A day in the life

And though the news was rather sad

well, I just had to laugh

Per passare sarebbe servito un miracolo, un bonus cui forse non potevamo avere diritto dopo i tre pali del Liverpool. Ma anche vincere ad Anfield (per la prima volta nella nostra storia) è stato un piccolo miracolo, in dieci per più di mezz’ora, senza Barella, senza De Vrij, senza Brozo negli ultimi 20′, con Vecino, Gagliardini, Vidal, D’Ambrosio e Correa in campo, cioè cinque riserve su dieci. Ed è stata una mezz’ora emozionante, perchè di riffa o di raffa ce la siamo giocata fino al 95′, senza mai smettere di crederci. Quando l’arbitro ha fischiato la fine, qualche giocatore del Liverpool ha esultato. Il che la dice lunga.

Ora, non è il caso di fare troppa epica su una eliminazione agli ottavi di Champions che mandiamo giù con lo zuccherino di un successo inutile ma storico e comunque bello, perchè vincere ad Anfield è bello, battere il Liverpool in trasferta (là dove perdono pochissimo) è bello, poche storie. Anche quest’anno salutiamo l’Europa con un certo anticipo, condannati in premessa da un sorteggio di merda (era meglio l’Ajax). Ma le due partite con il Liverpool ci rimettono al nostro posto, là in alto, tra le big. Due partite così ci confermano che sì, ci possiamo stare. Il Liverpool è più forte di noi e ha una rosa il doppio della nostra. Ma gli abbiamo fatto trascorrere 165′ minuti che forse nemmeno loro si aspettavano. Peccato per gli ultimi 15′ di San Siro, un po’ di sfiga e un po’ di mollezza, in un attimo svaniscono i sogni, specie se non sei più abituato ad averne di così.

I tre pali del Liverpool (più due salvataggi strappamutande) compensano il rimpianto per una partita che poteva anche andare meglio e quei 120 secondi di pensieri stupendi tra il gol di Lautaro e l’espulsione di Sanchez, quando tutti ci siamo detti “Wow! Perché no?” sognando l’impossibile. 120 secondi lisergici cui sono comunque seguiti 30 minuti consapevoli e ruvidi. Giusto quella ruvida consapevolezza che ci dovrà guidare nelle undici partite che rimangono del campionato, più una (e magari due) di Coppa. L’Inter ad Anfield si è assunta una bella responsabilità: noi siamo questi. Dieci giorni fa vagolavamo per Marassi, poche ore fa sguainavamo gli zebedei a Liverpool. Noi tifosotti diamo per assodata la svolta. Indietro non si torna (si dice così, no?)

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Il mistero (mai risolto) degli scontri diretti

Pareggi (9): Inter-Atalanta 2-2, Inter-Juve 1-1, Milan-Inter 1-1, Napoli-Inter 1-1, Juve-Milan 1-1, Atalanta-Inter 0-0, Atalanta-Juve 1-1, Milan-Juve 0-0, Juve-Napoli 1-1

No pareggi (8): Napoli-Juve 2-1, Milan-Napoli 0-1, Juve-Atalanta 0-1, Napoli-Atalanta 2-3, Atalanta-Milan 2-3, Inter-Napoli 3-2, Inter-Milan 1-2, Napoli-Milan 0-1

Da disputare (3): Juve-Inter, Atalanta-Napoli, Milan-Atalanta

Milan 12 7 3/3/1

Atalanta 9 6 2/3/1

Inter 8 7 1/5/1

Napoli 8 7 2/2/3

Juve 5 7 0/5/2

Lo scudetto si vince negli scontri diretti o, al contrario, nelle altre partite (specie quelle con le piccole)? Quando – e succede ogni stagione – arrivo a prendere una posizione su questa annosa questione, succedono due cose: o mi smentiscono i fatti, o mi smentiscono gli interlocutori. Al che mi presento alla successiva stagione con il mio orientamento ricalibrato, tutto fiero di aver saputo cambiare idea – cioè, di non essere stolto -, e quando si viene al dunque mi accorgo che sostanzialmente accadono due cose: o mi rismentiscono i fatti, o mi rismentiscono gli interlocutori.

Vabbe’, ma chi se ne frega? Questa discussione rimarrà irrisolta all’infinito (è il suo bello) e l’unica cosa che posso fare è prendere due appunti – li ho messi in bella lì sopra – e interpretarli secondo l’unico altro dato oggettivo, la classifica della serie A a dieci/undici giornate dalla fine: Milan 60 (28), Inter 58 (27), Napoli 57 (28), Juve 53 (28), Atalanta 47 (27). E quindi: lo scudetto si vince negli scontri diretti o nelle altre partite?

La classifica avulsa degli scontri diretti tra le prime 5 (considero quinta l’Atalanta perchè ha una partita in meno rispetto alla Roma e perché sin da agosto fa parte del quintetto di squadre favorite per i quattro posti di Champions) suggerisce tutto e il contrario di tutto. Vincendo gli ultimi due scontri diretti il Milan ha sparigliato le carte e ha preso il volo: il Milan – con una partita in più – è anche in testa al campionato, e quindi verrebbe da concludere che sì, gli scontri diretti è molto produttivo vincerli. Ma colpisce che l’Atalanta, che ne deve giocare ancora due, è molto ben piazzata e se vincesse a Milano vincerebbe lo scudettino degli scontri diretti. Eppure nella classifica vera è quinta e pure lontanuccia (11 punti meno di noi a parità di partite). Quindi, considerando il caso Atalanta, verrebbe da concludere che no, gli scontri diretti non contano un cazzo se nelle altre partite lasci per strada carrettate di punti.

A rileggere i risultati dei 17 scontri diretti disputati fin qui, le considerazioni sono però anche altre. Più di metà, nove, sono finiti in parità. E degli otto finiti non-in-parità è curioso osservare come per sei volte abbia vinto la squadra in trasferta. Insomma, tra queste cinque squadre regna l’equilibrio. E se l’Inter avesse portato a casa un derby già vinto, la classifica avulsa sarebbe anche più corta. Certo, avessimo portato a casa il derby ora staremmo scrivendo al questore di Milano per concordare il percorso del pullman scoperto. E invece guarda tu che casino. Del resto, abbiamo vinto un solo scontro diretto su sette. Ne abbiamo perso solo uno, occhei, ma pareggiandone cinque non abbiamo mai dato la spallata decisiva.

Dunque, se è vero che tra le cinque regna l’equilibrio, vuol forse dire che più degli scontri diretti pesano le altre partite. In cui l’Inter ha fatto un pochino meglio del Milan. E in cui la Juve, che negli scontri diretti ha fatto cagare, ha invece reso più di tutti. In fondo il livello del campionato italiano lo possiamo anche desumere da questo: che tra le squadre di vertice c’è un sostanziale livellamento (un pochino verso il basso) e che la orripilante Juve di Allegri è ancora lì che se la gioca. Alla quarta giornata la classifica diceva Napoli 12, Inter e Milan 10, Juventus 2. Togli le prime quattro giornate (la Juve incontrò Udinese, Napoli, Empoli e Milan) e la Juve, tra bassi e alti, ha avuto lo stesso rendimento delle altre.

Alla fine di tutto questo ragionamento, mi sovvengono due considerazioni: a) non potrei giurare se gli scontri diretti in sè contino più delle altre partite; b) sono due scontri diretti – il derby buttato via, il pari con la Juve con un rigore all’87’ che non doveva essere fischiato – a condizionare il campionato dell’Inter. Due finali di partita in cui hanno cambiato destinazione così tanti punti che, porca miseria, speriamo di non dovercene pentire in eterno.

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La grande imbruttimentezza

Non c’è alcun dubbio che il bilancio del febbraio dell’Inter (6 partite, 1 vinta, 2 pareggiate, 3 perse, 4 gol fatti, 7 gol subiti, 2 punti nelle ultime 4 di campionato – Milan e Napoli ne hanno fatti 8) sia oggettivamente disastroso. Mi piace ricordare che qualcuno già storceva il naso a gennaio – cioè il mese scorso, mica tre anni fa – quando già diminuivano gli effetti speciali ma su 5 partite ne vincevamo 4 (due ai supplementari) conquistando la Supercoppa contro i gobbacci, passando un turno di Coppa Italia, andando a pareggiare a Bergamo, insomma, mica bruscolini. Il che mi fa pensare che il meraviglioso mese che ha preceduto il Natale, con sei vittorie di fila senza prendere un gol e segnandone 17, ci abbia un po’ illuso che tutto fosse facile, bello, bellissimo, meraviglioso, eccezionale, pum pum pum! Ma in fondo cos’era successo? Che avevamo vinto a Roma, sì, ma con una Roma un po’ allucinata, e poi con un Cagliari in piena depressione, con una Salernitana allo sbando, con il Venezia, lo Spezia… Ci siamo divertiti un sacco, ma più o meno consapevoli che il peggio doveva/poteva ancora venire.

Mi piace anche ricordare che, nel 2022, abbiamo giocato 11 partite in un mese e mezzo, con 4 turni infrasettimanali (Champions, Supercoppa, 2 Coppa Italia) e con una tale densità di difficoltà (Liverpool, Milan, Juve, Napoli, Atalanta, Roma, Lazio) che arrivare sul più bello con la lingua fuori e le idee annebbiate, come dire, è il minimo che possa capitare a un club che dispone di 14/15 giocatori “veri” e che quindi è costretto a far giocare sempre quelli – e ringraziamo che di infortuni seri non ce ne sono stati, non oso immaginare se ci fosse capitata un’ecatombe tipo Juve (sia chiaro, ecatombe moralmente meritata, Iddio li strafulmini). Proprio in occasione della partita più importante e fascinosa, quella con il Liverpool, ci siamo accorti della differenza abissale che c’è nell’avere una rosa ampia e nel non averla: fai la tua partita, li metti alle corde, prendi una traversa, ti sbatti oltre ogni limite e bòn, molli un attimo e perdi 2 a 0, bye bye and thank you so much.

Siamo così arrivati in pieno marasma alle ultime due partite, che dopo un mese e mezzo di big match dovresti passare all’incasso con 6 punti e invece ne fai uno. Conseguenza diretta di situazioni che in questa stagione, se non molto occasionalmente, non erano mai state nostre: come nel primo tempo col Sassuolo, spenti e passivi, o come nell’intera partita con il Genoa, sempre poco lucidi. Le statistiche sembrano quelle di uno e due mesi prima: possesso palla 59% col Sassuolo (tenendo conto che per mezz’ora nel primo tempo non l’avevamo vista) e 72% col Genoa, tiri 29 col Sassuolo e 21 col Genoa, corner 8-3 col Sassuolo e 14-0 col Genoa. I fatti dicono che siamo stanchi, disuniti, un po’ persi.

Il tour de force non è finito. I prossimi due martedì abbiamo Milan e Liverpool e sarà un altro massacro di fisico e di testa. Poi, fino al 20 aprile (Coppa Italia, derby di ritorno) non avremo più impegni infrasettimanali (anche se prima o poi fisseranno il recupero col Bologna), ci sarà la pausa per la Nazionale: insomma, potremo tirare il fiato, quantomeno recuperare o gestire meglio le forze. Le cose potrebbero andare meglio.

Verrebbe anche da dire che se il colpo di testa di D’Ambrosio avesse impattato la traversa del Genoa un centimetro più sotto, avremmo passato una nottata tranquilla a scrivere la tabella scudetto e a rivedere gli highlights di Milan-Udinese (noi non stiamo bene, ok, ma gli altri come stanno?). Ma sarebbe un modo un po’ troppo assolutorio di affrontare la questione. Quello che preoccupa è vedere un’Inter smorta, confusa, che non si diverte più. Quello che preoccupa è vedere i giocatori del Dream Team prenatalizio mandarsi bellamente affanculo per un passaggio sbagliato (e ne sbagliamo parecchi, quindi volano parecchi vaffanculo). Eravamo belli e ci siamo un po’ imbruttiti. Bisogna tornare a segnare, a sorridere. Bisogna tornare a essere positivi. Anche se in questo momento sembra una roba impossibile, tipo vincere 3-0 ad Anfield.

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Altro pianeta un cazzo

Il titolone del Corriere dello Sport – “Altro pianeta” – è sbagliato. Non rappresenta la realtà di Inter-Liverpool, è stupidamente compiaciuto e gronda di quel provincialismo di cui bisognerebbe ogni tanto sbarazzarsi. “Peccato” di Tuttosport magari contiene un retropensiero – o un risolino sarcastico – ma è sicuramente più legato ai fatti: “Peccato” ieri sera l’abbiamo detto un po’ tutti, no? “L’Inter si mangia le mani” della Gazza (con impeccabile foto di Perisic intento a mangiarsi le mani, la stessa usata dal Corriere dello Sport che quindi ha pure sbagliato foto) centra sicuramente di più il nostro mood: ci abbiamo sperato, abbiamo avuto le nostre chance, non le abbiamo sfruttate e ora, vabbe’, ci mangiamo le mani.

Altro pianeta no. L’Inter ieri sera ha dimostrato che nell’altro pianeta ci può stare, ed è forse l’eredità più importante che ci lascia una partita giocata nel presunto altro pianeta che invece è piuttosto simile alla Terra, esseri con due gambe a spasso su erba rizollata, pallone di cuoio che rotola, quelle robe lì. Un’Inter impanicata, passiva, persa, trincerata sarebbe stata la dimostrazione pratica della differenza di pianeti. E invece no, proprio no, proprio mai. Altro pianeta un cazzo.

Altro livello invece sì, questo bisogna serenamente riconoscerlo e faceva parte delle incognite più banali del prepartita. Il livello differente di due squadre con basi e trascorsi molto diversi (il Liverpool agli ottavi di Champions è la normalità, l’Inter agli ottavi di Champions è un ritorno dopo dieci anni, che sono tanti). Il livello di differenza che c’è tra un’Inter che ha un’assenza importante e oggettivamente non la può rimediare, e un Liverpool che inizia la partita schierando un ragazzino (proprio laddove doveva essersi Barella) e tenendo in panchina – parlando solo di centrocampisti – Henderson, Keita, Oxlade-Chamberlain e Millner (cioè una seconda intera linea di centrocampo a tre, più un altro ancora), più Firmino, Luis Diaz, Gomez, Matip, Origi ecc. ecc., una squadra 2 che in Italia sarebbe minimo in zona Champions.

Su questo, beh, non possiamo farci niente. Il livello è diverso, si sapeva. Ti può capitare di non pagarlo (chissà se Chala avesse segnato invece che prendere la traversa, o se Dzeko fosse stato mezzo metro più indietro nell’azione del gol annullato) oppure no, ti può capitare di dover seguire uno schema spietatamente preciso e di dover passare a un certo punto alla cassa lasciando giù anche le mutande, mentre gli altri alla cassa a fianco aprono quei portafoglia a fisarmonica con venti carte di credito e bòn, vuoi questa?, vuoi quella?, e via verso la prossima avventura.

Le partite non durano 70 minuti – peccato, direbbe Tuttosport – sennò avremmo 10 punti di vantaggio in campionato e andremmo a giocarcela ad Anfield. Le nozze non si fanno con i fichi secchi e aggiungete voi qualche altra perla di antica saggezza. Ma bisogna trarre il meglio da una notte splendida e poi certo deludente, ma non certo devastante. Ha ragione Inzaghi: oggi, pur fuori dalla Champions salvo eventi miracolosi, dovremmo sentirci un po’ più forti. Bisogna autoconvincersi che siamo atterrati nel pianeta giusto. Abbiamo magari lo scafandro con le toppe e un’astronave di seconda mano, ma siamo nel pianeta giusto.

Se solo, sant’iddio, avessimo tirato in porta tutte le volte che ne avevamo l’opportunità: ma questa è tipicamente una questione di livello, non di pianeta.

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1 X 2

Le prime tre partite del poker che in 11 giorni sta ridisegnando il nostro destino a breve e medio termine sono finite con una tripla, 1 x 2, un vittoria un pareggio una sconfitta, non un disastro ma nemmeno un trionfo. Abbiamo perso forse la partita più facile – purtroppo anche la più dolorosa -, quantomeno quella meno complicata nella sua architettura teorica, un derby in casa da vincere e stop, senza troppi calcoli, con una posta in palio così golosa – tipo dare una spallata al Milan e al campionato intero – che di default avresti dovuto moltiplicare motivazioni, cazzimma, tutto. Invece no. La seconda partita, quella con la Roma, a quel punto diventava molto più pericolosa e delicata di quanto non lo fosse di suo, ad appena tre giorni dalla tranvata del derby: un esame superato bene, senza soffrire, senza abbandonare mai il controllo delle operazioni. Infine Napoli, in bilico sul precipizio, perché perdere anche quella partita dopo il derby sarebbe stata una catastrofe (e poteva succedere, non fosse altro che il Napoli era forse la squadra più in forma e in fiducia del campionato): un tempo a ballare la rumba e un tempo, il secondo, a reagire da grande squadra.

1 x 2, dunque. Che se ci fosse ancora la schedina del Totocalcio io una tripla, per scaramanzia, ce la piazzerei anche su Inter-Liverpool, così, per godermela in santa pace, sapendo che col 2 fisso andrei più sul sicuro e con l’X stapperei un prosecco, ma magari chissà, the ball is rotond, the bottle is on the table, non è che per forza deve vincere il migliore, no?

Torniamo dopo 10 anni tra le big d’Europa e troviamo subito uno dei tre-quattro top team degli ultimi quattro anni, compreso questo. In questo lasso di tempo il Liverpool ha vinto una Premier con sette giornate di anticipo, è arrivato una volta secondo battendo il record di punti per una seconda, una volta terzo e quest’anno è ancora secondo, lontano dal solito City ma con una partita da recuperare. Ha vinto una Champions, una Supecoppa europea e un Mondiale per club. Sono quattro stagioni ma è come se fossero tre, quella passata praticamente non vale: a un certo punto gli si sono infortunati tutti i difensori centrali (come se a noi mancassero per mesi contemporaneamente De Vrij, Skriniar, Bastoni e pure Ranocchia), rimpiazzati con centrocampisti o mezze figure raccattate qua e là sul mercato – e ciononostante sono arrivati terzi in rimonta in Premier dopo essere sprofondati in primavera tipo all’ottavo posto.

E’ una squadra piena di signori giocatori, micidiale sulle fasce (Alexander-Arnold e Robertson) e dalle fasce (Salah e Manè) e spiace che nel mezzo, dove forse ce la si poteva giocare, ci manchi il più dirompente di tutti. L’assenza di Barella è un ulteriore handicap in un match dove partiamo in teoria così sfavoriti che, appunto, c’è quasi da star sereni: uscire con il Liverpool è un destino segnato, tutto quello che può succedere in meglio è un di più.

Se la partita con il Milan dimostra che il nostro peggiore nemico siamo noi stessi, quelle con Roma e Napoli si restituiscono una dimensione diversa – migliore – dell’Inter, di quello che sa fare, di come lo può fare. In una settimana abbiamo mostrato tutto il nostro campionario, nel bello e nel brutto. Certo, il nostro ruolino di marcia negli scontri diretti non ci disegna come la squadra più spietata dell’universo (noi i nemici non li annientiamo: tutt’al più ci pareggiamo), ma era un pezzo che non ci si divertiva così, letteralmente, a vedere partite sempre tirate, spesso belle e qualche volta bellissime. Un’estetica non a vuoto, perché siamo sempre lì ad aspettare che succeda qualcosa, sapendo che prima o poi qualcosa arriverà.

Un’ipotetica Inter di Conte avrebbe preparato la Maginot prima di tutto. Quella di Inzaghi non ce l’ha tra le opzioni, la Maginot. Farà la sua partita come ha sempre fatto, con la Juve come con il Venezia, con il Genoa come con il Liverpool. Magari ce ne fanno cinque, ma io non vedo l’ora. La musichetta, il Liverpool, l’Inter. No, non vedo l’ora.

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Brividi

Dominare le partite per un’ora e poi mandarle a culo nella restante mezz’ora. Uhm, dove l’avevamo già vista ‘sta cosa? Ah sì, nei primi due mesi e mezzo della stagione, una partita sì e una no, giusto fino al derby d’andata, match-paradigma (insieme all’Inter-Juve di due settimane prima) della nostra pessima tendenza a fare trenta e mai trentuno, soprattutto negli scontri diretti. Mai inferiori a nessuno – anzi, spesso superiori – e regolarmente a mani quasi vuote alla fine. Tutto questo non era gratis: costava parecchio. Alla sera di Milan-Inter arrivammo a meno sette. Andati in vantaggio, sbagliato un rigore, raggiunti. Se Kessie avesse calciato con un minimo di cazzimma in più quel pallone finito invece sul palo, saremmo sprofondati a meno 10.

Da quella sera in poi abbiamo vissuto un mese e mezzo tra gli esteticamente migliori della nostra vita nerazzurra – partite dominate dall’inizio alla fine, futbol bailado, frizzi e lazzi – e abbiamo sistemato i conti. Poi è seguito un gennaio meno scintillante, anzi, piuttosto faticoso. Ma, piccolo particolare, quasi immacolato. Le abbiamo vinte tutte tranne una, il pari a Bergamo, che andava più che bene. Abbiamo vinto la Supercoppa. Abbiamo sudato parecchio per vincere, sicuramente sprecato un po’ di energie. Però, accidenti, è stato un gennaio come raramente ne abbiamo portati a casa.

Ora, tipo Monopoli, abbiamo pescato un imprevisto e siamo ritornati al via, una specie di penitenza che ci ha riportati per una sera – speriamo una sola – a essere quelli di qualche mese fa, irresistibili e spreconi per un’ora e poi stop, facili a perdersi, propensi a rinculare, disperatamente legali alla casualità dell’assalto finale. Peccato perché non era solo un derby – che già scoccia di suo – ma anche lo scontro diretto con la seconda in classifica, che recupera di botto tre punti e un sacco di fiducia. Ed era anche la prima partita di quattro – Milan, Roma, Napoli, Liverpool – che nel giro di 11 giorni ci diranno tante cose su di noi e il nostro futuro prossimo. Non è stato un grande inizio: invece di gasarti a mille perdi un derby regalandolo, bleah.

Il danno è proprio questo, immateriale. Giocare quattro partite fondamentali in 11 giorni, quattro partite da brividi (ogni riferimento è puramente voluto), richiede serialità e positività, un po’ come nel basket quando tiri da tre e vanno dentro tutte, oppure non ne entra nessuna manco a pagare e la scimmia passa da una spalla all’altra in attesa che un ciuff spezzi l’incantesimo. Ma c’è anche poco tempo per pensare. Il che è solo un bene.

Restiamo i più forti, non ci sono cazzi. Il derby dimostra che le partite possiamo perderle principalmente a causa nostra. Detto così, è un problema facilmente risolvibile. Risolviamolo.

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Maravilla

Oggi, 12 gennaio 2022, per la prima volta sono entrato davvero in sintonia con Simone Inzaghi. Quando si è presentato alle interviste post partita senza più voce, sono andato d’istinto in cucina a preparare un latte e miele e i suffumigi col bicarbonato. E glieli avrei portati in zona mista, il tempo di prendere la macchina e correre verso San Siro (non c’era nemmeno la nebbia). L’azione del gol vittoria – un gol al 120′ con la Juve, Iddio li strafulmini, una cosa che comunque resterà nei nostri ricordi più cari – portava la firma di tre giocatori subentrati e, quindi, la controfirma dell’allenatore. Con cui sto ripercorrendo la parabola contiana: un tempo mi stava sul culo, ora lo adoro.

Con quella che a metà agosto, via Lukaku, sembrava destinata a essere una mezza squadra, Simone Inzaghi è tornato a farci vincere una coppa dopo 11 anni (la Supercoppa dopo 12) così come dopo 10 anni ha condotto l’Inter agli ottavi di Champions. Se ci aggiungiamo il titolo d’inverno in campionato, a metà stagione Inzaghi – e l’Inter con lui – ha già raccolto tutto quello che poteva raccogliere. Resta ora il difficile, cioè completare l’opera, e ci aspettano quattro mesi e mezzo di partite, sudori, angosce e accidenti. Ma la coppetta di stasera ci dà un brivido non banale: quello dello scricchiolio della bacheca cui andiamo ad aggiungere un trofeo. Un momento liberatorio tra Covid incombente, tamponi molecolari, stadi dimezzati, Ats invadenti.

Sono passati solo due mesi e mezzo dall’altra partita con la Juve – era il 24 ottobre – che era stata l’ultima di una certa Inter, l’Inter della prima parte di stagione, quella che non chiudeva mai le partite, che non vinceva gli scontri diretti eccetera eccetera. Quella che era andata 7 punti sotto in campionato e che a momenti si vedeva sfuggire la Champions in un girone più che abbordabile. Lo spettro di quella partita – come abbiamo fatto a non vincere contro quella Juve? – forse ha aleggiato questa sera sul prato di San Siro, dove noi non siamo riusciti a mettere dentro più di un pallone appetitoso e dove la Juve stava riuscendo a sfangarla per l’ennesima volta. La Juve era in finale di Supercoppa per merito nostro, che l’anno scorso ci siamo fatti buggerare in Coppa Italia. E tutto questo intersecarsi di vecchie e nuove partite mi stava lasciando pensare che sì, ‘sti stronzi ce l’avrebbero messo in quel posto un’altra volta.

Dopo 120′ trascorsi a cercare di essere belli ma senza riuscirci, contro una squadra che mira a imbruttirti per sistema – e che in più è la Juve -, la voglia feroce con cui abbiamo spinto dentro il pallone (l’anticipo di Darmian, il blitz di Sanchez) è stato lo spot di una squadra che rispetto al 24 ottobre è cambiata in un po’ di cose ma specialmente in questo: e cioè che anche al 120′ le partite le vuole chiudere. E’ la decima vittoria nelle ultime 11 partite (otto di campionato, due di Champions, più questa magica Supercoppetta scippata ai gobbi mentre già stavano prendendo appunti per i rigori) e se non c’è stato il futbol bailado cui ci eravamo incredibilmente abituati prima di Natale vabbe’, who cares? C’era da battere la Juve e vincere un trofeo, mica da andare in porta col pallone facendo le foche monache.

Bisogna già pensare all’Atalanta, ma prendiamoci il tempo di qualche bel sospirone: un gol alla Juve all’ultimo secondo di una partita secca è un superlusso che rievocheremo finchè avremo la forza di sollevare pinte di birra e, tra un rutto e l’altro, elevare il mantra che adesso, in onore degli sconfitti, per una volta recito solo a mente.

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Da Conte a Cracco

Dal giorno del (doppio) sorteggio di Champions, non faccio che ripensare alla metafora contiana del ristorante, visto che nelle tre stagioni precedenti eravamo partiti con grandi progetti culinari ed eravamo poi finiti a mangiare un trancio di margherita dallo Zozzone. Qualificandoci agli ottavi, abbiamo finalmente prenotato nel locale da 100 euro. Ancora non è chiaro quanti soldi abbiamo e avremo in tasca, ma la prenotazione c’è, siamo in lista, abbiamo lasciato il numero di telefono, abbiamo detto a che ora arriveremo, rovisteremo nell’armadio alla ricerca dell’outfit più adatto.

Questo paragone sarebbe stato perfetto per l’Ajax. Poi la Uefa ha riscritto la legge di Murphy e noi quella dell’uccello padulo, e tre ore dopo ci siamo beccati il Liverpool. Ecco, così facendo praticamente ci hanno prenotati da Cracco senza nemmeno chiedercelo. La questione dei soldi è quasi marginale, perchè con i 100 euro del parametro di Conte non oltrepassiamo la metà del menù degustazione. Ma perchè negarci l’emozione di andare alla mensa dei grandi e magari di fare la nostra porca figura, azzeccando i bicchieri e le posate corrette, prendendo il pane dal piattino giusto (remember: è quello a sinistra, nun ce fate figure demmerda! – cit.), ruttando con discrezione portandoci il tovagliolo alla bocca? Che poi magari alla fine Cracco esce in sala, fa spegnere tutte le luci tranne una che illumina noi, ci segna con il dito e dice: “Complimenti, lei è il mio centomillesimo cliente, offro io”, eh?

Un anno fa, con Lukaku Eriksen e Hakimi – quindi, col vestito giusto e il portafoglio gonfio -, uscimmo da un girone brutto ma non bruttissimo, sicuramente non peggiore di quelli dei due anni precedenti. Giocammo la Champions nella fase più problematica della nostra stagione, vivendo essa stessa come un problema – eliminato il quale, fuori da tutto, dopo Natale passeggiammo sui resti altrui. Praticamente siamo andati al ristorante da 100 euro vestiti bene, ma senza soldi. Poi, vestiti uguali e dopo essere passati dal bancomat, siamo andati in trattoria, cucina casalinga menù fisso, e abbiamo pagato un giro di amaro a tutti i presenti per poi mandare l’oste a comprare un Pommery al Bennet.

La prospettiva del Liverpool è apocalittica o meravigliosa, a seconda di come la si voglia vivere, e io propenderei per la seconda. Se avessi davanti la rosa dell’Inter e Zhang mi delegasse per fare il discorsetto pre-gara io direi: godetevela (brusio). Beh, copritevi il culo (brusio) ma godetevela, let’s go! (timido applauso). Il Liverpool è formalmente fuori portata, quindi è inutile trascorrere due mesi a immaginarsi il disastro. Godiamoci, dopo 11 anni di Bagaglino, il ritorno alla Royal Opera House. Godiamoci, dopo 11 anni di Beer Sheva, una doppia partita alla dimensione più alta possibile. Ci siamo guadagnati l’invito a cena, pensavamo di andare da un mono-stellato e ci hanno dirottati su Cracco. Beh, andiamoci. Ci sono occasioni in cui svuotare la carta di credito ha comunque il suo perché.

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A2

Da quattro anni (dopo un vuoto assoluto di sette) siamo tornati a competere ai piani alti del calcio europeo, cioè in Champions League. E per la prima volta dopo quattro stagioni quest’anno giocheremo anche in primavera, negli ottavi di finale, un’emozione che ci mancava da 11 lunghi anni. Non era necessario vincere a Madrid, essendo già qualificati come secondi con una giornata di anticipo in un girone modesto, dove le prime incredibili due partite dello Sheriff avevano rimescolato le carte e ci avevano fatto credere di essere vittime di una maledizione. Poi, siamo stati bravi a toglierci dall’imbarazzo e abbiamo celebrato senza eccessi.

Vabbe’, potrebbe dire qualcuno, cazzo ve ne frega di vincere a Madrid, scusate? Beh, sarebbe servito a due cose: arrivare primi nel girone (e guadagnare la possibilità di un sorteggio morbido che invece, salvo essere culattoni tipo la Juve, non avremo); mettere la parola fine a una fase e aprirne un’altra. Non l’abbiamo fatto e sarà eccitantissimo provare a farlo negli ottavi, per carità. Ma rimaniamo a oggi e guardiamoci indietro.

In queste quattro stagioni di gironi eliminatori, come teste di serie del nostro girone (discreta sfiga) abbiamo trovato due volte il Barcellona e due volte il Real. Otto partite contro due tra i super top club europei con il seguente score: 0 vittorie, 1 pareggio e 7 sconfitte, con 5 gol fatti e 14 subiti.

Per due volte (i primi due anni) nel girone ci siamo trovati anche un secondo top club (discreta sfiga/bis), il Tottenham nel 18-19 e il Borussia Dortmund nel 19-20. Con entrambe, abbiamo vinto in casa e perso in trasferta. Se vogliamo aggiornare la classifica avulsa: 2 vittorie, 1 pareggio e 9 sconfitte in dodici partite, con 11 gol fatti e 19 subiti. Una sola volta su 12 partite non abbiamo preso gol: Inter-Borussia Dortmund 2-0, gol di Lautaro e Candreva, era il 23 ottobre 2019. Abbiamo perso tutte e sei le trasferte, in metà dei casi senza segnare.

Che sconfitte sono state? Mai disastrose. Tre volte 0-2, le altre tutte per un gol di scarto. Partite anche molto diverse tra di loro, ma che potremmo accomunare in un solo aggettivo: frustranti. Partite che abbiamo perso meritatamente, qualche volta. Ma che in qualche caso avremmo potuto vincere, e bene. Come dimenticare i primi tempi di Barcellona e Dortmund chiusi in vantaggio, o anche il primo tempo con il Real dello scorso settembre? Comunque, a parte quell’Inter-Barcellona 1-1 del novembre 2018 (pareggio di Icardi nel finale), con le spagnole le abbiamo perse tutte. E con le altre due, abbiamo fatto pari ma sono passate loro, quindi niente, male male.

Frustranti. Frustranti perchè ogni volta abbiamo commentato allo stesso modo: “Non siamo ancora a quel livello”. E quindi, fatti i dovuti conti, è lecito affermare che nonostante quattro anni di allenamento e di indubbia crescita, a quel livello non ci siamo ancora.

Inutile star qui a ripercorrere la storia societaria, sportiva, tecnica, tattica e psichiatrica dell’Inter di questi ultimi 11 anni, perchè la sappiamo tutti a memoria. In queste ultime quattro stagioni, parlando di dimensione europea e relative ambizioni, abbiamo attraversato stati diversi, dalla quasi serenità (“siamo tornati qui, ci vorrà del tempo ma accontentiamoci”) al profondo disappunto di cui sopra (“siamo tornati qui ma siamo sempre un gradino sotto”).

Siamo in serie A, ma forse giochiamo la A2, confusi in quel gruppone di club che le prime cinque/sei (la Super-Superlega virtuale) le vede ancora col binocolo. Quel che siamo ci basta ampiamente per puntare a vincere il nostro campionato, ma ci mantiene un po’ subalterni (nel senso di inferiori) all’Olimpo calcistico. Che poi chissà, la palla è rotonda, la ruota gira, l’uccello padulo non fa necessariamente delle preferenze eccetera eccetera, però non abbiamo ancora le carte in regola per dire con sicumera che sì, ce la giochiamo.

Cioè, a febbraio ce la giocheremo, ovvio, ma come? Con la stessa dinamica delle otto partite con Real e Barcellona di cui sopra? Cioè quasi rassegnati a non vincere? Quello che ci è mancato in queste quattro fasi di Champions è proprio l’ultimo scatto, quello decisivo. Per questo sarebbe stato bello vincere a Madrid: per certificare che sì, ci siamo anche noi, avete visto?, ci abbiamo messo un po’ ma ce la possiamo fare. Ci toccherà farlo in corsa, probabilmente a livello di difficoltà 10/10. Una cosa che ha un dannato fascino, ma che lascia (diciamo così) terribilmente inquieti.

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Belli (e possibili)

“Non mi ricordo di avere visto l’Inter giocare così bene…”, “Era da un pezzo che non mi divertivo tanto…” fino all’assoluto “Non ho MAI visto l’Inter giocare così”. Non che mi fidi dell’intelletto dei tifosi, gentaglia dalla memoria corta e dall’entusiasmo (o il catastrofismo) facile. Ma se qualche indizio fa pur sempre una prova, era da parecchio che non sentivo tanti nerazzurri sbilanciarsi così all’unisono come nel post partita – anzi, anche durante la partita – di Roma-Inter. Il tema è interessante perchè sulla bellezza dell’Inter – storicamente una squadra che non ha bellezza e innovazione nei suoi primi cinque trend topic – ci stiamo sbilanciando da inizio stagione, pur nell’evidenza che in questi primi cento giorni di stagione la bellezza non si è tradotta sempre in risultato, anzi.

Il link bellezza+risultato è roba recente, dell’ultimo mese abbondante, da quando cioè ci siamo messi a chiudere qualche partita in più, invece che fare i belli per un’ora e poi basta, imbruttirci nella nostra metacampo. E forse non è nemmeno il caso di festeggiare troppo l’exploit di Roma, ottenuto contro una squadra allo sbando, con tante assenze e con qualche presenza malmostosa. Però vincere a Roma è sempre cosa buona – visto, poi, che nello stesso stadio un paio di mesi fa abbiamo fatto la peggior partita dell’anno – e aver passeggiato sulle macerie del nostro ex vate, cui dobbiamo riconoscenza eterna ma senza per forza fare sconti, ha un che di catartico.

La bellezza è fugace anche nel calcio. La nostra bellezza attuale dipende essenzialmente dallo stato di forma (fisico e mentale) eccellente di buona parte della rosa, dal rendimento elevatissimo dei nostri giocatori-chiave e dal momento addirittura magico di elementi che pensavamo persi alla causa (Perisic) o destinati all’aurea mediocrità (Çalhanoğlu) (di cui mi pregio ogni volta copincollare il nome, non riuscendolo a imparare nè riuscendo a trovare le lettere necessarie sulla tastiera). E’ un accrocchio di situazioni che potrebbe svanire da un momento all’altro, o comunque traballare, segnare il passo, incepparsi. Stiamo superando qualche test importante (tipo giocare partite quasi senza difensori), ma la strada è ancora lunga e le delusioni sono, appunto, ancora recenti.

Di sicuro, il primo tempo con la Roma resta un fatto da celebrare. La positività – la gioia, quasi – trasmessa dalla squadra nel giocare costantemente all’attacco e alla ricerca del bello è una sensazione oggettivamente rara. Qualcosa che va al di là del “semplice” fare gruppo – a quello siamo felicemente abituati da un po’. E’ uno stato di grazia.

Tutto questo, naturalmente, ha un côté piuttosto etereo. Possiamo anche definirci strabelli, ma in campionato non siamo primi e ne abbiamo un altro paio attaccati al cavallo dei pantaloni. Squadre anche meno belle, insomma, hanno più o meno i nostri punti. E’ un fatto che da quando siamo anche un po’ più concreti, oltre che belli, abbiamo recuperato pericolosi e cospicui svantaggi in campionato e in Champions. Ma non è ancora tempo di fermarsi davanti allo specchio e dire

“Minchia, ma che bella squadra siamo?”

perchè non è proprio il caso. Il mondo non è fatto di gol segnati andando in porta col pallone, dopo diciassette triangolazioni, tocchi di suola, tacchi, veli, no look, quelle robe lì. Non dobbiamo dimenticarci di sporcarci di terra e di restituire maglie grondanti al magazziniere. La nostra storia va rispettata, e che cazzo. Pettiniamoci bene e vestiamoci all’ultima moda, ma senza dimenticare che l’uomo ha da puzzà.

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