SetTorino (scusate, mi ero dimenticato di tirarmela un po’)

Il mio nuovo libro* io non l’ho ancora nè visto nè toccato nè annusato, e in realtà uscirebbe il 22 ottobre, ma è già al Salone di Torino e tipo domenica mattina, cioè domani insomma, dovrò andare là per vederlo, toccarlo e annusarlo (ammesso che quelli dello stand della Hoepli non chiamino la security) (cioè, nessuna polemica, lo farei anch’io se uno che non ho mai visto prima annusasse i miei libri).

* Il libro si chiama “1908 Fc Inter – Le storie” (Hoepli) e l’abbiamo scritto in cinque, ma qui me la tiro solo io per pura compensazione. Se lo cercate in rete e negli store on line il mio nome non compare, perchè sono il quinto in ordine alfabetico e nel campo autori a seconda dei siti vengono caricati solo due, tre o quattro autori al massimo, e il quinto svapora nell’etere. Cioè, se mi fossi chiamato Aorti o Borti sarei stato il primo. Oppure se mi fossi chiamato Corti, Dorti o Eorti sarei il secondo. Oppure se mi fossi chiamato Forti o Gorti sarei il terzo. Invece mi chiamo Torti e amen. A scuola ho avuto qualche beneficio (quando interrogavano in ordine alfabetico, a parte quei prof creativi che partivano dall’ultimo), in letteratura debbo dire che è un problema. Comunque la copertina certifica la mia presenza, ancorchè nel secondo anello. E’ un bel libro di 500 e passa pagine, il testo supera abbondantemente il milione di battute, e 300mila sono mie.

Le foto sono state scattate a Torino, giuro.

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Ipomenorrea (il ciclo breve)

Quanto dura in media un ciclo? Da quando hanno spento Yahoo Answer la vita di tutti noi si è fatta più difficile. La risposta “in media dura 28 giorni, ma non è insolito avere un ciclo di 35 giorni o persino di 22 giorni” mi ha soddisfatto – ah ecco, dura poco, mi sono detto – ma poi mi sono accorto che ero sul sito della Società italiana di Ginecologia. Io invece pensavo al calcio e volevo controllare se ci fossero casi di cicli vincenti più brevi di quello di Conte all’Inter, durato tipo tre settimane, il tempo di fare qualche festa scudetto, rilasciare sempre meno dichiarazioni e via, verso nuove avventure (non senza avere incassato una buonuscita che è il doppio dello stipendio di un qualsiasi allenatore medio-alto).

Sorprendente? No. Sono due anni che Conte si lamenta. L’abbiamo prima catalogato come un gobbo piagnone, per poi piano piano capire che aveva anche le sue porche ragioni. E siccome alla fine lo scudetto è arrivato – uno scudetto bellissimo – dobbiamo convenire che non era tutta fuffa. Conte – un signor professionista, non un mostro di simpatia – ha portato a termine la sua personale missione: vincere uno scudetto all’Inter, un’impresona che gli lustra il palmares. Poi basta, arrivederci e grazie, non gli interessa farsi nuovi amici. Apre un ciclo e lo chiude: guardatevi Wikipedia, ha sempre fatto così.

L’addio di Conte spiace soprattutto perchè certifica che dal mercato (e dal futuro prossimo) non ci sarà granchè da aspettarsi. Perdiamo un allenatore top così come top saranno più le uscite delle entrate. Non si smantella, ma ci si ridimensiona. Conte a queste condizioni non poteva starci, non dopo aver polemizzato per molto meno. La prospettiva di una squadra non rafforzata, o peggio indebolita, non è nelle sue corde. Il ventriloquo Stellini era stato chiaro domenica: se una società ha un allenatore top deve avere programmi top, dev’essere la società a decidere cosa fare.

Bene, la società ha deciso: al 26 maggio 2021 – il ciclo vincente più breve del terzo millennio – siamo senza allenatore top e senza programma top. Pensavamo di essere tornati in alto ma non era vero. O meglio: era uno stato provvisorio.

Più ancora che arrovellarsi sulla dipartita di Conte – uomo a cui dobbiamo al 100% lo scudetto 19, ma che era anche un corpo estraneo all’interismo nonostante la buona volontà sua e nostra – dobbiamo iniziare ad arrovellarci sul futuro dell’Inter. Fa sorridere che un mesetto fa eravamo in seconda o terza fila nel golpe della Superlega: forse non ci siamo esposti troppo perché già sapevamo che ci mancavano i requisiti?

Non è giusto rassegnarsi al fatto che vabbe’, siamo nati per soffrire e allora bòn. Questa volta è un pochino diverso. Non è un’Inter senza arte nè parte. Una squadra campione d’Italia, con una Champions da giocare, un minimo di progetto lo richiede. In fondo, meglio che sia successo il 26 maggio che il 26 agosto. Ma ora che sappiamo di che morte dovremo morire, potremmo avere qualche particolare in più?

Mancano tre mesi all’inizio del prossimo campionato e saranno tre mesi inquietanti. La scelta nel prossimo allenatore sarà il primo segnale netto. Ah, bei tempi quando potevamo dire “massì, va bene tutto”. No, abbiamo lo scudo in petto e non può andare bene proprio tutto. Forza Inter, sopravviveremo anche al resizing, ammesso di capire cos’è.

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Quasi molto amici

Ho aspettato il minuto 93 di Sassuolo-Atalanta (tu pensa a quali prove ti sottopone la vita), poi sono corso alla Minerva (a Pavia i caroselli si fanno lì, paralizzando festosamente la rotonda attorno alla statua simbolo della città, e avevo proprio voglia di vedere sventolare bandiere nerazzurre e sentire suonare clacson amici, una voglia repressa per 11 anni) e adesso, prima di rilassarmi, ho un Conte da regolare. Cioè un conto in sospeso con Antonio Conte.

Ho dovuto fare una ricerca su Twitter. Sì, ho usato l’hashtag #ConteOut una volta, la notte tra il 25 e il 26 novembre 2020, nel post partita di Inter-Real, in coda a un tweet in cui rinfacciavo al mister di avere demolito la pazza-Inter e di averci consegnato una depressa-Inter. Erano giorni un po’ così, quinti in campionato a cinque punti dal meraviglioso Milan dopo otto giornate appena e scherzati in Champions dai galattici nella partita in cui – una delle rare volte nella stagione, di sicuro la più eclatante – ci siamo sentiti fuori posto, fuori fuoco, fuori tutto. Inadeguati, tutto meno che grandi.

Quella sera, dopo sole quattro partite, finiva di fatto la nostra Champions (poteva andare peggio, potevamo finire quarti: fatto) e la squadra sembrava lontana dal suo allenatore, in quel triste periodo in cui – tra le varie cose – Eriksen veniva fatto entrare a tre minuti dalla fine e io non mi capacitavo di questo inutile sfoggio di bullismo. E allora scrissi #ConteOut perché mi sentivo in un cul de sac, prigioniero di un allenatore talebano nelle scelte tattiche e umane, precipitato in un loop di negatività che non sentivo di meritarmi – cioè, mi dicevo da settimane: se non lo vinciamo quest’anno lo scudetto, con questa squadra, con questa concorrenza, quando mai lo vinciamo più?

Quello fu in effetti il momento peggiore di tutta la stagione. Non riuscimmo a salvare la Champions, ma ci fu un immediato rimbalzo in campionato (sette vittorie di fila) che ci portò ad avvicinare il Milan e a tenerlo d’occhio fino al giro di boa. Poi vabbe’, sappiamo tutti com’è andata. Ma quei giorni di novembre erano tempestosi, c’era quel fermento un po’ malato da ammutinamento sentimentale, ci divertivamo a ridisegnare l’Inter nella ormai quasi certezza che arrivasse Allegri o qualcun altro (così non si può andare avanti, ci dicevamo), e poi a fantasticare sui colpi di gennaio, prendi questo e molla quell’altro, progettando un’Inter decontizzata, leggera, felice. Naturalmente era tutta un’illusione: non solo Conte era economicamente illicenziabile, ma da lì a poco avremmo scoperto che anche l’Inter era irritoccabile. Il famoso annuncio “si va avanti così” sembrava la pietra tombale sulle nostre speranze. Per non parlare di quando a un certo punto scopriamo che a poco a poco la società si ridimensiona, anzi cerca un socio, anzi è in vendita, anzi porta i libri in tribunale, anzi siamo già tutti morti e non ce ne siamo accorti, anzi le cavallette, le cavallette!

Da lì in poi – e parliamo di quattro-cinque mesi della nostra vita – l’Inter è stata soprattutto Antonio Conte e dunque io vorrei chiedergli scusa per quell’hashtag un po’ infelice, per quanto contestualizzato e quindi non gratuito. Ma un po’ infelice e un po’ ingeneroso sì. Io non gli ho mai rimproverato la gobbitudine: è stato il mio allenatore sin dal minuto 1, per quanto faccia sempre un po’ strano vedere vestito con la tua divisa sociale un tipo che sportivamente hai abbastanza odiato (ma se uno sta 16 anni in una società ha tutto il diritto, direi anche il dovere di provare sentimenti e conservare ricordi). Gli rimproveravo la rigidità, l’insistenza su scelte sbagliate, l’atteggiamento distante dalla società (del tipo: io faccio tutto quello che posso e anche di più, ma la situazione la vedete anche voi), le conferenze stampa un po’ grottesche, il percorso, il lavoro, quelle robe lì.

Ma poi ha vinto lo scudetto, e lo ha vinto con una percentuale mourinhana di meriti personali, avendo puntellato la baracca e motivato la truppa proprio quando tutto lasciava presagire il contrario. In questi due anni ha fragorosamente fallito in Champions, ha solo accarezzato il colpaccio nell’Europa League anomala (dove siamo mancati proprio a pochi passi dal traguardo) ma ci ha riportati stabilmente in vetta la campionato, vincendo – anzi, trionfando – al secondo colpo (lui che era noto per vincere al primo, ma tant’è) grazie a un cambio di passo clamoroso in corso d’opera. Trasformando cioè la squadra da quella che ne prende due a partita a quella che ne prende due a bimestre, e per il campionato italiano basta e avanza.

Questo scudetto ha molti volti e abbiamo tempo per elencarli e magnificarli uno a uno. Ma un hashtag mi era rimasto sul gozzo e oggi sono riuscito a mandarlo giù. Ne abbiamo avuti di più simpatici, più empatici, più interisti. Ma questo scudetto ha la tua firma, Antonio, e non solo per quel dito medio sguainato in una serata amara: il punto non era allontanarsi dalla Juve ma sprofondare un po’ di più nel nerazzurro. Lo hai fatto di partita in partita, tuffandoti in quegli abbracci generali che fanno tanto gruppo e piacciono tanto ai tifosi. Hai riempito il silenzio degli stadi. Hai interrotto un decennio di niente. E adesso sì, possiamo dirlo: è il trionfo del #ConteIn e oggi siamo quasi (molto) amici.

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Super Tele

Al termine di 48 ore di pura follia, che rivalutano la figura storica di Antonio Tejero, bisognerebbe sforzarsi di fare un po’ di sintesi. Perché al netto delle centomila sfumature che ognuno di noi può trovare nella grottesca ma realissima vicenda della Superlega, credo si sia verificata una rara occasione di stop & go dell’intero mondo pallonaro e forse sportivo in generale, una pausa di riflessione che questo ambiente non si prende mai. E per ambiente intendo l’universo mondo del fulbar, da Infantino al bibitaro del secondo anello. Nell’ambiente ci ficco ognuno di noi tifosotti, gente con l’anello al naso che segue partite con suoni gutturali, rutti, bestemmie e qualche scoreggia, forza Inter Juve merda birra orociok gù gù, e si pone rare e spesso inutili domande sull’essenza di ciò che vede.

Abbiamo assistito a un tentativo arrogante, intempestivo, improvvisato e scomposto (tanto arrogante, intempestivo, improvvisato e scomposto da destare ben più di un sospetto) di cambiare le regole del gioco calpestando quelle dello sport. Il nostro sport. In attesa dei prossimi sviluppi – si aprono scenari molto interessanti, e non necessariamente catastrofici – io mi sono appuntato alcune cose.

  1. Il calcio è un enorme business in enorme difficoltà. Per metà di queste difficoltà vale il detto “chi è causa del suo mal pianga se stesso”: dal malaffare diffuso al cancro dei procuratori, qui dovrei aprire un sotto-elenco di mezzo chilometro. Per l’altra metà, è più che comprensibile che si cerchino nuove strategie. Succede in qualsiasi azienda, succede in qualsiasi settore economico. Ecco, magari non a ogni costo.
  2. Non si può far finta che non esista il mercato. E il mercato ha delle sue dinamiche, molto ovvie. Vendo più facilmente Arsenal-Barcellona o Crotone-Sassuolo? Spunto un prezzo migliore per Bayern-Psg o per Osasuna-Getafe? Ricavo di più da una maglietta ufficiale dell’Inter o da una maglietta ufficiale del Fimleikafélag Hafnarfjarðar (più comunemente FH). E il calcio ha più prospettive se lo vendo bene o se lo vendo male?
  3. Il calcio tende già da decenni a una superlega ombra, le grandi squadre godono già di discreti privilegi, si cerca in tutti i modi nelle competizioni europee di distillare il meglio il più presto possibile, si sta facendo anche con le nazionali in quella roba lì, l’ultima, come si chiama?, ah sì, Nations League. Il calcio è già pieno di meccanismi non equi. Basta che non ci tolgano l’ultimo, il più importante: che i traguardi si conquistano, che le vittorie pesano, che le sconfitte pesano. Con un po’ di fantasia, lo si troverà un meccanismo per fare una Superlega – perchè lì andremo a sbattere – in cui non conti solo la ricchezza e il merito non sia un inutile optional, o no?
  4. Il calcio è ricco, potente e (non del tutto, vedi sopra) autonomo, ma non è una zona franca e non è nemmeno la casa di uno dei tanti marchesi del Grillo che lo popolano. Il golpe della Superlega è stata una pessima operazione, ma non è che la controparte – Uefa e Fifa – sia occupata da simpatici e disinteressati benefattori del genere umano. E’ davvero difficile fare il tifo per l’una o per l’altra parte, siamo a livello padella-brace. Ha avuto un suo peso la reazione della politica internazionale e la reazione dei tifosi, forse entrambe inattese per proporzioni. Un piccolo bagno di umiltà, hai visto mai.
  5. Il calcio non è proprietà dei tifosi, però i tifosi sono importanti. Sono utilizzatori finali e azionisti. Sono un irrinunciabile contorno ideale e fisico (ce ne siamo accorti con gli stadi vuoti). Non sono i padroni (farebbero immani disastri) ma sono la passione, sono la pancia, sono il motore (o lo stimolo, almeno). Io, dovessi organizzare una Superlega tra una notte e l’altra, prima proverei a tastare in giro gli umori – no, perchè poi li devi anche spremere, i tifosi.
  6. Noi tifosi, però, la dobbiamo smettere di rifugiarci come sciampiste nelle reminiscenze di un calcio romantico che non esiste più. La SuperLega ci fa cagare ed eravano tutti più felici con il Super Tele, certo, ovvio. Ma le nostre paturnie vanno contestualizzate a oggi, anno 2021, sennò sono solo pugnette. Non è un processo così facile, lo ammetto, richiede qualche passo indietro o di lato. Non siamo noi quelli a cui vendere il prodotto calcio, del resto: noi siamo clienti da una vita e ci lasciamo fottere ogni giorno da un qualsiasi pallone che rotola su un qualsiasi prato. No, ci sono mercati quasi vergini da esplorare. E ci sono – così dicono – i giovani da riconquistare (loro sì che possono dire a cuor leggero che il calcio è normalmente uno spettacolo noioso). In quest’ottica, ci sono cose che si possono negoziare e altre no. Concentriamoci su quelle no, poche ma importanti (vedi sopra). Sul resto, ragazzi, mettiamoci anche nei panni di chi bene o male deve tenere in piedi questa baracca.
  7. Spero di riconciliarmi presto con l’Inter. Questa epocale figura di merda, alleati ai nostri peggiori nemici, pronti a vendere il culo ma stando ben attenti a non esporci troppo, rimanendo seminascosti sullo sfondo, non mi va giù. Portate a casa in fretta il diciannovesimo e dimentichiamo questo triste e per fortuna istantaneo passaggio della nostra gloriosa storia.
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C’è la Superlega e non ho (più) niente da mettermi

Sono già 17 anni (compreso questo) che la Champions League si è superleghizzata: dopo quella del 2004, Porto-Monaco, tutte le finali si sono giocate tra le 15 – teoriche – società con cui si vorrebbe formare il nucleo fisso della Superlega e che hanno vinto 25 delle ultime 26 edizioni (tranne quella del Porto, appunto). La stessa Champions League, che l’anno prossimo compirà 30 anni, è stata dall’inizio un palese (e universalmente accettato) tentativo di superleghizzare il calcio, ammettendo nella competizione più squadre delle leghe maggiori (la squadra campione e due o tre non-campione) e costringendo le campionesse delle leghe più sfigate a fare 17 turni preliminari e a non vedere praticamente mai la luce (del resto, dopo anni di progressiva superleghizzazione del calcio, quante squadre davvero degne della fase finale di Champions ci sono in giro per la Nuova Europa?). Anche l’Europa League, istituita nel 2009, è una competizione che ha alla base una clausola superleghizzata: si costringono squadre di medio calibro a massacrarsi per qualche mese tra di loro, poi quando inizia il bello entrano in gioco 8 eliminate della Champions, normalmente più forti di tre quarti delle squadre qualificate per via ordinaria.

Sono pensieri che faccio guardando il soffitto e cercando di autoconvincermi che il calcio è già poco equo da un pezzo, molto prima che se ne uscissero con questa apocalittica pensata della Superlega. E che il vile denaro domina da un pezzo, e che se mi sono fatto andare bene il peggio del calcio finora – scommesse, doping, mafie, sudditanze, truffe, raggiri – mi ci devo mettere proprio ora a fare questioni di principio? Non è che sto rimanendo indietro rispetto al passo che hanno le cose, comprese queste? O forse, come diceva un vecchio spot, “fermate il mondo, voglio scendere!” e sono già sceso da un pezzo?

Devo ammettere che la cosa mi ha completamente spiazzato. Mi autoflagello per il mio atteggiamento retrò, ma non trovo niente di particolarmente convincente e attraente in questo modello di calcio del futuro. Cerco solo di dominare il mio naturale stupore – che può suonare ridicolo, anzi lo è – verso la crescente quota di possesso palla dell’aspetto economico nello sport che amo di più.  Che novità, eh? Scandalizzarsi è veramente grottesco, a meno di non vivere in una bolla dove pensiamo che ci sia ancora la Coppa Rimet e trasmettano il secondo tempo di una partita la domenica verso sera. Questo carrozzone non deve solo reggersi in piedi, ma anche fare profitto: c’è un immenso pubblico in parte da drenare e in parte – una grossa parte – da andare a scovare in angoli popolosissimi del mondo, ingolosendolo con un’offerta che difficilmente riuscirà a rifiutare. Io del business ritengo sia abbastanza inutile parlare: è così e basta. E se non sarà la Superlega si inventeranno un’altra cosa con un altro nome.

Il mio attuale sbalestramento riguarda piuttosto cose più sentimentali ed eteree – quindi del tutto marginali all’accrocchio odierno, che dei sentimenti se ne strafotte. Tanto vale a allora auto-immergermi nel ridicolo ed esporre i miei tormenti.

Uno riguarda il giuoco chiamato calcio. Possiamo essere giovani, moderni, affaristi e smart finchè vogliamo, inventare leghe e superleghe, organizzare triangolari tra Maciste Godzilla e Pecos Bill, ma non dobbiamo derogare alle leggi dello sport. Regole uguali per tutti, vittorie e sconfitte, promozioni e retrocessioni, quelle robe lì insomma, che determinano il calcio da quando l’abbiamo conosciuto fino ai giorni nostri. Una Superleague nella quale giocano quasi sempre le stesse squadre, scelte per un criterio di censo più che di prestigio (vogliamo parlare del palmares internazionale di Psg, Arsenal e Tottenham, per dire?) , è una cosa seria, sportivamente parlando? Sì, certo, chissà che figata di partite ne verrebbero fuori. Ma siamo sicuri che ne valga la pena? Nella speranza che si tratti di una grande forzatura per trattare con Uefa e Fifa la riscrittura delle regole di competizioni che ci sono già, non oso pensare alla fine che farebbe tutto il sistema. Si porta ad esempio la formula dell’Eurolega nel basket, ma a me viene in mente il tennis. Avete presente la Rod Laver cup? Una roba che si sono inventati i giocatori più forti per giocarsela tra loro divisi in due squadre – Europa e Resto del Mondo – e portarsi a casa un pacco di soldi. Ecco: preferite le partite della Rod Laver cup, con i giocatori che si fanno l’occhiolino da una parte all’altra della rete e fingono di prendersi a pallate, o un qualsiasi torneo dove si parte tutti assieme e alla fine vince solo uno, sì dai, quelle formule antiche ma di un certo fascino, che l’avversario te lo mangeresti vivo pur di passare un turno?

Il calcio va dove ci sono i soldi, e i soldi ora bisogna cercarli altrove, perchè i mercati europei sono sfruttati all’osso. Il problema è che in Europa ci siamo noi, gente appassionata di calcio fin da quando era in fasce, gente che conosce il gioco, gente sofisticata rispetto a miliardi di persone che cadrebbero in deliquio se Messi facesse le scoregge con le ascelle, figuriamoci un gol. Io delle Superleghe non me ne faccio un cazzo, amo il calcio per quello che è, vorrei che rimanesse tale, a giocare con Juve e Milan e ogni tanto con Spezia e Benevento. Vorrei che la Champions la potessero rivincere Nottingham Forest, Steaua, Stella Rossa, Marsiglia, Psv, perchè ammesse alla competizione, non perchè relegate in una cosa che potrebbe ancora chiamarsi Champions ma che sarebbe una specie di Mitropa con la musichetta.

L’altro cruccio è l’Inter. Sì, quella squadra con la maglia a zig zag che tutti amiamo e che sta per vincere uno scudetto dopo 11 anni. Non mi piace vederla così, lanciata in un progetto kamikaze a rimorchio della Juve, con la Juve, a braccetto della Juve, in partnership con la Juve, pappa e ciccia con la Juve. Non mi piace. Non mi piace che a sette giornate dalla fine del campionato ci piombi tra capo e collo questa cosa. Non mi piace questo pensiero fisso che ci tocca mentre di pensieri fissi ne avevamo già, e di più belli. Non mi piace pensare a cosa ne sarà di noi (e del calcio in generale) non tra due o tre stagioni, ma tra due o tre mesi. Forse due o tre settimane.

Non so se si è capito, ma non mi piace proprio per un cazzo la Superlega. Non mi piace nemmeno apparire retrogrado, tradizionalista, vecchio (e vabbe’, del resto ho visto la prima partita a San Siro nel 1970, avevo i calzoni corti e i Boys non erano nemmeno in curva), ma non ci posso fare niente. Non mi piace questa storia nel suo complesso, proprio ora che vedevo in lontananza un enorme numero 19 e non mi aspettavo questa imboscata sportiva, morale, etica, esistenziale, macroenomica. Se devo sintetizzare in cinque parole, mi schiarisco la voce e dico: andate a fare in culo.

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Gufi in Dad (pandemia canaglia)

Poteva una insignificante pandemia globale in corso da appena un anno fermare il Circolo Pickwick dell’antijuventinismo, il Think tank della resistenza alla gobba, il Mossad della caccia alla bianconerità? Poteva, insomma, un intero Dpcm di diciassette pagine impedire ai Gufi di fare il loro sporco lavoro in occasione della prima partita dentro-fuori della Juve in Europa, rinunciando così a una missione che dal lontano 2014 questo manipolo di uomini insegue con passione e sprezzo del pericolo?

No che non poteva.

Scartate quindi le ipotesi più fantasiose (tipo dipingere di nero i vetri del salone delle feste del Pomata, nostra sede sociale, o scavare un bunker atomico in giardino e seguire la partita lontani da occhi indiscreti), passava la mozione proposta dal padrone di casa:

“Amici, distanziati ma vicini, remoti ma uniti da un solo afflato: faremo una gufata web!”

(applausi)

Alle 20,45, quindi, si riunisce in videochat il gruppo Bilderberg della gufata: Er Pomata, campo centrale, radunava via etere Er Monnezza, Er Pagnolada, Er Condominio e il qui presente Er Blogghe. Con un veloce rimpianto ai bei tempi in cui si mangiavano cose e si bevevano birre prima di radunarsi trepidanti davanti alla tv, passiamo quindi al primo intoppo della serata: sintonizzare i televisori. Qualcuno sta infatti vedendo la partita su Sky, qualcun altro su Canale 5.

Prendo in mano la situazione: “Ragazzi, mozione d’ordine, non si capisce un cazzo: ditemi cosa vedete in questo istante in tv. Io vedo le due squadre schierate a centrocampo. Voi?”

Er Monnezza: “Qui hanno già iniziato a giocare, ho il 4k”.

Er Pomata: “Io vedo i giardinieri che tagliano l’erba”.

Er Pagnolada: “Anch’io vedo le squadre a centrocampo. Furino, Spinosi, Causio…”

Er Condominio: “Io vedo i Soliti Ignoti”.

“Canale 5, non Rai Uno!”

“Ah, scusa”.

“Vabbe’, guardiamola tutti su Canale 5, sennò non ne usciamo più”.

“Ma porca puttana, ho il 4k e me la fate vedere sul digitale terrestre di merda”, fa un nervosissimo Er Monezza che comunque, per spirito di corpo, accetta la decisione.

Il primo tempo scorre lieve. Il vantaggio del Porto ci coglie impreparati, troppa grazia. Per motivi scaramantici il sesto gufo invitato, Er Superiore, decide di non entrare in chat: “A questo punto va bene così, resto fuori, nessuno si muova” (lo rivedremo solo a fine partita). Il dramma arriva nella ripresa. Nella stanza dove Er Pagnolada sta assistendo alla partita davanti a un Telefunken con il tubo catodico, si vede passare una persona.

“Oh, è entrato un mio confratello”.

Er Pomata prende la parola:

“Amico mio, sai che ci reggiamo su equilibri instabili e che non sono ammessi estranei, e che questo tipo di accadimento potrebbe nuocere al raggiungimento del nostro obiettivo e….”

“Sì, ok, ma non è colpa mia, che ne sapevo io e che ne sapeva lui? Il problema è che porta sfi…”

Gol di Chiesa.

“Ecco, lo sapevo, lo sapevo!”, commenta affranto Er Pomata.

“Chiesa di merda!”

Tra confratelli e Chiesa, la questione diventa tutta interna al clero e quindi si inoltra su un terreno particolarmente accidentato e irto di celesti imbarazzi. Er Condominio prova a sdrammatizzare: “Vabbe’ dai, in fondo non è successo niente, vedrete che andrà tutto b…”

Espulsione di Taremi.

“Ma porca troia, ci mancava solo il confratello!”, esclama Er Monnezza che come ogni volta vede scorrere davanti agli occhi le peggiori gufate della nostra vita, quelle gufate parziali andate a vuoto prima che ogni volta arrivasse quella definitiva a chiudere in gloria la stagione.

Provo a stemperare la tensione. “Amici, compagni, fratelli. A Er Pagnolada, nostro cappellano, non possiamo imputare nessuna colpa. Lui era lì tranquillo a gufare quando il suo confratello…”

Gol di Chiesa.

“Ma porca troiaccia schifosa, tu e ‘sto confratello dei miei coglioni!”, singhiozza Er Monnezza.

“Chiesa di merda!”

Siamo ormai a rischio scomunica quando, tra spaventi e rigurgiti di speranza, finiscono i tempi regolamentari. Er Pomata tenta di rinfrancare la truppa già piuttosto provata: “Sapete, amici, anche il Benfica nel 2014 era rimasto in dieci e…”

“Sì, ma poi è entrato il confratello!”, lo interrompe un sempre più tormentato Monnezza. Er Pagnolada tace saggiamente. Er Condominio acconsente prudentemente. Io non so più cosa dire e mi limito a ossevare che in campo di sono due squadracce ma il Porto ha un uomo in meno.

Ma in una serata in cui la fede, il clero, il cristianesimo, il diritto canonico e anche quello ecclesiastico hanno avuto un loro pesante influsso, il meglio deve ancora accadere. Al 115′ punizione del limite per il Porto, in chat sentiamo Er Pagnolada farfugliare qualcosa.

“Don Ferrario, facci un miracolo. Ti prego, facci un miracolo”.

“Eh certo – fa Er Condominio con tono sarcastico – adesso si mette a pregare per…”

Gol. 2-2.

Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.

Salti, urla, strepiti, osanna, abbracci virtuali, telefonini che cadono, ringraziamenti a don Ferrario, trenini, bottiglie di Porto che appaiono, primi brindisi, risate, A-E-I-O-U Ypsilòn, gaaaaaaaaaaaaaa, ahahahahaha, alèèèè, viva lo sport, viva di qui, viva di là.

Gol di Rabiot.

“Ma porca puttana, se vedo quel cazzo di confratello!”, stramazza al suolo Er Monnezza, mentre Er Pomata invita tutti a concentrarsi. “Ragazzi, mancano tre minuti, che saranno mai?”

Quattro minuti di recupero.

E’ una partita che non finisce più, ma a un certo punto finisce e un po’ ci dispiace perché ne volevamo ancora. La Juve non ci delude mai, ogni anno se ne inventa una nuova, ha mille risorse. E mentre si festeggia a distanza io aggiorno l’albo d’oro dei Gufi: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real, 2018 Real, 2019 Ajax, 2020 Lione, 2021 (in Dad) Porto. Che storia meravigliosa.

Con la coda dell’occhio vedo Er Pomata scomparire dallo schermo urlando noooooooo. “Che succede, nostro nobile ospite?” “Eh, ho urtato la bottiglia e rovesciato il porto”. “Vabbe’, che sarà mai?” “E’ che l’ho rovesciato su un prezioso tappeto bukhara del 1800 che il mio trisnonno aveva vinto in un duello a Cesano Maderno”. “Vabbe’, che sarà mai?”. “Ma infatti – urla Er Pomata versando il resto della bottiglia direttamente sul bukhara – che sarà mai? Juve merda!”

Appuntamento al 2022, sipario. E’ uno sporco lavoro, e lo facciamo volentieri.




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La prova delle nove

L’ultima partita della vecchia Inter in campionato è stata giusto due mesi fa, 10 gennaio, 2-2 a Roma, partita gestita male, vittoria importantissima buttata via sul più bello, un punto in 2 trasferte (avevamo perso a Genova con la Samp il giorno della Befana), quel finale frustrante che aveva fatto dire a tutti in coro: no, niente, basta, non ce la possiamo fare. Poi, improvvisamente, è scesa in campo la nuova Inter, e la differenza si è vista. L’hanno vista tutti.

Nove partite. Otto vittorie e un pareggio: fanno 25 punti in due mesi, 20 gol fatti e 2 subiti. La classifica di queste nove partite: Inter 25, Juve 19, Atalanta 17, Milan 16, Roma 16, Napoli 16, Lazio 15. E non erano mica nove partite facili: avevamo quattro scontri diretti – Juve, Lazio, Milan, Atalanta – e li abbiamo vinti tutti, più la trasferta di Firenze per noi mai facile. 25 punti, 20 gol fatti e 2 subiti (no, ripeto, magari non si era capito).

Inter-Atalanta gronda segnali positivi. Abbiamo vinto soffrendo, ma non come con il Napoli nell’andata, un 1-0 uscito random da un finale vergognoso, la squadra impanicata che assisteva alle occasioni sbagliate dagli avversari e guardava il cronometro sul tabellone. E’ stato un 1-0 perfetto, un tiro un gol, una partita votata al contenimento di una squadra in grande forma che ha fatto un partitone ma che non è riuscita a passare. L’Inter che nella prima parte di stagione prendeva 2 gol a partita adesso ne prende 2 ogni 10 partite. Questo è.

Non c’è da vergognarsi ad avere fatto un match così. C’è da festeggiare. Non ci fosse il coprifuoco, avrei fatto un carosello intorno all’isolato. L’Inter ha trovato una solidità che qualche mese fa non potevamo immaginare. Oggi che ha il miglior attacco e la seconda miglior difesa ha affrontato l’Atalanta – che stasera avrebbe schiantato chiunque, si è visto da subito – con una consapevolezza, un’umiltà (che ci vuole, per adattarsi a subire più che a tenere l’iniziativa) e due colossali coglioni che costituiscono un patrimonio inestimabile al pari delle cosce di Lukaku. E’ stata una partita intelligente. L’abbiamo vinta.

Negli ultimi due mesi il concetto di squadra è stato raggiunto e consolidato. Conte sta finalmente componendo il puzzle. Questa sera, in una partita-chiave che non potevamo perdere e che sarebbe stato meglio vincere, tutti hanno portato il loro mattoncino alla causa comune. I ripiegamenti difensivi di Lautaro e di Eriksen nel secondo tempo sono stati importanti come un gol. Ha segnato un difensore, uno che dopo l’ultima stagione avremmo svenduto al peggior offerente. Nella foto sopra, Skriniar esulta al fianco di un tizio con la barba che fino a due mesi fa era l’uomo più intristito del mondo: oggi cambia le partite e guardate come ride guardando l’obiettivo. Sembra un altro. E’ un altro.

Abbiamo il campionato in mano, così come il nostro destino. Dobbiamo andare avanti così, senza macerarci a guardare cosa fanno il Milan e la Juve. Dobbiamo andare avanti così, a preoccuparsi devono essere gli altri. Forza Inter, facciamo altre nove così e (non lo dico).

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Irrilevanti un cazzo

Se mi trovate un periodo più strano nell’intera storia dell’Inter, beh, mandatemi una mail e documentatemelo, carte alla mano. Astenersi perditempo. Le cose si susseguono e si accavallano di brutto mentre noi stiamo seduti sui nostri divani tipo ottovolante di Gardaland, attaccati ai braccioli mentre ne vediamo di cotte e di crude, urliamo di sconcerto e poi di gioia, discese ardite e risalite, stomaci in gola e rutti liberi, Sole 24 Ore e Gazza, gnaooooooooooom, e via verso la prossima emozione. Che alla fine ti verrebbe da dire “vabbe’, esco a fare quattro passi nudo sul cornicione”, cose così, ma poi ti viene in mente che c’è la pandemia e il coprifuoco e allora ti rimetti sul divano e ti addormenti di botto, stravolto.

Due giorni fa il nostro maggiore azionista, che sta ad alcuni fusi orari di distanza, ci ha fatto sapere così, con quelle frasi delicatamente indirette, che
noi dobbiamo concentrarci sul campo di battaglia principale, lavorare in sottrazione. Ci concentreremo sul commercio al dettaglio, e quindi chiuderemo e taglieremo le nostre attività irrilevanti in favore del commercio al dettaglio senza esitazioni“. Il noi è riferito a Suning, cioè loro. Le attività irrilevanti invece siamo noi, noi dell’Inter, la società, i giuocatori, i tifosotti tutti, qualche milionata di persone sull’ottovolante, gnaoooooooooooom, siamo in vendita, siamo primi in classifica, gnaoooooooooooom, ho voglia di vomitare, no aspetta un attimo che mi macchi il giubbotto, gnaooooooooom.

L’attività irrilevante, nel giro degli ultimi 34 giorni, ha vinto tre scontri diretti di fila in campionato, Juve-Lazio-Milan, una cosa che non capitava da anni, così, a naso, direi dieci o undici almeno. Gli scontri diretti che erano il nostro tormento infinito, la cartina di tornasole della nostra inadeguatezza, la tranvata ogni volta che ti illudevi un pochino. E invece toh, guarda che filotto. E ora che non siamo più sempre inadeguati, che beffa, siamo diventati irrilevanti.

Ma c’è un’altra dichiarazione, al pari di quella di Zhang senior, che mi piace ricordare mentre siamo qui a dominare princìpi di erezione dopo il derby. E’ il 23 dicembre, antivigilia di Natale. Già si era tutti con le palle girate per la zona rossa incombente e per la Champions appena andata a puttane, una depressione pandemico-nerazzurra che ci faceva quasi dimenticare che, battendo il Verona, avevamo appena vinto la settima di fila in campionato. Per la serie “mai una gioia” Marotta, nel prepartita, cantava il de profundis a Christian Eriksen, un giocatorino mica da ridere (no, per dire, 450 presenze e 100 gol tra Ajax e Tottenhem, più 103 in nazionale, insomma, ne abbiamo visti di peggio) (alcune centinaia, a spanne) che Conte mandava in campo fisso al 92esimo, manco fosse il cugino di Pinamonti. “Ci sono i giocatori nella lista dei trasferibili, vogliono giocare di più e cercheremo di accontentarli, li lasceremo partire per poi sostituirli. Eriksen è fra questi, ha avuto difficoltà di inserimento, non è funzionale, è un dato oggettivo. È giusto dargli la possibilità di avere più spazio altrove”.

Non funzionale. Irrilevanti. Quel delicato gergo da riunione su Zoom tra proprietario, amministratore delegato e capo del personale. Frasi che rimbalzano incontrollate fra le tre dimensioni dell’Inter – l’aziendal-cinese, la sportivo-milanese e la reality-fattuale – e a seconda dei casi svaporano, perdono consistenza o la prendono di brutto, davanti ai nostri occhi impanicati, gnaooooooooom, che non sai se sognare il diciannovesimo o immaginarti con le pezze al culo in coda alla Caritas del calcio.

Rimanendo ai dati più oggettivi: siamo contemporaneamente in vendita, irrilevanti di fronte all’attività di commercio al dettaglio, e primi in classifica in serie A con quattro punti sulla seconda, a 15 giornate dalla fine di un campionato che se me ne trovate uno più strano – l’ho già detto? Gnaaaaaaaaaaaom! – contattatemi in pvt. Quanto reggerà questa situazione? Io non lo so, non lo sa nessuno. Ma quando vedo i miei giocatori – cioè, sono di Zhang, ma per me sono rilevanti, tanto rilevanti, mica come per lui – che dopo un gol si abbracciano tutti a crocchi piramidali, quelli in campo e quelli in panchina, Conte e Oriali, il masseur e Padelli, Lukaku che esulta in italiano, ecco, queste cose qui, a me si apre il cuore, mi viene da abbracciare e leccare il televisore e mi spingo a pensare che questa accolita di giovani milionari sappia ancora distinguere il gusto dell’impresa dall’incertezza di qualche stipendio. Sappia ancora distinguere tra la possibilità di scrivere un capitolo nel libro della storia dell’Inter e l’eventualità remota ma non scartabile che quel libro magari lo portino presto in tribunale.

I tre scontri diretti vinti in un mese sono state tre partite di grande consapevolezza e di fredda determinazione, due cosette che ci mancavano da un decennio virgola qualcosa. Ora che arriveranno partite meno fascinose bisognerà tenere la barra dritta e pedalare: già il fatto di poter dire che “il campionato si vince con le piccole” è la spia di un enorme upgrade che tra i saliscendi stagionali – gnaooooooooooom! – abbiamo costruito e messo in saccoccia.

Sarebbe facile parlare oggi di Lukaku, Lautaro e Barella. Ma forse, per un senso di giustizia divina o laica che sia, bisogna prima compensare qualche insulto e qualche sospiro di sfinimento. Handa in 52 secondi ha fatto più parate decisive che nelle 52 settimane precedenti. I due più fuori dai progetti – Eriksen e Perisic, alzi la mano chi non lo ha insultato a sangue negli ultimi due mesi (alzo la mano) – sono rientrati dalla porta principale. E ricordando le tante sòle viste a San Siro ma anche l’Eto’o terzino del Triplete, mi piace pensare che Conte, Eriksen e Perisic si siano finalmente venuti incontro. Ci hanno messo un po’ ma ce l’hanno fatta. Conte rassegnato a pensare che uno come Eriksen (già descritto sopra) e uno come Perisic (che ha giocato da titolare l’ultima finale mondiale e l’ultima finale di Champions) forse è meglio farli giocare e tenere in panca qualcun altro. Eriksen e Perisic rassegnati a non giocare magari esattamente nel posto preferito, ma disposti a riprendersi una dimensione importante, a sorridere e sudare con gli altri invece che a riscaldarsi con la pettorina o a isolarsi sulla fascia.

Siamo sull’ottovolante a mille all’ora, anche noi tifosotti dobbiamo rassegnarci a non dare nulla per scontato e ad aspettarci ancora tutto – gnaooooooom! – e il contrario di tutto. Da Inter-Juve a oggi, in campionato, 14 gol fatti e uno subito. Lukaku che esulta in italiano. Eriksen che ride. Handanovic che ricorda Spalletti. Perisic che gioca per noi. Lautaro che pare Bonimba. Caro Zhang, ségnatelo: irrilevanti un cazzo.

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Maturità (notte dopo gli esami)

Inter-Lazio è stata il contrario di Roma-Inter del 10 gennaio, una quarantina scarsa di giorni fa, che in questo calcio zippato dell’era Covid sembrano minimo tre mesi. Roma-Inter poteva essere la partita della svolta e non lo fu. All’86’, con quel golletto del 2-2 preso un po’ così – alla cazzo, come tante altre cose di questa stagione -, svanì il bel film che stavamo costruendo nelle nostre povere e già provate menti: una vittoria in rimonta, in trasferta, a Roma, su un campo difficile, in uno scontro diretto, con una squadra in forma, una risposta veloce e autorevole alla sconfitta di quattro giorni prima a Genova, in quella partita senza capo nè coda. Insomma, poteva essere un cambio di passo, una prova importante. Niente, il colpo di testa di Mancini ci aveva riportato sulla terra.

Ne è seguito un mese strano, in cui abbiamo giocato tre volte con la Juve (dando lezione in campionato e rimettendoci malamente le penne in Coppa Italia), due volte con la Fiorentina, una con il Milan, insomma un mese intenso che culminava con un’altra Roma-Inter, stavolta – che combinazione – con la Lazio, in casa e non in trasferta – c’è questa gran differeza, poi? -, altro scontro diretto, con una squadra molto in forma, con le scorie di Coppa Italia da smaltire, con il Milan in prospettiva una settimana dopo, con la pressione di dover rispondere – in un modo solo, vincendo – alle sconfitte di sabato di Juve e Milan, che se non l’avessimo fatto (no, non ci voglio pensare). Avevamo più da perdere che non da guadagnare, ma abbiamo vinto. E guadagnato.

Abbiamo giocato bene, in una bella partita perchè hanno giocato bene anche gli altri. Abbiamo segnato tre gol a una squadra in serie positiva. Abbiamo reagito a un gol preso di pura sfortuna a mezz’ora dalla fine. Abbiamo recuperato gli attaccanti che ci avevano abbandonati proprio con la Juve. Ci siamo divertiti. Dimostrandoci maturi come poche volte sappiamo fare nell’ordinario.

Non è che ci capiti tanto spesso di fare degli all in tipo questo: vincere mentre le tue dirette avversarie perdono e, nel contempo, andare in testa alla classifica da soli. Che, nel girone di ritorno, non ci capitava da 11 anni, cioè nel 2010, cioè proprio quell’anno là. Ci è capitato spesso, piuttosto, nel corso degli 11 anni a venire di alternare grandi imprese a solenne delusioni, e anche dell’odierna Inter non è che ci si possa fidare ciecamente. Ma mi piace pensare che partite come queste – partite di un certo livello giocate a un certo livello – possano davvero segnare una svolta. Non c’è nulla di automatico o di acquisito, la volta dopo si ricomincia daccapo. La volta dopo è il derby. Bòn, ci siamo capiti.

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Papi, presidenti, fondi e sprofondi

Quando sono nato, il papa era Paolo VI (da qualche mese) e il presidente dell’Inter era Angelo Moratti (da otto anni). Quando ho compiuto 50 anni, l’Inter nel frattempo aveva cambiato quattro proprietari (uno da qualche mese) e il mondo nel frattempo aveva cambiato quattro papi (uno da qualche mese). Ho sempre considerato la nostra storia societaria – presidenze molto lunghe di presidenti molto milanesi – un valore aggiunto, nel senso di valore che si aggiungeva ad altri valori. Un valore identitario, che ci legava alla terra oltre che ai colori. Moratti padre, poi il cumenda Fraizzoli, poi il self made man Pellegrini, poi Moratti figlio (con breve presidenza lasciata nelle venerabili mani di Giacinto Facchetti, lombardo pure lui). Una bellissima storia di dinastie e di cuori azzurri e neri.

Quando ho compiuto 50 anni – un passo di per sè già faticoso – stavo faticosamente metabilizzando il passaggio dell’Inter in mani straniere. L’Inter, la nostra Inter, internazionale per vocazione epperò così irresistibilmente milanese, diventava anche un po’ indonesiana. E poi sarebbe diventata cinese, con spruzzate di hongkong. Ti imponi di pensare che vabbe’, è il segno dei tempi, è il calcio moderno, è il mondo dei nuovi ricchi, è la finanza senza frontiere. Ti guardi intorno e vedi sceicchi e tycoon e ti chiedi se noi siamo i figli della serva, eh no. Il presidente – dopo Moratti padre, Fraizzoli, Pellegrini, Moratti figlio e Facchetti – diventa prima uno sconosciuto e rampante riccone di Giakarta, poi un ragazzino cinese che potrebbe essere mio figlio (perchè il padre è mio coscritto, e la cosa può inquietarmi a nastro ma anche farmi simpatia, in fondo).

E adesso?

In questo periodo dai tempi compressi causa pandemia, la nostra esistenza di tifosotti si snoda a cadenza multisettimanale su due piani paralleli. C’è il piano normale – partite, palloni, polemiche, calci, sputi, pugni in faccia, Gazza – e il piano premium – bilanci, trattative, milionate, accattonaggio, pezze al culo, morte, Sole 24 Ore.

Ormai i due piani sono ampiamente comunicanti. Non solo nelle povere menti di noi tifosotti (“Vinceremo lo scudetto? O falliremo e ripartiremo dalla serie D girone B col Seregno e il Fanfulla?), ma anche nel complesso mondo di viale della Liberazione, dove il teen-presidente non mette piede da mesi (il mio coscritto da boh, anni) e dove immagino regni quella cupa atmosfera di incertezza e quel fastidioso stridìo di sedie che ti si sfilano da sotto il culo. Per non dire di Appiano Gentile, beffardamente ribattezzato Centro Suning, quella Suning che si sta defilando un po’ alla cazzo di cane, senza la decenza di spiegare un po’ al volgo come stanno le cose (perchè d’accordo l’alta finanza, il world trade e la riservatezza, ma santa madonna!). I calciatori (categoria mediamente poco incline al sacrificio e poco pregna di alti valori morali) non moriranno di fame se non ricevono qualche stipendio, per carità, ma si trovano in quel marasma psicologico e sostanziale che – con i dovuti distinguo – li accomuna a lavoratori con qualche zero di meno ma le stesse inquietudini: mi pagheranno prima o poi? il padrone chi è? non è che tra un po’ chiudono tutto? non è che tra qualche mese sono a migliaia di chilometri da qui? o magari faccio il ritiro della nazionale disoccupati al Ciocco?

E adesso, dicevo? Dopo Thohir e il piccolo Zhang, io che ero abituato a lady Renata e al presidente da marciapiede dovrò dire con imbarazzo che il mio patròn è un fondo? E a proposito di imbarazzo: ho cercato la definizione di “fondo” e non ci ho capito un cazzo. Cioè, peggio: non ho nemmeno trovato la definizione di fondo. Cioè, neanche in Yahoo Answers. Roba che se mi intervista per strada il Milanese imbruttito faccio una figura di merda epocale e fuggo in un eremo, non dopo essermi accertato che i monaci non abbiano nè Sky nè Dazn, anzi, non abbiamo niente che mi consenta anche casualmente di avere rapporti con il mondo esterno.

Con 17 partite ancora da giocare in campionato più (almeno) una, la semifinale di Coppa Italia con quella orribile squadra a strisce scolorite, non so voi ma io oscillo tra un tifo sperticato e angosciato – che peccato mortale sarebbe non vincere uno scudetto quest’anno in questo Barnum – e una scimmia sulla spalla che mi ricorda che debbo morire, e che Suning ha problemi di liquidità, e che Bc Partner tratta sul prezzo, e che a fine anno magari sarà una diaspora, e che la Fidaty sta per scadere.

No, cioè??

“Sì amico mio, tutti i puntii accumulati entro domenica 21 marzo 2021 e non utilizzati alla data dell’11 aprile scadranno e non avranno più alcuna validità”.

Ma porca troia, che periodo di merda è? In tutto questo, nelle prossime tre partite affrontiamo Juve, Lazio e Milan, tre esamoni in 13 giorni, tre partite che potrebbero dire tanto, tantissimo, o forse tutto. A Conte e ai ragazzi dico solo di tenere duro e che tra la gloria e il disimpegno io tendenzialmente sceglierei sempre l’opzione 1, che magari sarà comunque utile per il futuro o comporterà il bonus platonico ma eterno di assurgere questo manipolo di mal stipendiati a eroi del nerazzurro. E che un grande Juve merda risuoni nei vostri cuori: la storia vi ha già privilegiati, rendetevene conto, e che Suning si inculi. Forza Inter.

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