Tutto in una notte. Nel senso che non ci poteva essere una partita più rappresentativa di cosa è l’Inter oggi, alla fine di ottobre di questa merda di periodo. Più che una partita di Champions sembrava un trailer, o uno di quei filmati corporate, quei video che proiettano all’inizio e poi ti danno il dvd con la cartella stampa quando esci. “Oppure lo puoi scaricare a questo link”. “Grazie!”.
Andiamo per ordine. Intanto, il primo tempo è stato molto buono. Due traverse, tante occasioni, tanto possesso, tanto gioco, tanto tutto. Non a livelli stratosferici, ma quanto sarebbe bastato per andarsi a bere un tè sul 2-0 e nessuno avrebbe avuto niente da dire, anzi. E saremmo primi nel girone, per dire.
Ok, proseguiamo con le cose belle. Non abbiamo preso gol. Vabbe’, per gran parte della partita quelli non li abbiamo visti avvicinarsi nemmeno alla tre quarti. Diciamo che fa testo, ok, è pur sempre una trasferta di Champions, ma fino a un certo punto. Ok, altra cosa bella… Ecco… allora…
Niente.
Passiamo alle cose brutte. Intanto, non abbiamo segnato. Ora, senza tirare un ballo Romelu, che Iddio ce lo conservi, la capacità offensiva del resto della truppa è un pianto: nel secondo tempo siamo stati irritanti, scelte sempre sbagliate, decine di palloni buttati nel cesso. E’ una squadra tanto potenzialmente forte quanto attualmente frenata dall’incertezza, qualche volta divorata dall’ansia. Come sia uscito un secondo tempo così orribile – al netto di un rigore negato, che sarebbe stato comunque un episodio – dopo un primo tempo tanto promettente, boh, è un mistero. Oppure, paradossalmente, è molto chiaro: non siamo tranquilli, non abbiamo confidence, ma neanche un po’. I giocatori si trasmettono l’un l’altro una dose di panico più ci si avvicina all’area avversaria. Sembra di vedere i ragazzini che giocano a “suora tua senza ritorno”.
A questo punto, penso a Conte. Ma non era il re dei motivatori? Lo spremitore di sangue dalle rape? Il creatore di progetti vincenti anche contro le evidenze? Le sue conferenze stampa stanno diventando sempre più inverosimili. L’uomo che digrignava i denti e replicava scocciato a qualunque critica non necessariamente fuori luogo adesso è sempre sereno, sempre contento, sempre soddisfatto, la squadra lavora, la squadra cresce, non posso dire niente ai ragazzi, ho visto tante cose buone. Che ti verrebbe voglia di alzarti dal fondo della sala e dire “Scusi, mi fa l’elenco dettagliato delle cose buone del secondo tempo?”, ma lo sai che sei sul divano e tieni la domanda per te
Siamo stati sfortunati, il primo tempo poteva finire diversamente e adesso saremmo forse qui a dire che siamo andati là per vincere e lo abbiamo fatto, come succede alle grandi squadre. Ma non è successo, e peccato per il concetto di “grande squadra” che ci sfugge sempre appena ci avviciniamo, zac!, come il codino delle giostre. Siamo stati sfortunati e prima o poi ‘sta cazzo di ruota magari girerà, la legge dei grandi numeri è dalla nostra parte. Però non possiamo limitarci ad aspettare il momento in cui tireremo due centimetri più sotto, o qualche stinco ci rimetterà in gioco, o troveremo arbitri migliori.
Vorrei discutere davanti a una birra con Conte delle sue mosse, ma purtroppo i bar chiudono alle 18. Quando c’è da cambiare la partita, quando c’è da dare una mossa alla truppa, una rimescolata alle carte, Conte sceglie spesso l’opzione più farlocca. Come si possa pensare di essere più pericolosi togliendo Lautaro e mettendo Perisic, boh, è troppo difficile per me. E se vuoi minimamente provare a vincere una partita, hai Eriksen in panchina e lo metti all’80’, beh, stai solo restringendo il campo di una possibile chance, oltre a perdere un giocatore già un po’ perso di suo. Ma chi non sarebbe un po’ confuso e demotivato in questa Inter condotta da un allenatore dai princìpi incorruttibili e dal sorriso sospetto? Sa qualcosa che noi non sappiamo?
Questo inizio di campionato è un tale casino (Milan e Sassuolo ai primi due posti, Napoli al quarto posto dopo una partita persa a tavolino e un punto di penalizzazione, tre sole squadre imbattute dopo 4 giornate) che i nostri casini sono ben contestualizzati nella situazione di incasinamento generale. Che poi, in fondo, non è bello così? O preferivate la Juve a punteggio pieno? Noi abbiamo perso un derby (cosa che fa incazzare in sè) con sei assenti Covid e un paio di malconci, dopo la settimana di diaspora per le nazionali, pagando carissime le nostre cazzate e procurandosi più di un’occasione per rimediarle, con un Var da azzeccagarbugli ad annullarci un rigore a favore. Quindi, keep calm: siamo alla quarta giornata, mica alla trentaquattresima. Bene, parliamone. Quando spazio ho?
Anzi, facciamo una bella cosa. Tipo quei pagelloni con le lettere dell’alfabeto che si fanno a fine stagione o durante la pausa natalizia. Facciamo adesso, massì, perché aspettare?
A come Achraf. Cioè Hakimi, cioè una delle 4/5 cose migliori passate dalle nostre parti nel dopo Triplete. Siamo troppo sbilanciati? E ‘sticazzi, direi che questo bendiddio merita di perderci qualche notte a trovare la quadra. Ha una falcata che è una bellezza e crossa tipo Candreva, ma centoquattordici volte meglio.
B come Barella (e Bastoni). No, insomma, non è che gli acquisti li canniamo sempre, questi due sembrano un pelino meglio di Belfodil o Botta (giusto per rimanere alla lettera B). Con loro stiamo tranquilli per un po’. Barella è un’altra delle 4/5 cose migliori di cui sopra, Bastoni ha davanti una stagione per entrare anche lui nel cerchio magico al posto di qualcun altro (tipo quella roba delle sedie di X Factor, you know). Oppure – sarebbe il sogno di tutti noi – allarghiamo il cerchio magico, perché i buoni sono di più e noi voliamo alto.
C come Conte. La versione Bonomelli del nostro amato (?) condottiero regala un surplus di provvisorietà alla già disorientante situazione. Ci è o ci fa? Ci crede o non ci crede? Fa la formazione perché ne è convinto o per sfidare il mondo anche contro le leggi dell’evidenza? Dopo aver scoperto con sorpresa di avere una panchina lunga, il Covid gliel’ha accorciata di brutto nella prima partita davvero importante della stagione. Quindi lo attendiamo in tempi migliori, e con quel lampo perverso negli occhi che oggi lascia spazio a uno sguardo acquoso tipo genitore alla recita scolastica.
D come De Vrij. E’ uno dei migliori difensori al mondo. Sembra impossibile che prendiamo due gol a partita con lui in mezzo. Zhang gli compri una bolla personale: non si deve ammalare, non si deve infortunare, non si deve arrabbiare, non deve avere pensieri.
E come Eriksen. Fatte le debite proporzioni temporali, rivivo con lui l’incubo icardiano. Sto passando da “Lo adoro, è il migliore, sono pronto a fare scudo con il mio corpo” a “Se non c’è nessuno che lo porta a Malpensa vengo io con la mia Lancia Y, se non c’è il volo lo porto al confine e lo scarico a Chiasso”. Forse, ad appesantire le sensazioni di spossatezza generale, c’è quella faccia da bambino dell’asilo quando la mamma se ne va via, la faccia che si porta appresso quando entra in campo come se quel prato con le tribune attorno fosse un luogo ostile e sconosciuto. Ma santiddio, tira fuori i coglioni! Sei Eriksen! Addirittura il nostro amicone ex gobbo ritaglia il ruolo del trequartista nelle sue sinapsi talebane e poi mette un altro, non fa giocare lui: ci sarà una ragione, temo.
F come Fragile. Tra le sfighe dello scorso anno, a dare il colpo di grazia sul nostro livello estetico, c’è stato l’orribile tunnel in cui si è infilato Sensi con i suoi muscoletti da ballerina di seconda fila. No, perché se oggi guardate i nomi del reparto centrocampisti e ci aggiungete come bonus un Sensi sano, che manco è titolare, no dico, non è un repartone?
G come Gagliardini. Se dovessi scrivere un libro dal titolo “Conte spiegato alle mie figlie”, comincerei dall’importanza intrinseca di uno come Gagliardini. Ah, comincerei da lì anche se dovessi scrivere un libro dal titolo “Non capisco un cazzo di calcio ma vivo bene lo stesso”.
H come Handanovic. Come Clint Eastwood ha due espressioni: con il cappello e senza. A me sta simpatico, non l’ho mai compreso nella lista dei 10 principali problemi dell’Inter, e non c’è nemmeno oggi che – rapportata alle ultime dieci stagioni – abbiamo una rosa extralusso e un numero più ridotto di problemi. Vabbe’, ecco, fa un po’ incazzare quando gli viene quella cosa che non si tuffa quando gli altri tirano: dura quelle tre-quattro settimane, ma poi passa.
I come interisti. Sarà una stagione complicata: stringiamci a coorte.
J come Juve. Merda.
K come Kolarov. Dieci anni fa mi piaceva molto. Il fatto che lo abbiamo preso dieci anni dopo, beh, diciamo che non mi ha molto convinto sin dall’inizio. Tipo: dieci anni fa mi piaceva molto anche la Sharapova, poi sono maturato. Aspetta, vediamo, mi sono detto. Dopo quattro giornate, solo un cieco interismo mi frena dal fare una class action contro l’Fc Inter da Zhang fino all’ultimo venditore di cornetti Algida. Non può che migliorare.
L come Lautaro. È molto forte e molto ambizioso. Se lo lasciamo concentrato – cioè, non so, continuiamo a ripetergli come un mantra in sala mensa che il Barcellona ha le pezze al
culo – può darci tantissimo.
M come Milan. Inteso come Skriniar, spero che torni quello di due stagioni fa: ne abbiamo bisogno. Inteso come Milan, spero che torni quello di due stagioni fa: ne abbiamo bisogno.
N come Nainggolan. Potevo metterlo anche nella O, come Oggetto misterioso. Misterioso per me, che non mi capacito di cosa possa portare alla nostra causa (che non mi sembra convincerlo molto, ma mi baso sul linguaggio del corpo) (della faccia, più che altro). Oh, poi magari ci stupirà tutti con qualche effetto speciale (vedi Oh).
O come Oh! Un’incursione del Ninja, una punizione da 30 metri di Kolarov, un sorriso di Eriksen, una difesa a quattro schierata da Conte… perché non sognare?
P come Perisic. Il Politano della Pannonia è una doppia sorpresa: 1) non mi aspettavo di rivederlo, 2) non è migliorato nel frattempo. Fargli fare l’intera fascia è come chiedere a Filippo Tortu di correre anche i cinquemila.
Q come Qulo. Licenza poetica per dire che, per ora, non ne abbiamo avuto e generalmente ne abbiamo poco. È un credito che magari non riscuoteremo mai, ma ce la possiamo raccontare tra di noi e bòn.
R come Romelu. L’Uomo che aspettavamo, che è arrivato e ha risolto problemi, come il signor Wolf. Ne avevamo così tanti che siamo più o meno a metà della strada, ma siamo tutti fiduciosi e Lui, Lukaku, è fortissimo, grossissimo, bellissimo e bravissimo.
S come Settantasette. Qualcosa di perverso mi lega a questo centrocampista che ogni anno cerchiamo di vendere al miglior offerente che evidentemente non offre abbastanza (o non offre un cazzo, il che potrebbe minare l’autostima del nostro Epic, ammesso che questi slavi indolenti abbiano un’autostima, questo non lo so). Il minuetto continua: un giorno gli darei il Pallone d’Oro, il giorno dopo una serie di calci in culo (o qulo) da qui a minimo la Dalmazia.
T come Trentatré. D’Ambrosio è il contrario di Brozo: un uomo serio e senza eccessi, senza picchi, affidabile, che dove lo metti sta, e questo capita da sette stagioni e mezzo e più di 200 partite e io gli voglio bene.
U come uno. I punti di distacco dalla Juve lo scorso campionato. Sì, ok, lo sappiamo tutti, è un dato abbastanza fake, ma che ci deve responsabilizzare, ci deve dare una dimensione, una dritta, un impegno morale. Da lì non si torna indietro. Possibilmente.
V come Vidal. Poche balle, era quello che mancava lì in mezzo. Al netto dei duecento ordini di dubbi che possiamo nutrire. Ma non è che dobbiamo continuamente sfracellarci i coglioni, bisogna stargli addosso e fantasticare un po’. Sennò, santa polenta, che noia.
W come wonder. Inteso come Maravilla, se Sanchez è quello del finale della scorsa stagione, ok, va benissimo.
X come X. Il Mister che prenderemo a gennaio. (disclaimer: chiunque spara la qualunque sul mercato, e io chi sono? Il figlio della serva?)
Y come Young. Esperto suona meglio di vecchio, una discreta sicurezza nel nostro futuro a breve, un profilo alto, comunque abbastanza un lusso, diciamolo. Poi non tutti hanno un giocatore che inizia per Y quando devono fare il pagellone della quarta giornata. Grazie Ashley, sgroppa e portarci in paradiso.
Z come Zlatan. Poteva mettere Zhang, ma metto Zlatan a futura memoria. Il rapporto aspettative/rendimento degli acquisti dello scorso gennaio di Inter e Milan ci vede drammaticamente in svantaggio. I due sberloni che ci ha tirato nel derby spero ci abbiano svegliato. Mancano solo 34 giornate alla fine, non c’è poi così tanto tempo.
Io a Google farei anche causa per il fatto che una mail importante è finita nello spam e me ne sono accorto per caso dieci giorni dopo. Causa che perderei, e allora farei ricorso. Ma mi fermo qui, non vorrei sembrare troppo juventino per questo rapporto bulimico con la carta bollata a cazzo. L’importante è, sia pure in ritardo, parlarvi di Enzo, il Berni a pedali (che nei mesi scorsi abbiamo già conosciuto qui), e della sua fantastica impresa conclusa proprio ieri. E soprattutto della buona causa che ne costituiva il motivo principale (oltre alla passione matta per la pedivella e a un interismo viscerale e meravigliosamente nostalgico).
Enzo ha portato a termine ieri il suo ciclopellegrinaggio “Nella terra dei Milito”. Partenza all’alba sabato 10 ottobre dallo stadio di San Siro e, dopo aver attraversato in bici 8 regioni e 20 province, arrivo come previsto (anzi, forse in anticipo) venerdì sera a Terranova da Sibari (Cosenza). Un viaggio di 1.277 fottuti chilometri in 7 giorni (fate voi i conti) che non vi sto a raccontare, perchè lo ha già fatto lui su Facebook e su Instagram. Un viaggio bellissimo, tra le bellezze d’Italia e le festose accoglienza degli Inter club: dategli un’occhiata, davvero fighissimo. Fino ad arrivare al paese di Milito, dove ha incontrato le cugine del Principe e dove gli hanno reso i dovuti onori: chiavi della città, red carpet e un voucher per 42 vergini una volta arrivato in paradiso.
Ma il vero obiettivo non era (solo) percorrere lo Stivale per rendere omaggio all’Uomo della Provvidenza, ma raccogliere 1 € a km per sostenere INTER CAMPUS BOLIVIA, paese particolarmente vicino al nostro amico per aveci pedalato nel 2018 in @PedalAnde4000 (cioè, è uno di quei pazzi che si sfondano di chilometri).Obiettivo che quel satanasso del Berni ha già raggiunto, alla faccia mia e di Gmail che mi ha boicottato il rapporto epistolare. Ma visto che l’impresa è bellissima e la solidarietà non finisce qua, su GoFundMe la raccolta prosegue fino alla fine del mese e, se qualcuno ha piacere, può ancora partecipare. Magari si arriva a 2 euro a km, perchè porsi limiti? Que Viva Enzo!
Era il 9 gennaio del 2010, verso le 16 e 55 su per giù. Sandro Ciotti avrebbe descritto quel pomeriggio calcistico milanese come umido “al limite della sciatica” e con un terreno al limite della praticabilità. Roberto e il Direttore mi avevano aiutato ad arrivare alla balaustra della prima battuta del secondo anello arancio di San Siro ponendomi il braccio per sostenere le mie gambe instabili. La nostra bestia nera, pardon bianconera, il Siena, era clamorosamente sul 3a2 al 43’ del secondo tempo.
Nell’attimo esatto in cui l’arbitro decretò un calcio di punizione in nostro favore da almeno 25 metri dalla porta mi suonò il cellulare. Era Marco, dall’Ospedale Sacco. Era ricoverato dall’ultimo dell’anno e non era messo bene. Grandissimo Interista Milanese, tra i fondatori della “Nord”, era trapiantato a Mariano Comense per amore. Due mesi prima avevamo visto a casa della sua compagna la mitica partita di Champions di Kiev. Una rimonta leggendaria! Quella sera corremmo come il nostro Mister: lui verso i nostri ragazzi e noi sul balcone per gioire. Lo sentii l’ultima volta la mattina di Madrid. Tranquillo, mi disse, ci pensa il Principe stasera.
Torniamo a Inter-Siena. Il nostro folletto olandese Wesley Sneijder fece partire un siluro che scosse la rete senese. Marco dall’urlo della folla comprese, dal suo letto di ospedale, che eravamo sul 3 a 3 ( ovviamente palla al centro ) e mi chiese di restare in linea. Restavano 4 minuti per il “miracolo” sportivo.
Si era creato un feeling che di lì a poco avrebbe portato alla prima svolta per arrivare al Triplete. Tutti avanti per l’Inter. Io, per Marco, mi ero trasformato in un novello Carosio: “Arnautovic al limite, Pandev per Samuel in area, reeeeteeeeeeeee (4-3 al 93’)”. Riuscii, nella bolgia, a salvare il cellulare e Marco fece un urlo che lo fece entrare con noi al secondo anello. Al Sacco arrivarono gli infermieri spaventati dell’urlo di Marco, pensando al peggio. Furono 5 minuti indimenticabili per me e per Marco. Avergli regalato quella grande gioia è stato il mio Triplete! Sempre forza Inter!
(prima che il calcio vero ci fagociti, ho ancora un po’ di cosucce in sospeso. Tipo tre storie di Triplete (anche) merito altrui che ci tengo a pubblicare una dopo l’altra – ecco la terza -. Il mio libretto intanto ha compiuto quattro mesi e si prende ancora la sue soddisfazioni: domenica 13 settembre, ore 23.30, se mamma Rai non ci ripensa – ne avrebbe tutti i diritti, mica sono Nick Hornby -, sarò ospite alla Domenica Sportiva. Praticamente, per me, come la Notte degli Oscar). (Intanto, vi lascio con Marco).
di MARCO G.
Che dire, Settore? L’ho centellinato come si fa con le serie tv su Netflix, che ti piacciono e lo sai che finiscono, e avresti lì tutti gli episodi uno dietro l’altro e invece ne guardi uno per volta, e “tiri lungo” per paura di arrivare alla fine. L’ho finito oggi: ogni partita un sussulto, un’emozione, un ricordo. 10 anni sono tanti, e nonostante mi professi interista sfegatato, in alcuni punti mi sono ritrovato a pensare “Ma davvero è andata cosi?”, come se la vittoria avesse cancellato le fatiche, gli inciampi, le lotte e le difficoltà di quel 2010. Grazie per averci fatto rivivere quel periodo fantastico. In più ci sono i racconti di corsa, ed è stato bello per me leggere di Tokyo e Milano, le tue sensazioni: prima o poi una maratona la faró anche io…
Non posso dire di essere un tifoso come te, sono stato abbonato solo per qualche anno (2004-2008), ho visto allo stadio negli anni ’90 qualche partita con gli amici, ma poi sono stato tifoso da tv piu che altro… ancora oggi una sconfitta dell’Inter pregiudica il mio umore per la giornata, e una vittoria lo migliora all’inverosimile.
Il libro mi è piaciuto un sacco, è divertente, scritto davvero bene, per quanto possa valere il mio giudizio di semplice lettore. Il finale mi ha lasciato senza parole e mi ha fatto commuovere, anche se non conoscevo gli amici che hai perso.
Sono l’unico nerazzurro in una famiglia milanista da generazioni: mio padre, mio nonno, i miei zii, sono ed erano tutti milanisti. Scelsi l’Inter, da piccolo, per non offendere nè il mio migliore amico (che era juventino) nè mio padre milanista. Sono cresciuto a suon di sfottó, a furia di pianti e delusioni. Lo scudo del ’89 e la Coppa Uefa 98 erano i due ricordi che mi portavo dentro da sempre.
Nel 2010 (avevo 32 anni) quel 22 maggio, ero a casa, con mia moglie, e al fischio finale ho pianto come non piangevo da tempo, per la gioia, la tensione, lo stress e la soddisfazione di aver compiuto qualcosa di epico. Mio padre se ne è andato l’anno successivo, nel marzo 2011: aveva 69 anni, non era mai entrato in un ospedale in vita sua. In 3 mesi dalla diagnosi è morto. La mia prima partita allo stadio la vidi con lui: marzo ’87, Inter-Milan 1-2 (Galderisi e Virdis per loro, autogol di Baresi per noi). Avevo 9 anni ed è stata l’unica partita allo stadio assieme. Finito il libro mi sono fermato a pensare a questo ricordo, a cui non pensavo da tantissimo tempo, e per questo ti dico grazie. Ha proprio ragione Moratti: l’Inter è un sentimento.
(prima che il calcio vero ci fagociti, ho ancora un po’ di cosucce in sospeso. Tipo tre storie di Triplete (anche) merito altrui che ci tengo a pubblicare una dopo l’altra – ecco la seconda -. Il mio libretto intanto ha compiuto quattro mesi e si prende ancora la sue soddisfazioni: domenica sera, ore 23.30, se mamma Rai non ci ripensa – ne avrebbe tutti i diritti, mica sono Nick Hornby -, sarò ospite alla Domenica Sportiva. Praticamente, per me, come la Notte degli Oscar). (Intanto, vi lascio con Oannes) (e in coda Enzo).
di OANNES
Bene. Il Libro é arrivato, giusto in tempo per goderselo in spiaggia! Ora provo, modestamente, a restituire a Sector e agli “amici del blog” almeno un millesimo di quel senso di appartenenza e conseguente allegria che da almeno 5 anni (quando io, povero sprovveduto, scoprii Sector da una ricerca Google sull’interismo) mi accompagnano nel sonno.
Mi sto rendendo conto che questa bellissima iniziativa nel nostro Sector, sia anche un modo per conoscerci tra di noi. E allora, pappatevi un po’ della mia storia! Al 2010 ci arrivo!
Nato a Brescia, vissuto altrove/ovunque tra mille peripezie, fino all’approdo di Verona. Tutto ‘sto casino per attraversare una dogana della Serenissima sul Lago di casa! Massimo di nome, ma Oannes per vocazione, nel 2010 pensavo a tutto tranne che ad un Triplete. Calcisticamente un gran pippa, ispirato nel tennis (che é come dire di una ragazza che è “simpatica”) e innamorato, ma sempre scarso al gioco, del baseball (fatemi scrivere “Viva, viva il Beisbol Brescia 96”). Nel 2010 ero ormai in pensione dallo sport agonistico, già annaspavo in quello amatoriale e, pertanto, lo sport da poltrona era il preferito.
Interismo nelle vene fin da bambino, visto che il nonno mi ha lasciato una spilla dell’Inter dei tempi del Mago e mio padre non solo mi raccontò mille volte di quel glorioso 1-9 subito dai gobbi (schierammo la Primavera – con gol di Mazzola, lo sapete tutti – per quello che credo ancora oggi possa essere il gesto più giusto da farsi due volte all’anno per umiliare un sistema gobbo, deridendolo e denunciandolo allo stesso tempo), ma mi mostrò anche la tessere di un “club anti-Juve” cui si sarebbe iscritto via posta negli anni ’60 (il club era di Bari, diceva!).
A San Siro sono stato la prima volta con mio padre che dopo anni trascorsi a vedere dal vivo il povero Brescia, voleva mostrarmi “quella squadra” in “quello stadio”, ma – ripeteva – in assoluta sicurezza. Attendemmo la vittoria dello scudo e alla prima occasione in casa, dopo Inter-Napoli, era la volta di Inter-Atalanta. Biglietti comprati davanti allo stadio (ovviamente non proprio al botteghino) per portarmi al sicuro in primo rosso! Tempo tre minuti e davanti a noi passano tifosi bergamaschi sanguinanti inseguiti dalla polizia! Mi metto nei panni di mio padre 🙂 Poi gioia, record di rigori in una partita di serie A (imbattuto credo) e un 4-2 che sarà il preludio ad altre mie trasferte in terra milanese (sono imbattuto nei derby! seppur ne ho visti solo 3) o altrove. Vanto la presenza con compagni di università al terzo anello nel debutto di Moratti, per quell’Inter-Roma bagnato dalla perla di Yuri!
Il
5 maggio del 2002 ero in Maremma, in giro per siti archeologici, per
evitare di spaccarmi il cuore. Infatti al rientro nella civiltà non
vedevo bandiere nerazzurre in giro e iniziai a preoccuparmi..
Arriviamo al 2010 (finalmente, direte!).
Quell’anno dei gironi vidi solo l’andata con il Barcellona e poi, per scaramanzia, evitai tutte le partite, o meglio organizzai uscite con la ragazza o gli amici pur di non dover soffrire. Ma come tutti, tendevo l’orecchio (mica avevo uno smartphone.. solo un ricevi-SMS, che faceva telefonate) e la sera della trasferta di Kiev accelerai il rientro a casa con la mia ragazza e non appena messo il piede in casa dissi con finto (e malcelato) disinteresse “Beh, dai, fammi vedere come è finita l’Inter!”, speranzoso che non fosse finita. Era il minuto 85 e perdevamo 0-1! Non tolsi nemmeno il giubbino, ero sul divano terrorizzato, immobile e l’esultanza dell’1-2 è tra quelle che più ricordo in vita! Insomma, si va agli ottavi e trascino V. in un pessimo pub della zona stazione di Brescia dove vivevamo per seguire Chelsea- Inter e lì, come tutti, inizio a crederci.
V. doveva trasferirsi qualche mese in Thailandia per lavoro e pensavo tornasse per le semifinali. Invece, appena arriva si scatenano le rivolte delle giubbe rosse, poi il vulcano islandese e a un certo punto, a ridosso della semi di andata, avevo pianificato di andarla a prendere in auto ad Atene, unico scalo aperto in Europa! Per fortuna faccio vagheggi con l’agenzia viaggi e mi assicurano di tenere duro, che sarebbe tornata dopo 7 giorni!
Così l’andata con il Barca é un ritrovo a tre, interisti-colleghi-amici, in casa mia. Tripudio. Il giorno dopo il primo aereo di V. venne cancellato.
Seconda semi, mi cerco altri amici e vado nel covo di Arrigo, con tutti gli amici di Mompracem su un divano. Non mi sono mai seduto. Non dimenticherò mai quella partita. Oggi avrei un infarto. Non so come abbia fatto mio padre a sopravvivere. Ma non avevo tempo in quel momento per pensare a null’altro se non a quello che accadeva a Barcellona! Non riusciva a distrarmi nemmeno un possibile infarto del padre, a 20 km da me, e non avevo nemmeno il tempo per farlo io, un infarto! Ma ve lo immaginate? Perdersi la partita per ambulanza! Sei in rianimazione e chiedi “scus, chi ha fatto palo?” e pam! ti stendono! … no, no, non si poteva…
Intanto, V. perde un secondo volo (annullato), assiste a matrimoni in aeroporto a Bangkok tra le centinaia di bloccati laggiù, e io continuo a non poter nemmeno lontanamente pensare a una trasferta a Madrid. Ero impegnato a progettare la fuga dell’anno successivo: 3 mesi in Sud America per un reportage di archeologia. Soldi per Madrid zero, tempo per quei biglietti meno che zero e, ora che ho avuto qualche esperienza in curva a Verona tra i “curvaioli” dell’Inter, non avrei mai voluto trovarmi in un posto a caso con uno di quelli accanto! E leggendo i post dei nero-blues brothers qui su Sector, credo che a qualcuno sia andata proprio così… piuttosto mi travestivo da venditore di paella-a-porter e uscivo dal mio settore!
Un certo giorno, l’aereo di V., miracolosamente, decolla e tornerà in Italia in tempo per la finale. Dove vedere la partita? Non ero preparato! La mia tensione mi impedisce un rito collettivo. C’è sempre qualche gufo, chi cambia posizione al vantaggio (delitto!), chi la butta in vacca (o lo fa troppo presto)… insomma, alla fine non me la gusto.
Ovvia risposta: da mio padre.
In frigo ha messo un buon Franciacorta (ma non me l’ha detto prima della partita) e abbiamo ripristinato un team che ha funzionato per anni con l’Inter dei record, quella delle coppe Uefa vinte o quasi vinte etc… Nulla di che per tanti, ma speciale per me. Atmosfera giusta. E poi via, con V, in piazza Repubblica a Brescia, dove feci un passaggio solo allo scudo del 1988!
Ora abbiamo due fanciulli di 3 e 5 anni che a colazione mi chiedono di ascoltare “Amala, Pazza Inter amala!”. Spero tra qualche anno di portarli a San Siro. Non in curva. Abrazon para todos!
P.S.: leggo sempre Sector e i commenti di tutti alle 22 di ogni sera, prima di addormentarmi sfatto. Vorrei poter scrivere di più ma a) non sono esperto come molti di voi e b) odio scrivere con il telefonino e quindi mi limito al minimo! Sorry for that!
RUBRICHE CHE CONTINUANO.Piccola appendice anche di “Uomini che piacciono alle donne”. Enzo, già protagonista di questi fortunati amarcord, si rifà vivo per una operazione indubbiamente meritoria: “Ti scrivo ancora una volta per farti partecipe di questa mia creazione artistica e/o pseudo sportiva, che testimonia l’amore che coltivo verso una squadra che raccoglie una moltitudine di ruberie, ops, volevo dire successi, ma “solamente” sul territorio italiano. A questa mia opera in ceramica Raku, antica tecnica giapponese, ho lavorato qualche settimana, fino a quando, ahimè, mi sono reso conto che l’esito finale dell’ultimo tragicomico campionato avrebbe avuto lo stesso esito degli otto precedenti”. Non importa, Enzo: il piegare la tua arte verso queste nobili operazioni culturali non ha prezzo. E vinceremo qualcosa anche noi, prima o poi. Amala! (p.s.: Enzo con 20 allievi sta lavorando al più grande mosaico di ceramica Raku al mondo, con il quale cercherà di entrare nel Guinness nel 2021. La scritta purtroppo non ci sarà, ma per quella avrà sempre la nostra incondizionata ammirazione)
(prima che il calcio vero ci fagociti, ho ancora un po’ di cosucce in sospeso. Tipo tre storie di Triplete (anche) merito altrui che ci tengo a pubblicare una dopo l’altra. Il mio libretto intanto ha compiuto quattro mesi e si prende ancora la sue soddisfazioni: domani sera, venerdì 11 settembre, sarò in un luogo segreto e a un orario imprecisato a presentarlo – Covid, non è che l’hai sempre vinta tu, eh! -. E domenica 13 settembre, ore 23.30, se mamma Rai non ci ripensa – ne avrebbe tutti i diritti, mica sono Nick Hornby -, sarò ospite alla Domenica Sportiva. Praticamente, per me, come la Notte degli Oscar). (Intanto, vi lascio con Francesco) (e poi Federico).
di FRANCESCO D.
Vialetto della scuola, ali di studenti beffardi ai lati, tutti impegnati a urlare prese in giro al mio passaggio: aspettavano solo il mio arrivo, a quanto pare. Io, per non sentire, accelero sui pedali della bicicletta e alzo al massimo il volume del lettore cd. Lettore cd? Be’ sì, siamo negli anni 2000, io ero alle medie… per l’esattezza, era il 2002. Allora il giorno l’avrai già capito, vero? 6 maggio 2002, uno dei lunedì peggiori di sempre per un interista di qualunque età che vada al lavoro, a scuola, ovunque. Fu un giorno tremendo.
Insomma, mi presento, ho 32 anni, sono di Ferrara (non vorrei rubare ad altri la battuta su nebbia, nutrie eccetera, ma in effetti sono l’ennesimo ferrarese che ti scrive: si vede che c’è affinità!) e no, non tifo per la Spal. Sarà che nella mia famiglia di ferrarese non c’è neanche un’astina di DNA, ma per la Spal non provo che uno scialbo affetto distratto e occasionale: sono solo interista, interistissimo. Di quelli più duri, accaniti, intransigenti, che hanno difeso l’Inter anche quando era indifendibile, che si ricordano tutti gli aneddoti e i giocatori, dai più fenomenali ai più orrendi. E sì, ho voglia di contribuire con ciò che ricordo del Triplete!
Ma andiamo con ordine, e pur con qualche fitta torniamo al 2002. Niente, dovetti aspettare, io e tutti quelli che come me non avevano visto lo scudetto del 1989, erano ancora troppo piccoli per le coppe UEFA del ’91 e del ’94 e non gioirono che per quella del 1998. L’attesa ci porta al 2007: finalmente vinciamo lo scudetto sul campo. Quindi okay, risolto, lieto fine?
Macché! Chi di noi si è sentito veramente ripagato da quel campionato da record? O risarcito dal titolo a tavolino dell’anno precedente? Qualcuno forse sì, magari a ragione. Io personalmente no. Per me Calciopoli ha rovinato tutto, tutto, sia prima che dopo il 2006. Prima, sappiamo come; dopo, perché ha infangato e annacquato una vittoria che è parsa scontata, facile, regalata, «senza avversari» (già, perché dal 2013 a oggi di avversari quotati ce ne sono stati, hai voglia…), quando noi avremmo voluto vincere e meritato di vincere in un altro modo.
Poi, ecco il 2010. In quegli anni ero studente universitario e le mie finanze non mi permisero grosse trasferte, perciò i miei racconti non sono avventurosi come altri di questa rubrica: seguii le partite per lo più davanti alla televisione, con fratelli e amici interisti, e fu ugualmente straordinario. Da febbraio a maggio, dal Chelsea al Bayern, ma infiliamoci pure la Dinamo di novembre, i due derby, il gol di Samuel col Siena e sempre col Siena il giorno dello scudetto. Quel giorno – era il mio compleanno – ero in Portogallo e la partita la guardai a Lisbona, con mio fratello e altri amici, in un bar vicino al porto cui implorammo di trasmetterla. E a partita finita, tutti a cantare «José Mourinho – lalalalalàlla», proprio per le strade della regione del Vate di Setúbal!
Fu un sogno. Quando tu (possiamo darci del tu, vero, tra noi…?) e tutti quelli che hanno scritto in queste settimane su Settore dite: «il Triplete è merito mio», credo che abbiate proprio ragione. In quel momento noi eravamo l’Inter, io ero l’Inter, io con amici e famigliari a incastrare impegni e metterci d’accordo per guardare ogni partita di quella spettacolare cavalcata, noi che arrivavamo con l’adrenalina a mille nell’ultimo trittico di partite Roma-Siena-Bayern (ma mettiamoci pure il 4-3 da brivido col Chievo) e stanchi quasi come fossimo stati in campo. Ero proprio io, proprio tu e chi ha scritto qui sopra: eravamo proprio noi! Milito che corre ed esulta agitando le braccia per me è tutto l’interismo che si scrolla di dosso il 2002, i sei gol presi nel derby, l’Helsingborg, l’Alavés, il Villareal, i vari Chievo e qualche Lazio qua e là a rovinare sempre tutto, Vampeta, Pacheco, Pirlo e Seedorf, Lippi, Ronaldo ingrato che se ne va e il sogno mai realizzato di vedere lui, Baggio e Vieri insieme in attacco. Zanetti che piange di gioia cancella lo Zanetti in lacrime per il doppio pareggio europeo col Milan di sette anni prima.
Il calcio avrebbe dovuto fermarsi lì, non c’era più nulla da dire! Invece da dire c’era, perché è continuato, di lì in poi abbiamo visto disastri in serie ma tutto sommato con voglia sempre rinnovata di una nuova stagione in cui riscattarci (Nick Hornby nel suo Fever Pitch – Febbre a 90° – dice qualcosa come: «Per fortuna c’è sempre un’altra stagione», o una roba simile: quanto è vero!). Ritrovarmi a urlare per l’incornata di Vecino a Roma, insieme a sette-otto persone assiepate nel salotto davanti alla tv a scaricare anni di troppe amarezze, mi ha ricordato quanto ci siamo divertiti nel 2010 e, nel contempo, mi ha confermato che il Triplete in fondo non serve. Guai se non ci fosse stato ma, con o senza, l’Inter ci sarebbe comunque, e tifarci è proprio bello. Lo capiranno mai, i tifosi delle altre due, che credendosi furbi dicono: «Ormai vi è rimasto solo il Triplete»?
Piccolo epilogo. Adesso insegno proprio nelle scuole medie e ogni tanto vedo tra gli alunni qualche astuccio, diario o zaino nero e blu e spero di riconoscere in qualcuno di loro – finora senza gran successo – lo stesso interista di belle speranze del 2002, che sia capace di aspettare e di innamorarsi quasi senza accorgersene della squadra più meravigliosa di tutte.
RUBRICHE CHE CONTINUANO.Piccola appendice anche di “Uomini che piacciono alle donne”. Federico mi manda la sua foto avvinto dalla lettura e mi scrive che mi darebbe minimo il Pulitzer: “Il libro l’ho letto di pari passo con l’Europa League e mi è piaciuto moltissimo e quasi quasi speravo che la lettura ci portasse al trionfo (solo le ultime pagine, quelle in memoriam mi hanno messo un po’ di magone, e mi sono chiesto se era giusto finire con un po’ di amaro una storia così esaltante: a noi interisti c’è sempre un qualcosa che ci impedisce di godere fino in fondo, anche nei libri)”. Dopodichè mi scrive dieci righe su Muntari e lo ringrazio: cioè, qualcuno vi ha mai scritto dieci righe su Muntari?
Non era un sogno irraggiungibile. Era un obiettivo raggiungibile, da giocarsi ad armi pari con un avversario tosto. Considerazione che paro paro valeva anche per il Siviglia. E infatti alla fine ha deciso un piede mosso d’istinto, epilogo randomico di una partita spigolosa e non necessariamente bella come lo sono molte finali. Se Lukaku avesse messo il 3-2 in contropiede avremmo urlato a sfinimento e saremmo qui a fare festa senza pensare troppo all’estetica, anzi, forse saremmo ancora sul balcone con le birre e i tricche tracche. Invece Romelu – nella serata in cui eguaglia Ronaldo e allunga il suo record di gol in Europa League – fa il re Mida al contrario e decide (per il Siviglia) l’ultima partita stagionale, quella che ci avrebbe consentito di spolverare la bacheca dopo nove stagioni. Niente, ci sarà qualcosa di simbolico anche in questo: l’Uomo dell’anno diventa per un quarto d’ora un disastro ambulante. Ma ti possiamo solo dire grazie, Romelu, nient’altro.
Il Siviglia vince la sua sesta coppa in sei finali nell’arco di 14 anni, specialista Uefa/Europa League per eccellenza, e forse anche questo ha contato. Non si sono mai persi (noi sì), hanno gestito l’ansia e il nervosismo (noi meno): anche senza strafare potevamo vincere 5-4, abbiamo perso 3-2. E’ il calcio, la palla è rotonda, a volte una rovesciata alla cazzo ti finisce su un piede e vaffanculo.
Si potrebbe rimuginare per ore sulla partita, non fosse che Conte davanti ai microfoni si è lasciato andare alla seconda sparata contro la società nel giro di 20 giorni, stavolta andando anche oltre nei toni drammatici e nei temi. Ha parlato al passato, ha ringraziato, ha detto cose inequivocabili. Ha buttato lì tre o quattro questioni misteriose, qualche frase enigmatica ma inquietante (la famiglia, la famiglia!), e poi tanti saluti. La finale persa con il Siviglia è passata in archivio nel giro di un’ora. Potevamo fare ragionamenti sul giudizio definitivo da dare alla stagione, potevamo organizzarci mentalmente a ripartire da lì, da una finale persa ma pur sempre finale, aria che non respiravamo da un tot. E invece bòn, forse siamo già senza allenatore.
Conte ha aspettato di finire il campionato per fare la prima sparata, e poi di finire la coppa per fare la seconda, probabilmente anche se l’avessimo vinta. Saranno contenti gli anti-contiani e quelli che consideravano una sfregio avere assunto un ex gobbo. A me, in questo momento, deprime un po’ l’idea di dover ricominciare un’altra volta daccapo, o quasi. Al netto di questioni filosofico-sportive generali che rispetto ma non del tutto condivido, e al netto di un suo talebanismo professionale a volte dannoso, a Conte riconosco il merito di averci riportato a un livello decoroso: secondi in campionato e finalisti di Europa League, due cose che non lasceranno traccia negli albi d’oro ma che ci hanno riportato a calcisticamente a galla dopo anni di sprofondo. Adesso, dunque, si ricomincia? A che prezzo? E con chi?
Indietro non si torna, mi veniva da dire fino a un’ora fa. Secondi in campionato, finalisti in Europa League, semifinalisti in Coppa Italia: in mano non ci resta niente ma è una base importante. Adesso torna tutto in discussione. Tra pochi giorni si ricomincia, non c’è la solita estate di mezzo per rimettere insieme i cocci. Vado a dormire amareggiato per la coppa e preoccupato per il futuro. Ci credevo, sentivo che ci avremmo provato seriamente, la sentivo già mia. Sognavo Messi che comprava casa anche a Pavia, così, per starsene un po’ fuori dai coglioni. Neanche una nutria ai piedi del letto mi distrarrà dal fissare il soffitto nella penombra alla ricerca di un’illuminazione e di un perchè. Forza Inter (sospiro).
In due mesi un concentrato di emozioni – le più diverse – che si solito sono contenute in una stagione intera. Il calcio del dopo lockdown è stato questo: irreale e poi quasi normale, avendo fatto il callo all’assenza di pubblico. Incredibile – nel senso di non credibile – e poi incredibile, in quel senso lì. Un tutto, persino troppo, dopo il vuoto assoluto. Due mesi che sembrano due anni, ma sono inconfutabilmente due mesi, 60 giorni, una manciata di settimane.
Due mesi e quattro giorni fa giocavamo un’altra semifinale, quasi impossibile, e mi ricordo – visto che poi l’impresa si era rivelata assolutamente possibile – l’incazzatura per avere rinunciato così a una finale di Coppa Italia contro la Juve, visto che di finali non ne giocavamo da 9 anni. Un mese e mezzo fa ero in Toscana sul cocuzzolo di un colle e mi sputtanavo metà dei giga mensili per vedere Inter-Bologna sul telefonino, in un climax al contrario che mi ha portato ad un passo dal lanciare il Samsung in un altoforno e dal disdire Dazn e lo stesso contratto telefonico fino alla settima generazione, per poi sparire e cibarmi di bacche. Meno di un mese fa giocavamo con la Fiorentina la partita della resa definitiva in campionato, uno 0-0 che – non accadde, ma solo per un eccesso di relax – consegnava lo scudo alla Juve con quattro giornate di anticipo, con la lista degli sprechi che ci faceva roteare gli zebedei a mille.
Proprio con la Fiorentina – alzi la mano chi ci avrebbe giocato 5 euro alla Snai – finiva un’Inter e ne iniziava un’altra. Era il 22 luglio. Del 2020, sì. Non sembra passato un pezzo? Vabbe’, quella sera di 27 giorni fa abbiamo spento la tv e ci siamo coricati guardando il soffitto e pensando che, per il terzo campionato di fila, saremmo probabilmente arrivati quarti. E invece tre vittorie di fila in campionato, secondo posto, miglior risultato dal 2011. E poi tre vittorie di fila in Europa League, finalissima. Non è meraviglioso?
Nelle 10 partite post Bologna (8 vinte e due pareggiate) mettici in mezzo la qualunque – partite ottime, partite discrete e partite demmerda -, compreso un clamoroso sfogo di Antonio Conte le cui conseguenze non sono ancora del tutto definite. Sta di fatto che, tirando le somme, la nostra stagione si protrarrà fino al 21 agosto (quasi un anno da quando era iniziata, Inter-Lecce 4-0, 26 agosto 2019) per giocarci una finale (non capitava da nove anni) europea (non capitava dal 2010, dal Triplete).
Ogni altra considerazione, prospettiva, previsione ecc. ecc. sarebbe in questo momento del tutto fuori luogo. E dire quanto siamo stati bravi buoni e belli contro il Botafogo Donetz potrebbe essere un onanismo a perdere. Fermiamoci qua e ricarichiamo per l’ultima volta le pile. A definire la stagione dell’Inter manca ancora una partita, e i bilanci si tireranno solo venerdì notte. Resta solo da fare una cosa: ringraziare i ragazzi per avere protratto le nostre emozioni fino al penultimo giorno disponibile e avvertire Christopher Nolan che questo tempo denso e compresso della stagione Covid meriterebbe una sceneggiatura delle sue.
Nella settima stagione di onorata attività, ai Gufi è toccata un’esperienza nuova: la gufata d’agosto. Aduso a esperienze invernali, primaverili e tardo primaverili, con qualche raro e stravolgente sconfinamento a giugno, il manipolo di coraggiosi antijuventini si è così dato appuntamento nella prestigiosa location baronale con un dress code del tutto inedito: viveri, bermuda e ascella pezzata. Del resto l’impresa che aspettava gli intrepidi controtifatori era tra le più ardue: sopportare una temperatura di 92 gradi Fahrenheit e sostenere appassionatamente il Lione (settimo nel campionato francese, cioè una chiavica) contro la Ronalda, squadra in maglia bianconera composta da un allenatore a caso e dieci giocatori a caso, più Lui, l’Uomo che salta più in alto di Fosbury.
Le premesse non erano delle migliori. Del gruppo di soci fondatori, reduce dalla stepitosa serata del 2019 con l’Ajax, bruciava la prima storica rinuncia di Er Monezza, in vacanza nei mari del Sud. Così come il nostro cappellano, er Pagnolada, ci mandava una cartolina da una località lontana confidando nella nostra comprensione e assicurando la sua intercessione con l’Altissimo.
Rispondevano invece alla chiama del ct Er Pomata gli altri componenti del Bilderberg della gufata: Er Condominio, Er Quadricipite e il qui presente Er Blogghe. All’appuntamento si aggiungevano via via alcune vecchie conoscenze: i fratelli M., i Dalton dell’interismo, giunti dal Piacentino, e lo Scudiero der Condominio, giunto dal Comasco dopo lungo e periglioso viaggio.
Come i re Magi, ognuno porta un dono ar Pomata: io una torta, Er Condominio e lo Scudiero un paio di meloni, Er Quadricipite un vino trasportato in una curiosa borsa termica che lo fa assomigliare a Jesus Quintana del Grande Lebowski, e i Dalton quattro pizze che mettono sul tavolo e, intortando gli altri ospiti con aneddoti e valutazioni immobiliari, si mangiano praticamente da soli lodando il pizzaiolo, dicendo Juve merda e liberando un sonoro rutto finale in Dolby stereo.
Al fischio di inizio ci scheriamo intorno alla tv cercando le migliori posizioni scaramantiche. Er Pomata posiziona gufi in ogni angolo della sala e, custodito in un prezioso scrigno, porta a Er Quadricipite lo stuzzicadenti che aveva in bocca nel 2014, quando tutto iniziò (qui la storia completa delle gufate). Breve cerimonia di consegna. Si può iniziare.
Nell’aria c’è quella puerile serenità delle occasioni migliori: nessuno crede all’impresa del Lione, ma ci spera da morire. E così, quando un imprevisto allineamento di pianeti vede la Juve subire un rigore e il rigorista metterlo con un cucchiaio, nel salone delle festa scoppia, appunto, la festa.
“Gaaaaaaaaaaaaaa”
fanno i bimbi in coro, mentre Er Pomata comincia a urlare frasi sconnesse. Anzi, una frase sconnessa: “Er Cucchiaio, ahahahah, er Cucchiaio, ahahahah”, ripetuto in loop per una dozzina di minuti. Finchè, a metà del primo tempo, un primo piano del regista toglie l’uso della parola a Er Pomata.
Maxence Caqueret. Una strana creatura a metà tra Rodolfo Valentino e Attilio Fontana. Da tempo non si vedeva un uomo così pettinato in campo. Una cofana perfetta, chili di gel sparsi con sapienza. Er Pomata sprofonda in una crisi tipo invidia del pene. Continua ad alzarsi e ad andare in bagno a specchiarsi. “Non è possibile”, mormora accarezzandosi la chioma ed eseguendo alcuni ritocchi con un puntatore laser.
Quando torna al suo posto, in un atmosfera di lassismo generale, cede al nervosismo e perde il controllo: “Metti via quel cazzo di telefonino, tu al cesso ci vai quando te lo dico io, concentratevi!”. Quando il Divino sigla il pareggio trasformando il più orribilmente fantasioso dei rigori, sul salone cala una cappa di sana realismo. Ma la Juve, insomma, ne deve per sempre fare ancora due.
I 15 minuti di intervallo servono ai Dalton per affettare i due meloni, facendone sparire alcune fette. Ma nessuno mangia, il nervosismo monta e quando CR7 la mette dal limite lo spettro della remuntada inizia a incombere sulla variopinta compagnia. Però è la Juve che ci toglie dall’imbarazzo: con 30 minuti ancora a disposizione per fare qualsiasi cosa, ecco, non fa più un cazzo. Non c’è nemmeno gusto a gufare così. Ma alla fine, come rituale vuole, è festa, nonostante una Juve che non aveva bisogno di gufate. Non ci tradisce mai, ormai le siamo quasi affezionati.
(rumore di tuoni)
“Niente ragazzi, scusate, un pensiero così. Leviamo i calici, Juve merda!”, dico mentre riprendono le libagiorni. La gufata in epoca Covid ha così termine in un clima da festa delle medie. La nostra settima stagione finisce così, in gloria, come le precedenti sei. Albo d’oro: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real, 2018 Real, 2019 Ajax, 2020 Lione. Un pugno di uomini, una grande missione.