranne che di avere studiato – studiato seriamente, dico – per la maturità. Cioè, francamente: come si poteva con un Mondiale in cui l’Italia non usciva mai, e non sarebbe mai uscita? Ancora oggi, attribuisco alla vecchia formula a 24 squadre il merito della mia ingloriosa promozione: con la formula attuale, con tutte quelle partite in più, forse mi avrebbero bocciato. Le vidi quasi tutte, ce ne furono di meravigliose anche nei gironi – la Germania che perde con l’Algeria, l’Argentina che perde con il Belgio, la Spagna che perde con l’Honduras, un Brasile spettacolare come ai tempi più belli. L’Italia – tranne la finale – giocò tutte le partite di pomeriggio: cioè, onestamente, come ci si poteva concentrare su greco e latino quando alle cinque giocava l’Italia? Come?

L’Italia giocò la finale domenica 11 luglio, ore 20, estadio Santiago Bernabeu. Roberto Torti giocò l’orale della maturità sabato 17 luglio, ore 9, liceo classico Severino Grattoni di Voghera. Alla fine abbiamo vinto tutt’e due. L’Italia molto meglio di me, vabbe’, ma l’importante era – appunto – l’Italia. Quanto a me, mi salvò il tema di italiano, all’orale poi feci un po’ di melina, però abbastanza elegante, in discreto stile, almeno per quel che mi rammento. Dovevo rimediare tipo un 4 nello scritto di greco, o forse era un 3, a me piaceva latino, greco no, non mi è mai piaciuto. Feci un carosello solitario sulla mia 500 bianca lungo la circonvallazione di Voghera, con i finestrini abbassati perchè faceva caldo. Fine dei ricordi della maturità.

Del Mondiale 1982 invece ricordo tutto, ricordo dov’ero, cosa pensavo, cosa facevo. Ricordo che mi chiedevo, come tipo altri 50 milioni di ct da divano, perchè mai Bearzot insistesse a far giocare uno che non giocava da due anni e sembrava un morto in piedi in mezzo a 21 atleti decisamente più in forma di lui. Poi non mi sono chiesto più nulla, perchè Bearzot e Rossi hanno vinto il Mondiale, loro due, contro ogni evidenza, contro ogni ragionevole dubbio.

Sorteggiavano la lettera per gli orali quando i risultati concomitanti ufficializzavano che – dopo tre pallidi pareggi con Polonia, Perù e Camerun – passavamo sì il turno ma per finire nel gironcino a tre con Brasile e Argentina, una specie di tritacarne da cui al 99% saremmo usciti umiliati. Paolo Rossi e Diego Armando Maradona – il morto in piedi e l’astro nascente – si incrociarono sullo stesso campo il 29 giugno 1982 alle 17,15: non finì come da pronostico. L’Argentina prese tre pere anche dal Brasile e il 5 luglio, sempre alle 17,15 e sempre in quel cesso del Sarria di Barcellona, Italia-Brasile divenne l’inattesa partita-spareggio per le semifinali. Divenne una delle partite più belle di tutti i tempi.

Da lì in avanti Paolo Rossi – resta uno dei romanzi più avvicenti del calcio di ogni tempo – prese in mano la sua e le nostre vite. Tre gol al Brasile – il morto in piedi! Tre gol! -, due alla Polonia, uno alla Germania, il primo, in finale. Cosa avesse visto Bearzot dietro quello che tutti vedevano, boh, resta uno straordinario mistero. Del resto, la grandi imprese dello sport hanno sempre un alore di sovrannaturale. Fu per Paolo Rossi una rivincita pazzesca su uno snodo crudele della sua vita, due anni di carriera svaniti per un incontro sbagliato nella hall di un albergo, per una frase sibillina scappata chissà come. Si sarebbe scoperto che non c’entrava nulla, che l’avevano messo in mezzo, che il suo nome era anche funzionale a un certo tintinnare di manette.

Era una persona perbene, mite, simpatica. Una persona normale. Ci ha fatto vincere un Mondiale, mi ha fatto perdere 10 punti alla maturità e per questo gli ho sempre voluto bene. Non è mai stato interista, ma non è mai stato un problema. Gli ho visto segnare due gol a San Siro con il Perugia (ma noi ne segnammo tre: foglia morta del Beck, rigore di Spillo e coast to coast di Pasinato). Ciao Pablito, e salutami Diego: la gloriosa estate del 1982 – ricordate? – ce la siamo goduta insieme. Bei tempi, cazzo.

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Scusi, sa dov’è il percorso?

Da quando siamo tornati in Champions (tre stagioni, tre gironi eliminatori e puff!, a casa), abbiamo fatto 21 punti in 18 partite. Per fare un esempio molto pratico, l’anno scorso alla diciottesima giornata del campionato di serie A 21 punti ce li aveva l’Udinese ed era tredicesima in classifica su venti. E noi questi siamo: una squadra che ha potenzialità, che un po’ se la tira e poi a conti fatti è l’Udinese d’Europa, troppo lontana dai top team per sperare di vivere alla grande.

18 partite (sei griffate Spalletti e dodici Conte) con 5 vittorie, 6 pareggi e sette sconfitte. Siccome due vittorie sono arrivate nelle prime due partite della prima stagione, nelle successive sedici partite abbiamo fatto la miseria di 15 punti. Restando alla gestione Conte, in 12 partite 3 vittorie (solo una in casa), 4 pareggi e 5 sconfitte. 13 punti in 12 partite. L’anno scorso, in serie A, 13 punti in 12 partite li aveva fatti curiosamente fatti il disastroso Milan del giorne d’andata, quattordicesimo in classifica davanti al Bologna, quattro punti sopra la teorica quota retrocessione.

Con lo Shakhtar poteva andare in ben altro modo, la traversa sotto il primo blu vibra ancora adesso e il miracolo è stato a portata di mano un po’ di volte. Ma non è successo. Usciamo avendo perso due volte col Real e avendo fatto due 0-0 con lo Shakhtar, un bilancio da Udinese o Bologna d’Europa, quindi ineccepibile, ci piaccia o no. Usciamo avendo vinto una sola volta, avendo sbagliato mille gol, avendo mostrato diecimila sfumature di limiti di personalità (tipo controllare le partite e non vincerle manco per sbaglio).

L’Europa non è il nostro giardino, e del resto Conte non è certo uno specialista della Champions (eufemismo). Quindi, detto che il fallimento è diffuso su tutti i livelli dell’Inter Fc, chiediamoci pure senza autocensurarci se quello di Conte a questo punto non sia un esplicito e completo fallimento personale. Con la squadra certamente non perfetta ma sicuramente rinforzata, è 5 punti dietro il Milan in campionato e fuori dalla Champions con l’ultimo posto nel girone, quindi fuori dall’Europa. Dopo un paio di mesi a mostrare un sorrisino fuori luogo, è adesso tornato nella sua comfort zone delle interviste irritanti, fino allo show di quest’ultimo dopopartita che il Marchese del Grillo a confronto era mister “Resto umile” 2020.

Il percorso – la parola più amata dal nostro mister – zoppica parecchio: difficile autoconvincersi che la squadra “sta crescendo” quando non fai un gol in 180 minuti agli ucraino-carioca che quattro mesi prima avevi preso a pallate. La partita di Gladbach è stata una parentesi in una lunga teoria di partite decisive toppate e di scontri diretti sfumati nella delusione, senza mai dimostrarsi carne o pesce.

Curiosamente, nel momento della massima frustrazione, Conte adesso ha tra le mani una chance clamorosa: togliendosi il fardello dell’Europa, potrebbe concentrarsi su quella che è la sua vera specialità, vincere il campionato. E avrebbe quasi tutto per farcela: la sua competenza specifica, un discreto materiale umano (per l’Italia basta e avanza) e l’occasione di mandare affanculo tutti i suoi detrattori (ormai mi ci metto anch’io) che per un agonista ambizioso e rancoroso come lui può essere la chiave del tutto. Ma non saprei cosa aspettarmi davvero da una squadra a cui evidentemente manca qualcosa per elevarsi dalla mediocrità internazionale e da un allenatore che – a parte il piacere di controllare il saldo sul conto – vorrebbe tanto essere altrove.

In Europa siamo ancora una provinciale, purtroppo. In Italia possiamo dire la nostra, ma bisogna averne voglia. Mi piacerebbe dire che stanotte inizia la corsa al diciammovesimo scudetto, ma se mi facessero il siero della verità si capirebbe che sto esagerando di brutto.

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I fiori di Gladbach

Alla partita stagionale n. 14, l’Inter ha finalmente fatto cose non banali. Una su tutte: in un contesto importante, sfavorevole e delicato, non ha sbagliato partita e ha centrato l’unico risultato possibile. Che l’abbia fatto prendendo i soliti due gol (otto volte su 14 partite) (e una volta tre) diventa un particolare irrilevante visto che ne abbiamo segnati tre, che potevano essere tranquillamente sei o sette. I soliti sei o sette, verrebbe da dire, per questa squadra che quando gira non fa fatica a creare un’enormità di occasioni. Atteggiamento sempre propositivo, solite amnesie dietro ma tant’è: non possiamo che migliorare.

Adesso è tutto appeso a non so bene cosa, in un girone folle per le sue dinamiche, dove il Real fa sei punti con l’Inter, lo Shakhtar fa sei punti col Real, l’Inter vince a Moenchengladbach ma fa il suo ingresso da ultima nel tritacarne della sesta giornata, dovendosi giocare tutto in casa all’ultima partita, in un sinistro ricorso con le ultime due edizioni in cui l’abbiamo preso il quel posto nella stessa circostanza, anche se in condizioni un po’ diverse.

Conte ha switchato la sua personale e malmostosa stagione verso una modalità semplificata. Siccome è un talebano del 3-5-2, ha preso questa decisione: basta con la creatività, fa il 3-5-2, punto. Si è liberato dell’incubo Eriksen ed è tornato nella sua comfort zone. Si è anche un po’ liberato dal Covid, ha recuperato i suoi fidati, ha più opzioni, gestisce meglio le sue scelte, non lavora più di fantasia – quella fantasia malata e un po’ provocatoria, del tipo “io sono io”.

Nel giro di due partite – due trasferte, perchè fuori andiamo meglio che in casa, sempre che “fuori” e “casa” abbiano un senso in questo periodo – le cose si sono un po’ sistemate rispetto al fosco panorama di una settimana fa: in campionato qualche risultato concomitante ci ha spinto al secondo posto in una sola mossa, in Champions dovevamo vincere e abbiamo vinto, e adesso bisogna vincerne un’altra e stare a guardare, in un’aria prenatalizia che potrebbe profumare di biscotto oppure no. Avessimo fatto 3-3 adesso saremmo qui a tormentarci le carni: chissà se – già eliminati – avremmo avuto la forza e la lucidità di fare comunque i complimenti alla squadra per una partita coraggiosa, costantemente all’attacco, in cui solo una colossale sfiga – unita a una difesa non più impermeabile – ci aveva dato una mazzata mortale e immeritata. Vabbe’, meglio così: il nostro sogno europeo dura ancora una settimana e dai, su, proviamo a godercelo.

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