The Martian

Se un marziano fosse atterrato sulla Terra tipo lo scorso dicembre, fosse stato invitato dalla Federcalcio a vedere giocare l’Inter e la Juve per conoscere lo sport nazionale, poi fosse tornato su Marte per le vacanze di Natale, poi fosse stato trattenuto a lungo da altri impegni ma fosse di nuovo atterrato ieri sulla Terra, e saputolo la Federcalcio gli avesse trovato al volo un posto al Carta Stagnola Stadium per vedere di nuovo la Juve e l’Inter stavolta nella stessa partita, beh, il marziano dopo qualche minuto di sconcerto si sarebbe rivolto al tizio seduto di fianco (così preso dalla partita da non accorgersi che il suo vicino di posto è un marziano, cioè, tipo con la testa grossa e la pelle verde, robe così) e gli avrebbe chiesto:

“Scusa capo, ma io ero rimasto che quelli vestiti come l’Ascoli facevano ca-ca-re a nastro e quelli pitonati nerazzurri erano la compagine più brillante dell’universo da voi conosciuto. Com’è che adesso l’imitazione del Newcastle sembra addirittura una squadra e i pitonati, se mi posso permettere, fanno veramente schifo al cazzo?”

Al che il tizio, senza distogliere lo sguardo dal campo, gli avrebbe risposto:

“Ma che minchia ne so, amico mio. Io sono qui solo a gridare Merda quando rinvia il portiere, il resto non mi interessa”.

Comunque, le perplessità del marziano sono state anche le mie nel corso di una delle partite più paradossali a cui abbia mai assistito, paradossale nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze dirette e indirette, così paradossale che ho visto l’Inter giocare davvero la partita che tutti abbiamo sognato almeno una volta nella vita – vincere a Torino con la Juve giocando di merda, senza praticamente fare un tiro in porta, loro due pali e noi zero, loro 8 corner e noi 1, con un rigore della categoria “rigorini” fatto pure ripetere, loro che poi si buttano a ripetizione e l’arbitro li fa alzare – e sinceramente non so se goderne come un riccio nella stagione dell’amore o preoccuparmi come un riccio ai bordi della tangenziale.

Cioè, roba che il marziano potrebbe tornare su Marte e relazionare che il calcio è uno sport bizzarro e profondamente ingiusto, specialmente con la Juve (e vaglielo a spiegare che la Federcalcio lo ha invitato a vedere la partita meno attendibile degli ultimi 120 anni).

Ricapitolando.

a) Vincere così a Torino è fantastico. Grazie ragazzi, avete reso realtà i nostri sogni più arditi. Viva l’Inter, viva il calcio, viva lo sport, Juve merda.

b) L’imbruttimento dell’Inter esce sostanzialmente rafforzato dalla partita di Torino. Sì, è ufficiale: siamo involuti, siamo peggiorati, siamo irriconoscibili rispetto a tre o quattro mesi fa. Quando avremo finito di brindare a questa straordinaria serata – che come effetto accessorio ha quello di ricacciare indietro forse definitivamente una squadraccia che non perdeva da più di quattro mesi (in campionato, eh?) – ci toccherà chiederci quanto sia lecito aspettarci dai nostri eroi. Perchè qualche volta ti può andare bene, ma non sempre.

Sono mesi (diciamo due mesi) che aspettiamo la svolta ogni settimana. Aspettiamo una vittoria benefica, una partita liberatoria, una pausa ristoratrice. Un cazzo. Dopo il poker di partite tritatutto di inizio febbraio non siamo più stati noi, se non per due vittorie inutili – Liverpool e Salernitana. Stanchi, nervosi, scarichi. Avevamo il campionato in mano e lo abbiamo consegnato ad altri (perchè mica ce lo hanno scippato, abbiamo fatto tutto noi).

La clamorosa vittoria in casa della Juve, con tutte le caratteristiche migliori che potesse avere (immeritata, imprevista, illogica), in teoria potrebbe davvero essere la partita della svolta, l’ultima, in extremis, visto che ne mancano solo otto e il tempo stringe. Potevamo essere quarti e invece toh!, siamo ancora lassù, rilanciati dalla vittoria nello scontro diretto oggettivamente più difficile di tutti, quello che non vinciamo quasi mai.

Quasi.

Meritavamo cento altre volte, e invece lo abbiamo fatto così, tipo sberleffo, una sciccheria concettuale. Io sono come il marziano, non ci capisco più un cazzo. Dico solo, sommessamente, che vittorie così sono un segno. Ci hanno regalato una chance, non buttiamola via. Un mese e mezzo pancia a terra, chiedo solo questo. Il resto, si vedrà.

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No Ashleigh, no Barty

Ma cosa farei io se l’Inter si ritirasse? Cioè, se una mattina accendessi la tv e vedessi scorrere nel sottopancia la notizia che l’Inter si è ritirata dal calcio, basta, non gioca più perchè Suning ha deciso che ha dato tutto e inseguirà altri sogni?

Altri sogni?

Cioè, scusate: e i miei, di sogni? Io penso che resterei sbalordito per alcuni giorni, ma sbalordito di brutto, e poi smetterei col calcio anch’io. Cioè, cosa guardo se non c’è l’Inter? Sì, vabbe’, la Champions, i Mondiali, sì, certo, forse. Ma nel quotidiano, dico. Un quotidiano senza Inter. No. Mi vedo assorto davanti alla tv mentre scorrono le immagini di un Empoli-Salernitana, tipo un sabato alle 15. Un pallone che rotola, maglie esogene al mio organismo, uno sport senza alcun senso. No. Chiamo Sky, chiamo Dazn, chiamo Amnesty, disdico tutto (disdire: operazione tecnicamente più difficile di ritirarsi per inseguire altri sogni).

La turpe fantasia mi è stata indotta dalla notizia del ritiro di Ashleigh Barty, numero 1 del tennis femminile che a 25 anni, quasi 26, decide che bòn, basta così. Ho pensato ai già abbastanza disperati fan del tennis femminile: e adesso? Cosa faranno, cosa disdiranno? Ashleigh Barty non era solo la numero 1 della classifica Wta, ma una delle poche (forse l’unica) tenniste “guardabili” in uno sport sprofondato in una omologazione spaventosa: tutte uguali, pum-pum!, che le distingui giusto se sono brune o sono bionde, il resto è una melassa indistinta di botte spaventose, rovesci a due mani, rarissime discese a rete (solo per necessità), creatività vicina allo zero.

Ashleigh Barty si ritira pochi giorni prima di compiere 26 anni, nel pieno della sua attività e delle sue forze, da 115 settimane numero 1 e con la prospettiva di rimanerlo per chissà quanto ancora. Numero 1 predestinata non necessariamente per il suo valore (molto elevato parametrato al panorama 2022, non saprei dire parametrato a 10 o 20 anni fa) ma per la generale mediocrità delle sue colleghe. Cioè si ritira invece che passare all’incasso, e questo me la rende simpatica. Incomprensibile, ma simpatica.

In fondo, decide di non giocare più al gioco in cui è la più forte di tutte. Siccome si era già ritirata una volta da ragazzina (per giocare a cricket, tzè), mi piace pensare che per prima cosa voglia sfuggire la noia. E anche un gioco in cui vinci (quasi) sempre è noioso. Ashleigh Barty è incontrastata numero 1 (una delle quattro tenniste della storia a chiudere per almeno 3 anni l’anno prima in classifica, i nomi di chi l’ha preceduta sono immani) senza nemmeno sprecarsi troppo, vincendo “solo” tre Slam in quasi quattro anni. Che rende l’idea della noia. Di una certa noia, almeno.

La cosa più importante (vincere Wimbledon, il suo sogno da sempre) l’ha fatta. Due mesi fa ha vinto anche il “suo” Slam, l’Australian Open. E quindi stop, si ferma qui, perchè il tennis – fatte queste cose – è sostanzialmente noioso. Non per colpa sua, una delle rare tenniste di oggi a dare qualche sfumatura antica al pum-pum. Ma per colpa delle altre, fatte con lo stampino.

Agassi ha spiegato cosa vuol dire odiare lo sport: lui ha sopportato fino al limite possibile, fino a quella cruenta seduta di fisioterapia con cui apre il suo libro, la tortura seguita alla sua penultima partita. La Barty, secondo me, ci regala un altro prezioso insegnamento: se ti annoi, (se puoi) cambia, cambia finchè sei in tempo. E’ da privilegiati, certo, poter cambiare se ci si annoia. Figuriamoci annoiarsi e ritirarsi da numero 1 del tennis femminile (non me la vedo fare la fame. Anzi, me la vedo probabilmente ripensarci tra un annetto o due, quando le verrà la tentazione di ributtarsi nel solito pum-pum che lei sa scardinare con qualche back di rovescio o attaccando un po’), però queste decisioni apparentemente insensate e sottilmente clamorose hanno il loro maledetto fascino, in un mondo in cui nessuno rinuncia alla poltrona, qualunque essa sia.

Il tennis femminile è così svalutato che il solo ritiro della Barty ha l’effetto che avrebbe il contemporaneo ritiro (annunciato in blocco, non a rate) di Djokovic, Nadal, Federer, Murray, Berrettini, Fognini e Nick Kyrgios nel tennis maschile (Sinner è troppo pum-pum), un terremoto che avrebbe effesti nefasti per decenni.

Comunque sticazzi: ciao ciao Ash, solo se si ritirasse l’Inter sarebbe una catastrofe, altrochè. Non ci voglio pensare. Se invece chiudessero la Juve per reati finanziari aggravati e continuati, giuro che mi vedrei in loop un intero torneo di tennis femminile, con precedenza alle giocatrici con desinenza in -ova, le più noiose in assoluto. Un fioretto che tutti dovremmo fare – ova!-ova! – per un obiettivo così importante e denso di significato.

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We all guf in a yellow submarine

Cioè, voi magari ancora pensate che gufare la Juve sia un simpatico e innocuo rituale collettivo. Col cazzo. Le gufate, per esempio, hanno pesanti implicazioni psico-alimentari. Più vicino è il possibile obiettivo della Juve, e più prestigioso è il confronto sul campo, e più ai gufi si chiude lo stomaco. Per dire, la sera delle finali della Juve con il Barcellona e il Real ci siamo nutriti con un apposito sondino. Potete quindi capire, al contrario, come la vigilia di un ottavo di finale con il Villarreal – livello di appeal: film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco – sia stata più che altro dedicata al catering.

Verso la reale magione der Pomata, che aveva preparato il classico buffet pre-partita (salame, vino, formaggio, pane, patatine) nel soggiorno della servitù, i quattro gufi di turno hanno quindi portato i loro doni: Er Monnezza si presenta con un sontuoso paniere lucano contenente salsiccia pezzente, pecorino e biscotti alle mandorle; Er Matita (che, con sprezzo del pericolo, si presenta per la la prima volta a un turno ancora molto preliminare) porta una squisita torta al cacao e cocco fatta in casa bullizzando la moglie: e io, Er Blogghe, impermeabile a ogni scaramanzia, un prosecco da brindisi. Er Condominio si palesa penosamente a mani vuote, ma per l’effetto sorpresa – arriva in clamoroso anticipo invece che a metà del primo tempo – nessuno se ne accorge.

Per non lasciare nulla di intentato, i gufi hanno assecondato la bizzarra richiesta del padrone di casa: dress code, indossare qualcosa di giallo. Io ed Er Pomata sfoggiamo un cachemirino da ragazzi attempati. Er Monnezza una nostra seconda o terza maglia d’epoca. Er Matita (“scusatemi, non avevo altro”) un’improbabile tela cerata modello preliminari di America’s Cup. Er Condominio una maglietta nera con scritte gialle: a suo dire, l’unico indumento con qualcosa di giallo trovato nel suo guardaroba.

Livello di concentrazione: pari o minore di zero. Er Pomata si lascia andare a una domanda – “Scusa, ma giocano alle 20,45 o alle 21?” – che in altri tempi sarebbe stata accolta con fischi e sassaiole. Ma non è serata da isterie, anzi. I cinque gufi delegati alla gufata di Juve-Villarreal prendono comodamente posto intorno alla tavola (altro effetto delle vigilie più difficili è che si mangia in piedi, passeggiando nervosamente e guardando l’orologio) e parlano del più e del meno – guerra in Ucraina, rinnovi contrattuali Inter, caro benzina, meteo, figa – fino alle 20,57 quando in fila indiana si dirigono verso il salone delle feste, dove l’immane televisore der Pomata sembra avere acquistato pollici in più durante il periodo Covid.

Covid, già. L’ultima gufata – Juve-Porto – l’avevamo fatta in dad, la penultima – Juve-Lione – in pieno agosto. Bene: siamo tornati nella datazione giusta e nel posto giusto. Sullo schermo scorre la formazione del Villarreal e io confesso ad alta voce: “Oh, a parte l’allenatore, non ne conosco uno”. Dall’altro capo della sala Er Monnezza mi dà ragione: “Nemmeno io, li hanno presi dalla strada”. Al che si alza e urla: “Juve merda!”. Er Pomata intanto gira per il salone con il gufo reale in ceramica e peltro, che baciamo in fronte come vuole il rito. Poi si siede con in mano lo scettro. Partiti!

Il primo tempo trascorre veloce tra gli spaventi che ci provoca Vlahovic e le soddisfazioni che ci regala il nostro nuovo eroe, Geronimo Rulli. “Ma se gli diamo Handanovic, Radu, Cordaz, Berni, Carini e Orlandoni più conguaglio, non lo possiamo prendere noi?” osserva Er Matita versione Ausilio proprio mentre il Villarreal ha l’unica occasione del primo tempo. Er Monnezza segue il tiraggiro di Lo Celso gettandosi a corpo morto sul prezioso bukhara der Pomata, esalando un rantolo e rimanendo a terra in apparente stato di coma tipo Cuadrado. “Argh, la forbicina!”.

C’è un attimo di silenzio. Mentre si contorce per il dolore, Er Monnezza ci informa tra ululati e onomatopee che la forbicina portafortuna che porta in tasca dalla prima gufata (2014, Juve-Benfica) gli ha trafitto una coscia. A Er Pomata si illuminano gli occhi: “Ottimo! Era già successo nella gufata del 2019, quella meravigliosa serata con l’Ajax”. “Sì, occhei – piagnucola Er Monnezza – ma mi si è riaperta l’arteria femorale e se tu potessi chiamare il 118 potrei sopravvivere al probabile dissanguamento e partecipare ad altre…”. “No dai, porta bene. Resisti, poi chiamo la veterinaria che sta qui vicino”. “Ma io…”. “Porta bene, non rompere i coglioni”.

Nell’intervallo, mentre Er Monnezza si ritira in bagno usando l’auricolare come laccio emostatico, finiamo la seconda bonarda “Cassandra” (nome scelto non a caso dar Pomata) e facciamo il punto della situazione. “Vabbe’, stiamo a vedere (sbadiglio)”. Ci riposizioniamo davanti al mega-schermo e assistiamo annoiati alla guerra di posizione del secondo tempo, dove due squadracce si schierano con un 6-3-1 e si organizzano mentalmente per i supplementari. A un certo punto, senza alcuna ragione, nel silenzo più assoluto, Er Condominio – forse per dominare un potente abbiocco – chiede:

“Ma Eugenio Fascetti è vivo o morto?”

Gelo. Er Pomata lo fulmina: “Ma che cazzo dici? Stai concentrato, mancano ancora 13 minuti più recupero, siamo nel pieno di una gufata e tu ci caghi il…”. Rigore. Forte brusio. Va sul dischetto Moreno, che in una vita precedente si esibiva con il pupazzo Rockefeller. Tiro. Gol.

Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.

Salti, urla, strepiti, insulti, rumori corporali. La scena si ripeterà altre due volte nei successivi 13 minuti, in un crescendo di meravigliosa incredulità. Al terzo gol, Er Pomata inseririsce una musicassetta acquistata in un autogrill nel 1975 in uno stereo portatile modello break dance anni ’90, alzando il volume a palla:

In the town where I was born
Lived a man who sailed to sea
And he told us of his life
In the land of submarines

“Ragazzi, facciamo il trenino! -urla Er Monnezza – Il trenino del Bari del ’94!”.

E fu così che cinque gufi, di cui quattro over 50, cantando “Yellow submarine” si mettono a fare il trenino sulle ginocchia nel salone delle feste.

We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submaaaaaargh

“Cosa c’è?”

“Mi si è riaperta la falla nell’arteria femorale. Ti spiace se chiamo l’elisoccorso e mi faccio portare con sollecitudine a…”

“Ancora rompi il cazzo? Porta bene! Weee aaaall liiiive”

in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine

La serata termina con un ultimo assalto al buffet e abbondanti libagioni. Come al solito tocca a me aggiornare l’albo d’oro dei Gufi: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real, 2018 Real, 2019 Ajax, 2020 Lione, 2021 (in Dad) Porto, 2022 Villarreal. Per il terzo anno consecutivo è bastata una gufata one shot. Non c’è più la Juve di una volta, oppure siamo noi che le meniamo una rogna da far paura? Appuntamento al 2023. Non è facendovi eliminare subito, gobbacci maledetti, che ci farete desistere dal perseguitarvi.

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Buon riposo

Milan 17, Napoli 14, Juventus 14, Sassuolo 14, Lazio 13, Fiorentina 11, Roma 10, Genoa 9, Udinese 9, Verona 8, Cagliari 8, Inter 7, Bologna 6, Sampdoria 6, Atalanta 5, Salernitana 5, Spezia 4, Venezia 4, Empoli 3, Torino 3.

E’ la classifica (senza le partite di domenica 20: quindi Juve e Atalanta ne hanno una in meno) delle sette partite di campionato che si sono giocate nei mesi di febbraio e marzo. Abbiamo fatto la metà dei punti del Sassuolo, ne abbiamo fatti meno anche di Genoa e Cagliari, due delle ultime quattro della classifica. Abbiamo fatto 10 punti meno del Milan e, probabilmente, della Juve. Sette meno del Napoli. Il Torino, con cui abbiamo pareggiato al 93′, è ultimo in classifica: non vince dal 16 gennaio.

E se uno dei luoghi comuni del nostro calcio – “la stagione si decide tra febbraio e marzo” – come tutti i luoghi comuni ha un suo solido fondo di verità, dovremmo concludere che siamo fottuti. Nei due mesi decisivi della stagione abbiamo fatto 7 punti in 7 partite in campionato, siamo usciti dalla Champions e siamo più fuori che dentro in Coppa Italia. Due mesi terribili – solo 43 giorni, in realtà, dal 5 febbraio al 19 marzo – in cui abbiamo giocato 11 partite vincendone solo 3, pareggiandone 5 e perdendone 3.

Inter-Fiorentina non si è discostata granchè, purtroppo, dal copione dell’ultimo mese. Stanchi? Di sicuro più del Milan, che ha giocato tre partite in meno. Ma le altre, più o meno, sono al nostro livello. Laceri e contusi? Beh, altre squadre potrebbero lamentarsi molto più di noi (e hanno fatto molti più punti di noi). Stressati? Parecchio, questo sì. Intristiti? Molto, non siamo più quelli che scorrazzavano felici sul prato fino a un paio di mesi fa.

Aspettavo con ansia la pausa di campionato, convinto di una cosa: si torna in campo ad aprile, un po’ più livellati dal riposo, con la mente un po’ più sgombra, e magari anche più entusiasti di iniziare lo sprint finale senza più scuse o distrazioni. I problemi però sono due: a) sarebbe stato meglio arrivare alla pausa con qualche punto in più; b) sarebbe stato meglio non trovare subito la Juve.

Alla giornata 23, fine gennaio, battuto il Venezia, con una partita in meno avevamo 4 punti di vantaggio su Milan e Napoli e 11 sulla Juve. Alla giornata 31, settanta giorni dopo, andremo a Torino a giocare un match apocalittico, che protrebbe rilanciarci o farci sprofondare al quarto posto, non ci sono cazzi. In questo senso sì, la pausa cade a proposito. Abbiamo una settimana in più per ricucire i brandelli e ritrovare un po’ di garra. Aprile potrebbe essere un buon inizio o una pessima fine. I gobbi non ci faranno sconti. Ergo: se non ci diamo una mossa, l’operazione seconda stella finirà così brutalmente che Caporetto, al confronto, è un rave party.

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A day in the life

And though the news was rather sad

well, I just had to laugh

Per passare sarebbe servito un miracolo, un bonus cui forse non potevamo avere diritto dopo i tre pali del Liverpool. Ma anche vincere ad Anfield (per la prima volta nella nostra storia) è stato un piccolo miracolo, in dieci per più di mezz’ora, senza Barella, senza De Vrij, senza Brozo negli ultimi 20′, con Vecino, Gagliardini, Vidal, D’Ambrosio e Correa in campo, cioè cinque riserve su dieci. Ed è stata una mezz’ora emozionante, perchè di riffa o di raffa ce la siamo giocata fino al 95′, senza mai smettere di crederci. Quando l’arbitro ha fischiato la fine, qualche giocatore del Liverpool ha esultato. Il che la dice lunga.

Ora, non è il caso di fare troppa epica su una eliminazione agli ottavi di Champions che mandiamo giù con lo zuccherino di un successo inutile ma storico e comunque bello, perchè vincere ad Anfield è bello, battere il Liverpool in trasferta (là dove perdono pochissimo) è bello, poche storie. Anche quest’anno salutiamo l’Europa con un certo anticipo, condannati in premessa da un sorteggio di merda (era meglio l’Ajax). Ma le due partite con il Liverpool ci rimettono al nostro posto, là in alto, tra le big. Due partite così ci confermano che sì, ci possiamo stare. Il Liverpool è più forte di noi e ha una rosa il doppio della nostra. Ma gli abbiamo fatto trascorrere 165′ minuti che forse nemmeno loro si aspettavano. Peccato per gli ultimi 15′ di San Siro, un po’ di sfiga e un po’ di mollezza, in un attimo svaniscono i sogni, specie se non sei più abituato ad averne di così.

I tre pali del Liverpool (più due salvataggi strappamutande) compensano il rimpianto per una partita che poteva anche andare meglio e quei 120 secondi di pensieri stupendi tra il gol di Lautaro e l’espulsione di Sanchez, quando tutti ci siamo detti “Wow! Perché no?” sognando l’impossibile. 120 secondi lisergici cui sono comunque seguiti 30 minuti consapevoli e ruvidi. Giusto quella ruvida consapevolezza che ci dovrà guidare nelle undici partite che rimangono del campionato, più una (e magari due) di Coppa. L’Inter ad Anfield si è assunta una bella responsabilità: noi siamo questi. Dieci giorni fa vagolavamo per Marassi, poche ore fa sguainavamo gli zebedei a Liverpool. Noi tifosotti diamo per assodata la svolta. Indietro non si torna (si dice così, no?)

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Il mistero (mai risolto) degli scontri diretti

Pareggi (9): Inter-Atalanta 2-2, Inter-Juve 1-1, Milan-Inter 1-1, Napoli-Inter 1-1, Juve-Milan 1-1, Atalanta-Inter 0-0, Atalanta-Juve 1-1, Milan-Juve 0-0, Juve-Napoli 1-1

No pareggi (8): Napoli-Juve 2-1, Milan-Napoli 0-1, Juve-Atalanta 0-1, Napoli-Atalanta 2-3, Atalanta-Milan 2-3, Inter-Napoli 3-2, Inter-Milan 1-2, Napoli-Milan 0-1

Da disputare (3): Juve-Inter, Atalanta-Napoli, Milan-Atalanta

Milan 12 7 3/3/1

Atalanta 9 6 2/3/1

Inter 8 7 1/5/1

Napoli 8 7 2/2/3

Juve 5 7 0/5/2

Lo scudetto si vince negli scontri diretti o, al contrario, nelle altre partite (specie quelle con le piccole)? Quando – e succede ogni stagione – arrivo a prendere una posizione su questa annosa questione, succedono due cose: o mi smentiscono i fatti, o mi smentiscono gli interlocutori. Al che mi presento alla successiva stagione con il mio orientamento ricalibrato, tutto fiero di aver saputo cambiare idea – cioè, di non essere stolto -, e quando si viene al dunque mi accorgo che sostanzialmente accadono due cose: o mi rismentiscono i fatti, o mi rismentiscono gli interlocutori.

Vabbe’, ma chi se ne frega? Questa discussione rimarrà irrisolta all’infinito (è il suo bello) e l’unica cosa che posso fare è prendere due appunti – li ho messi in bella lì sopra – e interpretarli secondo l’unico altro dato oggettivo, la classifica della serie A a dieci/undici giornate dalla fine: Milan 60 (28), Inter 58 (27), Napoli 57 (28), Juve 53 (28), Atalanta 47 (27). E quindi: lo scudetto si vince negli scontri diretti o nelle altre partite?

La classifica avulsa degli scontri diretti tra le prime 5 (considero quinta l’Atalanta perchè ha una partita in meno rispetto alla Roma e perché sin da agosto fa parte del quintetto di squadre favorite per i quattro posti di Champions) suggerisce tutto e il contrario di tutto. Vincendo gli ultimi due scontri diretti il Milan ha sparigliato le carte e ha preso il volo: il Milan – con una partita in più – è anche in testa al campionato, e quindi verrebbe da concludere che sì, gli scontri diretti è molto produttivo vincerli. Ma colpisce che l’Atalanta, che ne deve giocare ancora due, è molto ben piazzata e se vincesse a Milano vincerebbe lo scudettino degli scontri diretti. Eppure nella classifica vera è quinta e pure lontanuccia (11 punti meno di noi a parità di partite). Quindi, considerando il caso Atalanta, verrebbe da concludere che no, gli scontri diretti non contano un cazzo se nelle altre partite lasci per strada carrettate di punti.

A rileggere i risultati dei 17 scontri diretti disputati fin qui, le considerazioni sono però anche altre. Più di metà, nove, sono finiti in parità. E degli otto finiti non-in-parità è curioso osservare come per sei volte abbia vinto la squadra in trasferta. Insomma, tra queste cinque squadre regna l’equilibrio. E se l’Inter avesse portato a casa un derby già vinto, la classifica avulsa sarebbe anche più corta. Certo, avessimo portato a casa il derby ora staremmo scrivendo al questore di Milano per concordare il percorso del pullman scoperto. E invece guarda tu che casino. Del resto, abbiamo vinto un solo scontro diretto su sette. Ne abbiamo perso solo uno, occhei, ma pareggiandone cinque non abbiamo mai dato la spallata decisiva.

Dunque, se è vero che tra le cinque regna l’equilibrio, vuol forse dire che più degli scontri diretti pesano le altre partite. In cui l’Inter ha fatto un pochino meglio del Milan. E in cui la Juve, che negli scontri diretti ha fatto cagare, ha invece reso più di tutti. In fondo il livello del campionato italiano lo possiamo anche desumere da questo: che tra le squadre di vertice c’è un sostanziale livellamento (un pochino verso il basso) e che la orripilante Juve di Allegri è ancora lì che se la gioca. Alla quarta giornata la classifica diceva Napoli 12, Inter e Milan 10, Juventus 2. Togli le prime quattro giornate (la Juve incontrò Udinese, Napoli, Empoli e Milan) e la Juve, tra bassi e alti, ha avuto lo stesso rendimento delle altre.

Alla fine di tutto questo ragionamento, mi sovvengono due considerazioni: a) non potrei giurare se gli scontri diretti in sè contino più delle altre partite; b) sono due scontri diretti – il derby buttato via, il pari con la Juve con un rigore all’87’ che non doveva essere fischiato – a condizionare il campionato dell’Inter. Due finali di partita in cui hanno cambiato destinazione così tanti punti che, porca miseria, speriamo di non dovercene pentire in eterno.

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La grande imbruttimentezza

Non c’è alcun dubbio che il bilancio del febbraio dell’Inter (6 partite, 1 vinta, 2 pareggiate, 3 perse, 4 gol fatti, 7 gol subiti, 2 punti nelle ultime 4 di campionato – Milan e Napoli ne hanno fatti 8) sia oggettivamente disastroso. Mi piace ricordare che qualcuno già storceva il naso a gennaio – cioè il mese scorso, mica tre anni fa – quando già diminuivano gli effetti speciali ma su 5 partite ne vincevamo 4 (due ai supplementari) conquistando la Supercoppa contro i gobbacci, passando un turno di Coppa Italia, andando a pareggiare a Bergamo, insomma, mica bruscolini. Il che mi fa pensare che il meraviglioso mese che ha preceduto il Natale, con sei vittorie di fila senza prendere un gol e segnandone 17, ci abbia un po’ illuso che tutto fosse facile, bello, bellissimo, meraviglioso, eccezionale, pum pum pum! Ma in fondo cos’era successo? Che avevamo vinto a Roma, sì, ma con una Roma un po’ allucinata, e poi con un Cagliari in piena depressione, con una Salernitana allo sbando, con il Venezia, lo Spezia… Ci siamo divertiti un sacco, ma più o meno consapevoli che il peggio doveva/poteva ancora venire.

Mi piace anche ricordare che, nel 2022, abbiamo giocato 11 partite in un mese e mezzo, con 4 turni infrasettimanali (Champions, Supercoppa, 2 Coppa Italia) e con una tale densità di difficoltà (Liverpool, Milan, Juve, Napoli, Atalanta, Roma, Lazio) che arrivare sul più bello con la lingua fuori e le idee annebbiate, come dire, è il minimo che possa capitare a un club che dispone di 14/15 giocatori “veri” e che quindi è costretto a far giocare sempre quelli – e ringraziamo che di infortuni seri non ce ne sono stati, non oso immaginare se ci fosse capitata un’ecatombe tipo Juve (sia chiaro, ecatombe moralmente meritata, Iddio li strafulmini). Proprio in occasione della partita più importante e fascinosa, quella con il Liverpool, ci siamo accorti della differenza abissale che c’è nell’avere una rosa ampia e nel non averla: fai la tua partita, li metti alle corde, prendi una traversa, ti sbatti oltre ogni limite e bòn, molli un attimo e perdi 2 a 0, bye bye and thank you so much.

Siamo così arrivati in pieno marasma alle ultime due partite, che dopo un mese e mezzo di big match dovresti passare all’incasso con 6 punti e invece ne fai uno. Conseguenza diretta di situazioni che in questa stagione, se non molto occasionalmente, non erano mai state nostre: come nel primo tempo col Sassuolo, spenti e passivi, o come nell’intera partita con il Genoa, sempre poco lucidi. Le statistiche sembrano quelle di uno e due mesi prima: possesso palla 59% col Sassuolo (tenendo conto che per mezz’ora nel primo tempo non l’avevamo vista) e 72% col Genoa, tiri 29 col Sassuolo e 21 col Genoa, corner 8-3 col Sassuolo e 14-0 col Genoa. I fatti dicono che siamo stanchi, disuniti, un po’ persi.

Il tour de force non è finito. I prossimi due martedì abbiamo Milan e Liverpool e sarà un altro massacro di fisico e di testa. Poi, fino al 20 aprile (Coppa Italia, derby di ritorno) non avremo più impegni infrasettimanali (anche se prima o poi fisseranno il recupero col Bologna), ci sarà la pausa per la Nazionale: insomma, potremo tirare il fiato, quantomeno recuperare o gestire meglio le forze. Le cose potrebbero andare meglio.

Verrebbe anche da dire che se il colpo di testa di D’Ambrosio avesse impattato la traversa del Genoa un centimetro più sotto, avremmo passato una nottata tranquilla a scrivere la tabella scudetto e a rivedere gli highlights di Milan-Udinese (noi non stiamo bene, ok, ma gli altri come stanno?). Ma sarebbe un modo un po’ troppo assolutorio di affrontare la questione. Quello che preoccupa è vedere un’Inter smorta, confusa, che non si diverte più. Quello che preoccupa è vedere i giocatori del Dream Team prenatalizio mandarsi bellamente affanculo per un passaggio sbagliato (e ne sbagliamo parecchi, quindi volano parecchi vaffanculo). Eravamo belli e ci siamo un po’ imbruttiti. Bisogna tornare a segnare, a sorridere. Bisogna tornare a essere positivi. Anche se in questo momento sembra una roba impossibile, tipo vincere 3-0 ad Anfield.

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Altro pianeta un cazzo

Il titolone del Corriere dello Sport – “Altro pianeta” – è sbagliato. Non rappresenta la realtà di Inter-Liverpool, è stupidamente compiaciuto e gronda di quel provincialismo di cui bisognerebbe ogni tanto sbarazzarsi. “Peccato” di Tuttosport magari contiene un retropensiero – o un risolino sarcastico – ma è sicuramente più legato ai fatti: “Peccato” ieri sera l’abbiamo detto un po’ tutti, no? “L’Inter si mangia le mani” della Gazza (con impeccabile foto di Perisic intento a mangiarsi le mani, la stessa usata dal Corriere dello Sport che quindi ha pure sbagliato foto) centra sicuramente di più il nostro mood: ci abbiamo sperato, abbiamo avuto le nostre chance, non le abbiamo sfruttate e ora, vabbe’, ci mangiamo le mani.

Altro pianeta no. L’Inter ieri sera ha dimostrato che nell’altro pianeta ci può stare, ed è forse l’eredità più importante che ci lascia una partita giocata nel presunto altro pianeta che invece è piuttosto simile alla Terra, esseri con due gambe a spasso su erba rizollata, pallone di cuoio che rotola, quelle robe lì. Un’Inter impanicata, passiva, persa, trincerata sarebbe stata la dimostrazione pratica della differenza di pianeti. E invece no, proprio no, proprio mai. Altro pianeta un cazzo.

Altro livello invece sì, questo bisogna serenamente riconoscerlo e faceva parte delle incognite più banali del prepartita. Il livello differente di due squadre con basi e trascorsi molto diversi (il Liverpool agli ottavi di Champions è la normalità, l’Inter agli ottavi di Champions è un ritorno dopo dieci anni, che sono tanti). Il livello di differenza che c’è tra un’Inter che ha un’assenza importante e oggettivamente non la può rimediare, e un Liverpool che inizia la partita schierando un ragazzino (proprio laddove doveva essersi Barella) e tenendo in panchina – parlando solo di centrocampisti – Henderson, Keita, Oxlade-Chamberlain e Millner (cioè una seconda intera linea di centrocampo a tre, più un altro ancora), più Firmino, Luis Diaz, Gomez, Matip, Origi ecc. ecc., una squadra 2 che in Italia sarebbe minimo in zona Champions.

Su questo, beh, non possiamo farci niente. Il livello è diverso, si sapeva. Ti può capitare di non pagarlo (chissà se Chala avesse segnato invece che prendere la traversa, o se Dzeko fosse stato mezzo metro più indietro nell’azione del gol annullato) oppure no, ti può capitare di dover seguire uno schema spietatamente preciso e di dover passare a un certo punto alla cassa lasciando giù anche le mutande, mentre gli altri alla cassa a fianco aprono quei portafoglia a fisarmonica con venti carte di credito e bòn, vuoi questa?, vuoi quella?, e via verso la prossima avventura.

Le partite non durano 70 minuti – peccato, direbbe Tuttosport – sennò avremmo 10 punti di vantaggio in campionato e andremmo a giocarcela ad Anfield. Le nozze non si fanno con i fichi secchi e aggiungete voi qualche altra perla di antica saggezza. Ma bisogna trarre il meglio da una notte splendida e poi certo deludente, ma non certo devastante. Ha ragione Inzaghi: oggi, pur fuori dalla Champions salvo eventi miracolosi, dovremmo sentirci un po’ più forti. Bisogna autoconvincersi che siamo atterrati nel pianeta giusto. Abbiamo magari lo scafandro con le toppe e un’astronave di seconda mano, ma siamo nel pianeta giusto.

Se solo, sant’iddio, avessimo tirato in porta tutte le volte che ne avevamo l’opportunità: ma questa è tipicamente una questione di livello, non di pianeta.

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1 X 2

Le prime tre partite del poker che in 11 giorni sta ridisegnando il nostro destino a breve e medio termine sono finite con una tripla, 1 x 2, un vittoria un pareggio una sconfitta, non un disastro ma nemmeno un trionfo. Abbiamo perso forse la partita più facile – purtroppo anche la più dolorosa -, quantomeno quella meno complicata nella sua architettura teorica, un derby in casa da vincere e stop, senza troppi calcoli, con una posta in palio così golosa – tipo dare una spallata al Milan e al campionato intero – che di default avresti dovuto moltiplicare motivazioni, cazzimma, tutto. Invece no. La seconda partita, quella con la Roma, a quel punto diventava molto più pericolosa e delicata di quanto non lo fosse di suo, ad appena tre giorni dalla tranvata del derby: un esame superato bene, senza soffrire, senza abbandonare mai il controllo delle operazioni. Infine Napoli, in bilico sul precipizio, perché perdere anche quella partita dopo il derby sarebbe stata una catastrofe (e poteva succedere, non fosse altro che il Napoli era forse la squadra più in forma e in fiducia del campionato): un tempo a ballare la rumba e un tempo, il secondo, a reagire da grande squadra.

1 x 2, dunque. Che se ci fosse ancora la schedina del Totocalcio io una tripla, per scaramanzia, ce la piazzerei anche su Inter-Liverpool, così, per godermela in santa pace, sapendo che col 2 fisso andrei più sul sicuro e con l’X stapperei un prosecco, ma magari chissà, the ball is rotond, the bottle is on the table, non è che per forza deve vincere il migliore, no?

Torniamo dopo 10 anni tra le big d’Europa e troviamo subito uno dei tre-quattro top team degli ultimi quattro anni, compreso questo. In questo lasso di tempo il Liverpool ha vinto una Premier con sette giornate di anticipo, è arrivato una volta secondo battendo il record di punti per una seconda, una volta terzo e quest’anno è ancora secondo, lontano dal solito City ma con una partita da recuperare. Ha vinto una Champions, una Supecoppa europea e un Mondiale per club. Sono quattro stagioni ma è come se fossero tre, quella passata praticamente non vale: a un certo punto gli si sono infortunati tutti i difensori centrali (come se a noi mancassero per mesi contemporaneamente De Vrij, Skriniar, Bastoni e pure Ranocchia), rimpiazzati con centrocampisti o mezze figure raccattate qua e là sul mercato – e ciononostante sono arrivati terzi in rimonta in Premier dopo essere sprofondati in primavera tipo all’ottavo posto.

E’ una squadra piena di signori giocatori, micidiale sulle fasce (Alexander-Arnold e Robertson) e dalle fasce (Salah e Manè) e spiace che nel mezzo, dove forse ce la si poteva giocare, ci manchi il più dirompente di tutti. L’assenza di Barella è un ulteriore handicap in un match dove partiamo in teoria così sfavoriti che, appunto, c’è quasi da star sereni: uscire con il Liverpool è un destino segnato, tutto quello che può succedere in meglio è un di più.

Se la partita con il Milan dimostra che il nostro peggiore nemico siamo noi stessi, quelle con Roma e Napoli si restituiscono una dimensione diversa – migliore – dell’Inter, di quello che sa fare, di come lo può fare. In una settimana abbiamo mostrato tutto il nostro campionario, nel bello e nel brutto. Certo, il nostro ruolino di marcia negli scontri diretti non ci disegna come la squadra più spietata dell’universo (noi i nemici non li annientiamo: tutt’al più ci pareggiamo), ma era un pezzo che non ci si divertiva così, letteralmente, a vedere partite sempre tirate, spesso belle e qualche volta bellissime. Un’estetica non a vuoto, perché siamo sempre lì ad aspettare che succeda qualcosa, sapendo che prima o poi qualcosa arriverà.

Un’ipotetica Inter di Conte avrebbe preparato la Maginot prima di tutto. Quella di Inzaghi non ce l’ha tra le opzioni, la Maginot. Farà la sua partita come ha sempre fatto, con la Juve come con il Venezia, con il Genoa come con il Liverpool. Magari ce ne fanno cinque, ma io non vedo l’ora. La musichetta, il Liverpool, l’Inter. No, non vedo l’ora.

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Brividi

Dominare le partite per un’ora e poi mandarle a culo nella restante mezz’ora. Uhm, dove l’avevamo già vista ‘sta cosa? Ah sì, nei primi due mesi e mezzo della stagione, una partita sì e una no, giusto fino al derby d’andata, match-paradigma (insieme all’Inter-Juve di due settimane prima) della nostra pessima tendenza a fare trenta e mai trentuno, soprattutto negli scontri diretti. Mai inferiori a nessuno – anzi, spesso superiori – e regolarmente a mani quasi vuote alla fine. Tutto questo non era gratis: costava parecchio. Alla sera di Milan-Inter arrivammo a meno sette. Andati in vantaggio, sbagliato un rigore, raggiunti. Se Kessie avesse calciato con un minimo di cazzimma in più quel pallone finito invece sul palo, saremmo sprofondati a meno 10.

Da quella sera in poi abbiamo vissuto un mese e mezzo tra gli esteticamente migliori della nostra vita nerazzurra – partite dominate dall’inizio alla fine, futbol bailado, frizzi e lazzi – e abbiamo sistemato i conti. Poi è seguito un gennaio meno scintillante, anzi, piuttosto faticoso. Ma, piccolo particolare, quasi immacolato. Le abbiamo vinte tutte tranne una, il pari a Bergamo, che andava più che bene. Abbiamo vinto la Supercoppa. Abbiamo sudato parecchio per vincere, sicuramente sprecato un po’ di energie. Però, accidenti, è stato un gennaio come raramente ne abbiamo portati a casa.

Ora, tipo Monopoli, abbiamo pescato un imprevisto e siamo ritornati al via, una specie di penitenza che ci ha riportati per una sera – speriamo una sola – a essere quelli di qualche mese fa, irresistibili e spreconi per un’ora e poi stop, facili a perdersi, propensi a rinculare, disperatamente legali alla casualità dell’assalto finale. Peccato perché non era solo un derby – che già scoccia di suo – ma anche lo scontro diretto con la seconda in classifica, che recupera di botto tre punti e un sacco di fiducia. Ed era anche la prima partita di quattro – Milan, Roma, Napoli, Liverpool – che nel giro di 11 giorni ci diranno tante cose su di noi e il nostro futuro prossimo. Non è stato un grande inizio: invece di gasarti a mille perdi un derby regalandolo, bleah.

Il danno è proprio questo, immateriale. Giocare quattro partite fondamentali in 11 giorni, quattro partite da brividi (ogni riferimento è puramente voluto), richiede serialità e positività, un po’ come nel basket quando tiri da tre e vanno dentro tutte, oppure non ne entra nessuna manco a pagare e la scimmia passa da una spalla all’altra in attesa che un ciuff spezzi l’incantesimo. Ma c’è anche poco tempo per pensare. Il che è solo un bene.

Restiamo i più forti, non ci sono cazzi. Il derby dimostra che le partite possiamo perderle principalmente a causa nostra. Detto così, è un problema facilmente risolvibile. Risolviamolo.

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