Sul fallo di confusione, come direbbe Elio, c’è chi ci ha costruito su un impero. Il fischio di De Santis il 7 maggio 2000 in Juve-Parma – azione da calcio d’angolo all’89esimo minuto della penultima giornata di campionato – è passato alla storia del nostro calcio: un fischio deciso per interrompere gratuitamente un’azione, così, essenzialmente per evitare imprevisti, contando che nel casino qualcosa succeda a giustificare la chiamata. Cannavaro segnò per il Parma un gol regolarissimo, con un’incornata però contemporanea al fischio di un fallo che non c’era, un fallo eventuale – figuriamoci se non viene commesso un fallo in un’area strapiena di gente che attende gli sviluppi di un calcio piazzato – che invece non si verificò. Comunque sticazzi, il fischio stese un velo su cose vere o presunte (peccato solo che ci siano dieci telecamere a documentare il non-fallo, ma vabbe’) e via. Sette giorni dopo l’uragano di Perugia sistemò le cose, ma quel fischio passò alla storia lo stesso, nel girone delle pessime cose e dei pessimi individui. Non spianò la strada allo scudetto della Juve perchè sette giorni più tardi accadde un fatto altrettanto straordinario e storico. Ma, per dire, costò la Champions al Parma (ci andammo noi dopo lo spareggio proprio con il Parma. Mors tua, ecc.).
Ventidue anni e mezzo dopo, e cinque anni e mezzo dopo l’introduzione del Var, il fischio alla De Santis di questo Juan Luca Sacchi in Monza-Inter ci riporta a vecchie atmosfere arbitrali, quella dei fischi alla cazzo irrimediabili, proprio ora che il Var ci aveva fatto entrare nella dimensione dei fischi rimediabili. Sacchi ha fischiato male e con troppo anticipo, ancora prima che Acerbi segnasse. Il difensore del Monza era stato effettivamente sgambettato, ma da un suo compagno. Gol valido, Var neutralizzato. Insomma, una gran bella merda.
Non si può parlare di Monza-Inter senza fare questa lunga premessa. Sul 3-1 la partita sarebbe probabilmente finita e ora saremmo tutti qui a bere birre e a darci pacche sulle spalle. E invece no.
Tocca quindi parlare male dell’Inter, due volte in vantaggio e due volte rimontata, altre due pere in trasferta (e fanno 20 a nemmeno metà dal campionato, una vergogna), altre falle nell’atteggiamento (ok, ci hanno rubato la partita, ma potevamo/dovevamo risolverla comunque, eravamo a Monza, mica a Manchester) tre giorni dopo aver battuto il Napoli e aver rilasciato dichiarazioni paracule in fotocopia “sì, ma ora dobbiamo dimostrare già a Monza che…”.
Ecco.
L’Inter i disastri veri li ha fatti nei primi due mesi. Nelle ultime 9 partite ne ha vinte 7, pareggiata 1 e persa 1, e francamente firmerei per una serie così nelle prossime nove. Però, accidenti, non ci possiamo più permettere di buttare via punti. Non a Monza. Non riuscendo a gestire una partita già vinta. Prendendo due gol ancora una volta a difesa schierata e immobile, come se in trasferta ci andasse in pappa il cervello.
E quindi a due domande profondamente diverse – vi hanno rubato la partita? siete una squadra di coglioni? – ci tocca rispondere sì.
L’esperienza dei 51 giorni di pausa del campionato in pieno inverno, con in mezzo un campionato mondiale nel deserto di cui sostanzialmente non mi fregava un cazzo (nè nel mondiale nè del deserto), mi ha calcisticamente disorientato. Tanto che al momento di rituffarmi nel normale scorrere del calcio mi sono accorto di essere impreparato. Molto impreparato. Avevo perso completamente il filo.
Per dire: qualche giorno fa faccio zapping e mi imbatto in una partita del Tottenham. Un tizio apre sulla sinistra e la palla finisce a Perisic. Uh, Perisic, quanti ricordi, quanto tempo. L’avevo già visto con la maglia del Tottenham, poi con quella della Croazia in mezzo al deserto, che nostalgia per quei doppi passi a liberare i cross. Bei tempi, quando sarà stato che era ancora all’Inter?
Sette mesi.
Sette mesi fa ne metteva due alla Juve nell’extra time e vincevamo la Coppa Italia. La Coppa Italia? Parevano trascorsi anni, invece erano sette mesi. Quando avevamo vinto in trasferta A Bergamo? Il 13 novembre, ok, ma di che anno? Venti Ventidue? Ah, 51 giorni fa?
Così ieri mi sono trovato 10 partite di serie A in un giorno solo (non so, non accadeva pare da 170 anni) e mi è venuto una specie di attacco di panico. Non ricordavo niente. Chi gioca dove. Chi allena chi. Risultati, classifica, marcatori. Niente.
Vabbe’, ovvio, qualcosa dell’Inter ricordavo. Tipo che abbiamo la maglia a strisce nerazzurre, che il nostro allenatore ha fatto un figlio con la Marcuzzi e che dovevamo giocare con il Napoli capolista che ci precedeva di (sono andato a controllare) undici punti, un’enormità di cui non mi capacitavo finchè sono andato a vedere i risultati delle partite precedenti, scoprendo che ne avevamo perse 5 su 15, in effetti un’enormità all’origine di quell’altra enormità.
Comunque bene, mi sono di nuovo ambientato. Non saprei dire con precisione dove si ponga la linea di confine tra una certamente buona partita nostra e una non buonissima partita del Napoli, ok, ma non starei troppo a sottilizzare. Battiamo la capolista, molto bene!, ma rimaniamo lontani di 8 (otto) punti. E siamo sempre quarti. Cioè, ecco, non mi perderei in eccessivi festeggiamenti. Siamo indietro come le balle dei cani (detto popolare pavese) e sarà meglio restare concentrati, parecchio concentrati. Diciamo che nelle ultime due partite (giocatesi a distanza di quasi due mesi) abbiamo vinto due scontri diretti dopo aver perso tutti i precedenti. Bene, che dire?, avanti così.
Tra le cose che mi ero dimenticato e che mi appaiono tuttora poco spiegabili c’è che la Juve è davanti a noi. No, cioè, non dovevano essere in crisi, umiliati e vilipesi? Non dovevano essere morti e sepolti? Non dovevano essere stati retrocessi, radiati, polverizzati per ragioni sportivo-penali, avendone fatte di ogni negli ultimi 100-110 anni? (Ora che mi ricordo, il caso-Juve era stata la lettura più interessante durante i mondiali. Cioè, voi leggevate la cronaca di Lapponia-Ecuador e Prussia-Australia?)
Apprendo, andando a ritroso, che la Juve ha vinto le ultime sette partite senza subire un gol. Di queste sette, quattro erano in trasferta, tutte vinte 1-0. E’ un po’ come gli 11 (ora 8) punti di svtantaggio dal Napoli, è un po’ come il Milan che ci resta ampiamente sopra. Sono tutti alert: la vita non ce la può rendere facile nessuno. Tranne noi stessi, tipo ieri sera.
Ci ho messo un po’ – giusto qualche decennio – ma quest’anno alfin mi sono arreso. Il giochetto del “più grande di tutti i tempi” ci piacerà anche un sacco ma non ha alcun senso, basta, diciamolo. E’ un simpatico espediente per parlare ore di un argomento che ti stuzzica, ma appunto resta un giochetto. Simpatico e inutile, come tutti i giochetti. E dopo essermici immerso più volte anche in questo 2022 – da Federer a Messi a Pelè, passando per qualche anniversario, qualche serie tv e qualche suggestione – finalmente ho capito che nello sport il più grande di tutti i tempi non esiste. E che il tempo va nessariamente diviso in epoche, e per ogni epoca si può trovare il più grande (o non trovarlo, perchè le generazioni non sono tutte uguali). E fermarsi lì.
Come si possono paragonare i tennisti che usavano le racchette di legno a quelli che usano le racchette in carbonio/titanio/plutonio/antimonio? Come si posso paragonare gli sciatori di 60 o 30 anni di fa a quelli di oggi (e gli sci, e le piste)? Come si possono paragonare Fangio, Lauda, Schumacher e Verstappen tra le bare volanti di un tempo e le macchine che oggi vanno quasi da sole? Come si possono paragonare, in generale e in qualsiasi sport, gli atleti di 100 o 50 anni fa a quelli di oggi per stuttura fisica, metodologie di allenamento, materali/tempo/soldi a disposizione?
Arrivato a Pelè, insoma, mi sono messo il cuore in pace. Pelè è il più grande di ogni epoca? Maradona è megli’e Pelè o viceversa? E Messi, vuoi mettere Messi?
La morte di Pelè chiude per sempre la storia di un calcio che non esiste più e di cui Pelè era volto, anima, tutto. Pelè è un mito del calcio, senza dubbio, ma di un calcio prevalentemente in bianco e nero, un calcio poco documentato (a parte Italia-Brasile di Mexico ’70, quante partite avete visto di Pelè?), un calcio più immaginato che vissuto. Pelè ha vinto tre mondiali e questo basterà per sempre a farne una leggenda. Fu vera gloria, certo, tra i millemila gol e le millemila veroniche, stella di tre Brasili pieni di talento e solidità (no saltimbanchi), personaggio positivo, semidio del pallone, front-man di un movimento, il sorriso a 320 denti, Pelè, Pelè! eccetera.
Ma il modello-Pelè oggi non sarebbe riproducibile. Oggi una leggenda del calcio non potrebbe non giocare nemmeno una partita di club in Europa. Oggi non potrebbe esistere un Pelè che se ne sta tutta la carriera nel Santos e poi da monumento vivente va a vivere un crepuscolo durato nei Cosmos, in un calcio che praticamente non esiste. Oggi non sarebbe concepibile un campione che non si vede, un campione con statistiche incerte, un campione che vedi apparire ogni 4 anni. E sì, ok, sono apparizioni abbacinanti. Ma oggi se non vedi partite per due giorni di fila vai in astinenza, figuriamoci ci fosse un Pelè che vedi un mese sì e 4 anni no. Oggi sarebbe inaccettabile non diffondere la bellezza di un Pelè. Oggi un Pelè non se ne starebbe mai rintanato in un altro emisfero senza diffondere la sua bellezza (e incassare il giusto). Ma oggi è oggi, e Pelè è – inequivocalbilmente – un campione di ieri.
Quindi: Pelè è stato il migliore della sua epoca (una quindicina di anni da primadonna assoluta dello sport più amato del mondo, per assurgere alla gloria eterna), Maradona della sua (una rock star con una cazzimma calcistica mai più raggiunta da nessun uomo), Messi della sua (giocatorone simbolo di uno sport sempre più ricco, sempre più frenetico, sempre meno affascinante).
Poi, siccome non puoi recintare nè la nostalgia nè le pulsioni calcistiche, ognuno decida chi è stato il più grande. Ma per sè, non per l’umanità intera. Certe classifiche non esistono, sono solo giochetti utili a riempire pagine e tabelle. Diffidate delle classifiche “ogni tempo”. Di Pelè restano la tecnica e la leggerezza, quella proprietà che hanno avuto in pochi di attraversare il campo su un cuscino d’aria prima di scegliere se segnare di tocco o di potenza o liberare il compagno al tiro, sempre comunicando una certa superiorità rispetto a un mondo di gente normale. Palè era Pelè, il re, che trasformava in oro ogni pallone, che veniva bene anche nelle foto. Resta il gol dell’1-0 di Italia-Brasile, un colpo di testa incastonato in una carriera di colpi di piede, eppure un colpo di testa maestoso, fluttuando nell’area e poi schiacciando con una potenza inumana, ed è un peccato che questa impresa fisica e tecnica non sia stato oggetto di studio come ogni singola mossa di CR7, scoregge comprese.
Ecco. Avrò più cose da ricordare di Pelè che di Messi, questo è sicuro, pur avendo visto una sola partita di Pelè e almeno cento di Messi. Maradona non so, è un’altra categoria di uomo e di campione, nel bene e nel male e anche nel malissimo: di lui ricorderò più cose di Pelè e Messi messi (ops) insieme.
E così, dopo il Covid, la guerra, la siccità, un campionato regalato al Milan, il caldo tropicale, il centrosinistra scherzato alle elezioni, la crisi energetica, un Mondiale in Qatar e non so più quale altra calamità, mi tocca chiudere questo anno di merda dovendo porgere le mie scuse a Messi per la mia dannata fretta a considerarlo – ormai ultra 35enne – non più abile a nessuna grande impresa. E vabbe’, lui del resto è Messi e io un pirla qualunque. Però ci tengo a scusarmi.
Dunque, la questione per me era questa: fino a un anno e mezzo fa Messi non aveva vinto nulla con la sua nazionale (a parte un oro olimpico, boh, per quanto possa contare). E questo, per me, ne faceva un campione dimezzato. Un anno e mezzo fa, prima di giocare la finale di Coppa America 2021, Messi (no dico, Messi) aveva giocato 150 partite (no dico, 150) dell’Argentina (no dico, l’Argentina! Mica le Samoa o il Togo, l’Argentina!) e tutto questo bendiddio calcistico – 150 partite di Messi nell’Argentina – non aveva prodotto niente di niente. Questo lo teneva irrimediabilmente lontano dai due giocatori con cui è stato perennemente paragonato: non solo Maradona per il passato, ma anche CR7 per il presente, lui sì molto decisivo per il suo Portogallo, una nazionale qualche categoria sotto quella argentina eppure, in tempi recenti, più vincente (Europei e Nations League negli ultimi 6 anni, contro due ori olimpici dell’Argentina negli ultimi 28).
Un anno e mezzo fa Messi e l’Argentina vincono la Coppa America, in Brasile, in finale con il Brasile. Un modo piuttosto spettacolare di interrompere un digiuno che durava dal 1993. Messi finalmente alza una coppa in nazionale, dopo 150 partite, a 34 anni. Una toppa messa in extremis, non certo la più prestigiosa possibile. La statistica è salva. Ma la reputazione?
Intendiamoci, si sta parlando di un giocatore clamoroso. Ma anche privilegiato. Rimanendo alle sue cifre cristallizzate a un anno e mezzo fa, uno che ha giocato 750 partite nel Barcellona e 150 nell’Argentina non ha calcisticamente le pezze al culo. E’ uno che può vincere col minimo sforzo (mica come Maradona a Napoli). E se nel club ha messo insieme l’inverosimile, in nazionale per 16 anni e 150 partite non ha quasi lasciato un segno. Un segno vero, una coppa, una coppa vera. Una di quelle cose per cui ti ricorderanno nei secoli dei secoli.
Messi è così forte che lo premiano a caso. Almeno due dei suoi sette Palloni d’oro sono senza senso, se non quello di aver dato un premio a uno bravo – ma non il più bravo di quella stagione lì. Messi è così forte che resta il più forte anche se le sue ultime due stagioni a Parigi, con una maglia che gli sta addosso in maniera innaturale, sono state tristi (o intristite, fate voi). Messi è così forte che anche le sue ultime due stagioni al Barcellona erano state piuttosto tristi: 31 e 38 gol l’anno, che tristezza, vero?
Ecco, ho frettolosamente dato Messi per finito, depresso dalle mollezze parigine, appagato dalla statistica sistemata in nazionale. L’ho dato per finito in un perfido parallelo con Cr7, perchè prima o poi il viale del tramonto lo imboccano tutti e sembrava la volta buona anche per loro. L’ho dato per finito dopo Argentina-Arabia Saudita, una partita che sembrava allontanarlo crudelmente dall’unica emozione che gli mancava in carriera, un’emozione che meritava, un’emozione che però soltanto lui – un campione in mezzo a una banda di vandali – poteva procurarsi.
Lo ha fatto.
Maradona aveva dimostrato che si poteva vincere un Mondiale più o meno da soli, Messi lo ha confermato. Perciò gli chiedo scusa. Ha vinto sei partite più o meno da solo, sempre una spanna sopra gli altri, spesso anche due o tre, come si addice ai campioni. Anche ai campioni tardivi, che aspettano i 35 anni e mezzo per mettere la ciliegina sulla torta.
E’ nell’Olimpo, ora non ci sono più dubbi. Non sarà mai Maradona, non avendone la caratura, lo spessore, la follia, la maledizione. Resta un anti-personaggio, ha avuto spesso vita facile, gli hanno steso tappeti rossi. Ma adesso ha vinto un Mondiale da solo, e quindi lui è lui, e noi non siamo un cazzo.
Quattro cose che non mi sono piaciute dei Mondiali in Qatar.
4. I recuperi.
Secondo me, le novità regolamentari andrebbero testate qualche mese e poi proposte sulle grandi ribalte, non il contrario. All’improvviso, ai Mondiali, mica al Birra Moretti, ci siamo trovati a sperimentare partite che durano tipo 10 minuti in più, e non invano (nel senso che qualche gol al centesimo minuto c’è pure stato). Tralasciando gli aspetti interpretativi – arbitri che recuperano fino all’inverosimile, altri meno – cambia un po’ la prospettiva delle partite. Quando arrivi all’80’ di solito sale ansia, adesso non sai più di che morte devi morire. Ma cambiano anche le prospettive di vita vissuta. Quando c’era la partita alle 11 del mattino, non sapevi mai in quale momento buttare la pasta: se la butto all’85esimo sarà pronta al quinto di recupero, ma se quello recupera 12 minuti? No, non si può vivere così.
3. I Mondiali in Qatar.
Ora, a me starà anche sul culo il Qatar, d’accordo, ma non sopporto qualsiasi narrazione minimamente positiva di questo Mondiale. Uh ma che bello, uh ma che bravi, uh ma che gol. Uh. Non mi interessano le tesi buoniste, benaltriste, assoluzioniste e terzomondiste su questo Mondiale contronatura e ceduto al miglior offerente, una vergogna eterna, in un calar di mutande e aprire di portafogli. La cosa più suggestiva di questo Mondiale è che proprio in questi giorni, sui giornali, qualche pagina prima di quelle sportive, si parla di gente cui trovano in casa sacchi di soldi (dai tempi di Paperon de’ Paperoni non sentivo niente del genere) marchiati Qatar. Già, chissà cosa sarà mai successo qualche anno fa, quando si decise di giocare un Mondiale in mezzo al deserto, in un Paese di cui si parla male anche nelle fiction, figuriamoci nei consessi che contano, eppure indifferenti ai rumors e alle questioni morali e a quelle climatiche. Poi basta vedere un prato verde e qualche bel gol per dimenticare tutto, ma è un errore concettuale. Io condannerei l’intera filiera decisionale alle pene più infernali: chessò, tipo legarli e una poltrona e costringerli a due mesi di pausa del campionato.
2. Il Brasile.
Fossi un appassionato di calcio brasiliano, avrei smesso di seguire il calcio da almeno dieci anni. Oggi sarei un appassionato brasiliano di basket, Formula 1, pallavolo, samba, curling, bob a quattro, bridge, zumba, forse addirittura padel. Qualsiasi cosa, pur di non vedere più questi saltimbanchi che si beano degli ooohhhhhh degli stolti come noi e si convincono che andare in porta con il pallone sia un sistema di calcio ancora sostenibile. Il Brasile ha rotto i coglioni. O meglio, li ha rotti questo Brasile del Terzo millennio dove ci si ossigenano i capelli, si fanno quattro mossette e poi si esce in lacrime tra i lazzi del mondo intero. Il Brasile che piange e i brasiliani che piangono in tribuna, dopo aver ballato 120 minuti A-E-I-O-U-Yplilòn, santiddio, hanno rotto i coglioni. Ha rotto i coglioni questo modello di Brasile in cui si mettono in campo tre-quattro giocatori che si fanno il culo per tutti gli altri, quelli da copertina, tesi a promuovere se stessi e a cercare la ribalta personale senza mai passare un pallone. Piccoli Neymar crescono e proliferano. Pensavo che Vinicius fosse un po’ diverso, e invece no, è quasi come lui (beh, Neymar è inarrivabile). Ma è ancora giovane, può tornare alla tinta naturale e provare ad allargare i suoi orizzonti. Ai brasiliani, con il loro tasso tecnico medio, basterebbe poco. Ma niente, non ce la fanno, preferiscono la giocoleria, lo sberleffo, il merletto, bailare il futbol. Poi gli sfiorano le caviglie e si rotolano mezz’ora. Poi li rimontano e perdono ai rigori. Poi piangono in favore di telecamera, increduli di fronte a un destino barbaro lasciato in mano a quattro ossigenati. Alla prossima, amisci.
1 . Adani.
X Factor era in origine una gara tra aspiranti cantanti, poi è diventata una gara tra giudici. Così come Amici, così come Masterchef, così come ogni altro talent: lo spettacolo si è spostato, i concorrenti sono un semplice pretesto. Nel calcio non è ancora successo che si guardi una partita in tv proprio perché c’è il tal telecronista o la tal seconda voce (“Stasera c’è l’Inter!”, “No, io guardo Cuiopelli-Pergolettese, c’è Sebino Nela”), e spero che non succeda mai. Ma c’è chi ci vuole convincere che le telecronache con Adani siano migliori delle altre, molto migliori. Per me no. Ma proprio no. Quando c’è Adani, conto fino a cento e proseguo a fatica la visione di quello che avviene in campo cercando di trarne impressioni personali. Se in campo c’è una sudamericana, devo invece prepararmi a una continua lezione di vita tipo Do Nascimiento da uno che cerca di dimostrarmi che il calcio è questo, solo questo, e il resto è una merda inaccettabile. Se in campo poi c’è addirittura Messi, devo prepararmi a un’idolatria a 120 decibel (e nani manco fosse Disneyland) nei confronti di un giocatore che – ma come potete pensare il contrario? – c’è solo Lui, il Secondo Messia, e gli altri sono delle merde insignificanti, piccoli punti luminosi nell’universo del Pallone dove c’è una sola stella che brilla e gli altri sono dei led che li compri a strisce all’Esselunga. Che poi, porco cane, che tesi rivoluzionaria sarà mai l’esaltazione del calcio sudamericano e dei suoi migliori interpreti? Non sono luoghi comuni agghindati a festa con frasi sconnesse, che la prima volta fanno tanto folklore e la seconda hai l’impulso di chiamare il 118? Le telecronache tifose, correttamente, una volta erano confinate su un secondo canale audio. Se voglio Pizzul, sento Pizzul. Se voglio Scarpini, premo l’apposito tasto e mi perfondo di è gol, è gol, ègolègolègol. Io non voglio Adani ma non ho un cazzo di niente da premere per escludere dalle mie partite questo pittoresco invasato autoreferenziale che un tempo vestì la maglia per cui spasimo. Però io non dimentico: nel 2003, portai le mie figlie a vedere un allenamento infrasettimanale ad Appiano, quando ancora la tribunetta era aperta al pubblico e potevi vedere i giocatori a qualche metro. Poi, dopo l’allenamento, tutti alla porta carraia: ci sistemammo ai lati della strada a vedere sfilare i giocatori che se ne tornavano a casa. Guarda Zanetti! Guarda Toldo! Guarda (aspetta, chi cazzo è, ah sì) Brechet! Tutti salutavano, qualcuno addirittura si fermava a fare una foto. Poi arrivò un macchinone nero che sgommò manco avesse visto un posto di blocco della Finanza, passando in mezzo alla piccola ala di folla di tifosotti, da cui si levò qualche timido vaffanculo. Il passeggero era Vieri, guidava Adani. Mi sta sul culo da allora, poi ditemi che non vi avevo avvertito.
La vittoria a Bergamo – evento mai banale – chiude la fase 1 di questo campionato anomalo (ci si rivede nel 2023) e chiude anche due pessime settimane per l’interismo. Tra una vittoria e l’altra abbiamo perso una pessima partita con la Juve e, a proposito di pessime cose, abbiamo dovuto affrontare il caso Boiocchi. Poi fai sei gol al Bologna e torni con tre punti dalla trasferta con l’Atalanta, per carità, tutto bello. Ma resta uno sgradevole retrogusto.
Ieri il Corriere ha dedicato una paginata alla curva dell’Inter, un reportage alla costante ricerca di effetti stilistici e del tutto inutile nella sostanza se non a gettare nello sconforto quelli come me. Se un marziano fosse sceso ieri sulla terra e avesse letto l’articolo, avrebbe tratto la conclusione che gli ultras sono ragazzi che mangiano panini, fumano canne e hanno le ascelle che puzzano. Del problema di certe curve, tra cui la nostra, solo qualche pittoresco accenno legato alla stretta attualità. Folklore.
Mah. Proprio la sera prima avevo riletto il volantino distributo prima di Inter-Bologna, in cui ero rimasto colpito da alcuni passaggi, tra cui questo.
Vittorio Boiocchi da domenica sera è, per tutti quelli che lo conoscevano e ora sentenziano, il pluricondannato malavitoso che comandava la Curva dell’Inter, reo di tutti i mali possibili di questo mondo. Per noi invece è sempre stato lo Zio, un leader, una figura centrale. Non era un santo, e non ci interessa difendere le sue scelte di vita, perché in fondo nemmeno ci riguardano.
Non so. Se avessi uno zio pluricondannato e malavitoso, al netto di una quota di solidarietà umana che non si nega a nessuno, tantomeno a un parente stretto, può darsi (ma non garantisco) che gli porterei le arance in carcere, e può darsi (magari via Whatsapp) che lo chiamerei per gli auguri di Natale una volta scontata la pena. Di sicuro non ne farei una bandiera familiare nè mi verrebbe mai in mente, durante e dopo i suoi 26 anni di carcere, di assurgerlo a modello di vita. Sarebbe senz’altro una figura centrale, certo, ma in negativo, nell’evidenza di tutti i casini morali e materiali che comporta avere uno zio così, “ah, ma sei mica parente di…”, ma vaffanculo va’, zio.
Ma questo naturalmente è l’aspetto più banale della questione. Così come in effetti è abbastanza ipocrita, o comunque molto superficiale, rinfacciare random alla curva dell’Inter la sua leadership impresentabile come se questa cosa fosse una novità: che alcuni malavitosi siano leader o figure centrali della curva non solo è noto, ma è proprio ufficiale. Un dato di fatto che accomuna molte tifoserie in Italia e altrove e che rende estremamente fastidioso l’argomento a chi, come me, tifosotto qualunque, sogna stadi ripuliti da ogni genere di feccia e convive pacificamente con il rimpianto di non essere a San Siro ogniqualvolta appoggia il culo sul divano.
I 6mila interisti che abitualmente si siedono al secondo verde non sono malavitosi, ma bastano 6 (0,1%) o 60 (1,0%) malavitosi ad ammantare di malavita un’intera curva. O ad accomunarla nel ricordo, così ricco di pathos e romanticismo ultrà, di un personaggio cui il presunto cuore del tifo nerazzurro delega un potere di rappresentanza che, attraverso non molti – e comunque troppo pochi – gradi di separazione arriva fino a quelli come me. Che per quelli seduti là in alto saremo sempre tifosi di serie B o C, occasionali, pantofolai, ma perlomeno non ci vantiamo di certe amicizie e non riconosciamo certe leadership.
Il mondo ultrà non mi affascina nemmeno nelle sue estensioni più innocue, figuriamoci quando si tira in ballo il codice penale. Perchè, sfrondate tutte le considerazioni più prevedibili e accettati a fatica gli omaggi resi a un leader malavitoso ma tanto buono e tanto interista, nel testo diffuso dalla curva c’è una frase apparentemente secondaria ma invece densa di significato. Scrivere che “non ci interessa difendere le sue scelte di vita, perché in fondo nemmeno ci riguardano” è molto grave se si pensa che tra le “scelte di vita” c’erano il commercio parallelo del biglietti, il controllo dei parcheggi, il taglieggiamento dei paninari. Reati commessi nella doppia veste di malavitoso e di leader della curva.
Ed è qui che la mentalità ultrà dimostra tutte le sue storture. Non mi siederei mai a qualche seggiolino di distanza da uno che, sfruttando anche l’autorità che io stesso contribuisco a fargli riconoscere, ha appena commesso reati e incassato soldi tra antistadio e immediato circondario. Tifare, cantare, urlare, trascinare uno stadio intero, me compreso: questo dovrebbe fare una curva. Non fare da palo al malavitoso di turno che chiami zio.
Adesso, dopo 19 partite stagionali, non puoi più sperare che i numeri mentano. In campionato hai perso 5 partite su 13, tutte con squadre che ci precedevano in classifica (l’Udinese nel frattempo è scivolata un punto dietro, ma il succo del discorso non cambia). Mancano agli scontri diretti Atalanta e Napoli, in calendario nelle prossime tre giornate, nell’ultima partita prima della pausa e nella prima del 2023. Partite che affronteremo, appunto, con il suggestivo bottino di zero punti, ultimissimo posto in classifica nel torneino tra le prime otto. Io mi ero un po’ illuso per le vittorie a Sassuolo e Firenze: campi difficili, sì, ma non squadre difficili. Con le squadre difficili siamo ancora al palo a novembre inoltrato. A 11 punti dal primo posto, a 5 dal secondo, a 3 dalla zona Champions. Che, va da sè, non raggungeremo mai perdendo sistematicamente gli scontri diretti.
Sistematicamente e scientificamente. Le 5 partite perse con Milan, Lazio, Udinese, Roma e Juventus hanno tutte un copione simile. Non siamo mai stati fuori partita, in alcuni casi siamo andati in vantaggio, in altri abbiamo fatto gli splendidi per 15, 20, 30 o anche 50 minuti. Poi il buio fitto una volta raggiunti o andati sotto. Il buio fitto è un concorso di responsabilità – trovare le esatte percentuali è un giochino parecchio in voga tra gli interisti in questo periodo – tra una squadra ricca di talento e povera di spirito tanto da perdersi con una facilità irritante, e un bravo allenatore che non sa cambiare le cose in corsa nè sa trasmettere ai suoi giocatori quella cazzimma di cui le dirette concorrenti dispongono in dosi più o meno elevate (più elevate della nostra, comunque).
E’ chiaro quindi – lo dicono i numeri – che le due partite con il Barcellona sono l’eccezione di una stagione in cui la regola è un’altra. Quest’anno c’è un’Inter di campionato (spaventoso l’andazzo in trasferta, 16 gol subiti in 7 gare, peggior difesa esterna del campionato, a parità di partite hanno fatto meglio di noi anche Verona e Cremonese) e un’Inter di Champions.
Ora l’Inter di Champions ha un’ottima occasione di vivere una bella avventura primaverile. Le doppie sfide facili non esistono – chiedere alla Juve, per dire -, ma esistono sorteggi meno sfortunati di altri. Prendere il Porto quando potevi prendere il City o il Real o il Chelsea è una discreta botta di culo. E’ chiaro che per giocarsi la chance servirà l’Inter del Barcellona, non l’Inter della Juve.
Perdere con la Juve è sempre una scocciatura. Perdere con una Juve modesta è una scempiaggine. Perdere con una Juve modesta sbagliando occasioni colossali per poi prenderne tre (catalogo il gol annullato a Danilo tra quelli che un tempo non avrebbe annullato nessuno) è ‘na tragedia. Affrontare la Juve in trasferta con sufficienza, sapendo benissimo che per quanto scarsi daranno tutto contro di noi, è inconcepibile. L’anno scorso, a proposito di regole e di eccezioni, era stato liberatorio: la Juve da anticristo si era trasformata in mascotte, una sciccheria. Ma queste stagioni bisogna meritarsele e l’Inter di quest’anno, almeno in Italia, si merita poco e niente.
In 19 partite siamo a 11 vittorie, 1 pareggio e 7 sconfitte. Perdiamo una partita su tre. In campionato, continuando così, potremmo in teoria perderne 14 o 15. E non so voi, ma io in Conference non ci voglio andare.
Onana che segna direttamente su rinvio senza nemmeno far toccare a terra il pallone;
Skriniar che entra nella porta avversaria dopo aver palleggiato con la testa per 50 metri;
Sensi che fa 38 presenze in una stagione;
il Nobel per la Pace all’Fc Juventus;
Ibra che fa un video con i gattini;
scoprire che Bonucci è simpatico;
Elon Musk che compra l’Inter e mi coopta nel cda;
il Monza che vince lo scudetto con 5 giornate di anticipo;
la Curva Nord che prende una, dico una qualsiasi iniziativa minimamente condivisibile;
ecco, solo una di queste cose mi potrebbe stupire di più di un Correa che segna dopo un coast to coast. Giuro, sono rimasto in stato catatonico tre quarti d’ora. Non vedevo una cosa così contronatura dai tempi del primo governo Conte.
Da quando siamo tornati a giocare in Champions (questa è la quinta stagione di fila), abbiamo ottenuto il miglior risultato – qualificati agli ottavi con una giornata in anticipo – nel corso della peggior stagione so far (rapportata ai risultati in campionato) e nel girone peggiore che ci sia capitato dal 2018 a oggi. Tutto questo casino mi piace, lo trovo eccitante. La brutta Inter (parecchio migliorata nel frattempo, ma orripilante fino a un mese fa) esce indenne da una sfida a tre con Bayern e Barcellona (un cumulato di 4 Champions e 1 finale persa nelle ultime 11 edizioni) e si fa bella, quasi bellissima, in attesa di un sorteggio che ci riserverà la solita inculata ma magari no, perchè porre limiti alla Provvidenza e non sperare di protrarre la nostra avventura a marzo inoltrato?
Nel 2018 uscivamo da secondi per la differenza reti (vecchia regola) negli scontri diretti con il Tottenham in un girone crudele (primo Barcellona) fallendo il match point in casa con il Psv. Nel 2019 uscivamo da terzi in un altro girone con i controcazzi per colpa di quella partita persa a Dortmund da 2-0 per noi e per un pareggino in casa con lo Slavia Praga (primo Barcellona). Nel 2020 uscivamo a quarti in un girone ridicolo per colpa di un doppio 0-0 con lo Shakthar (primo Real, il Borussia M. è passato da secondo vincendo due partite su sei). Nel 2021 finalmente passavamo il turno, con una giornata di anticipo, sì, ma in un girone da barzelletta (primo Real, poi c’erano lo Sheriff e lo Shakthar che non ne ha vinta una), quindi con una soddisfazione legittima ma contenuta.
Niente al confronto di avere eliminato l’insopportabile Barcellona dell’insopportabilissimo Xavi, una società che non si capisce come non sia stata ancora ingabbiata in toto per i suoi magheggi contabili (e sotto ispezione ci siamo noi) e che ci rompe i coglioni da settimane per una decisione contestata al Var (lesa maestà: dov’è che ho già visto una roba così?).
La vittoria con il Viktoria vale quel che vale, in sè, ma è la conferma di questo nuovo ciclo avviato dall’Inter, 5 vittorie e 1 pari in 22 giorni, un mini-ciclo lontano da qualsiasi standard di perfezione (vedi casella gol subiti) ma vicino alle nostre pretese di un’Inter ideale, di una squadra positiva, propositiva, continua, unita, corale, l’esatto contrario di quella vista dal 13 agosto all’1 ottobre, quella combriccola che si scioglieva di fronte a qualsiasi avversaria che avesse la minima intenzione di andare al di là del minimo sindacale.
Adesso no, sembrerebbe proprio l’opposto, gli sguardi si sono riaccesi e i risultati parlano da sè. Soprattutto le ultime tre trasferte, una al Camp Nou e le altre su due campetti nostrani dopo spesso abbiamo lasciato le penne: tre gol di media a partita, questa è l’Inter che ci piace. Per ora Napoli e Milan le vediamo col binocolo, ma onore al merito: loro sì che non hanno mai mollato la presa. Se anche il Milan (com’è ampiamente nei pronostici) passerà agli ottavi di Champions, questo trio si giocherà Italia ed Europa e sarà un bel vedere quando dopo la pausa Qatar inizierà la fase 2, a gennaio, che sarà aperta proprio da un Inter-Napoli. Noi finalmente sembriamo fisicamente in bolla, abbiamo scoperto di poter fare a meno anche di Lukaku Brozovic e Handanovic, e magari ci prendiamo gusto. Gente allegra il ciel l’aiuta, no?
Al 95′ di Fiorentina-Inter come al 95′ di Barcellona-Inter: eravamo nello stesso posto, nell’area degli altri, ad attaccare sul 3-3. Può capitare che un Asllani sbagli un gol quasi fatto, oppure che un difensore faccia sbattere su Mkhitaryan un pallone che finisce dritto in porta, tutto questo sta nelle cose del gioco del calcio e nella bizze della rotondità del pallone. Ma l’importante è essere là davanti.
E se nelle prime dieci partite della stagione succedeva che, al minimo livello di difficoltà, ci si smarrisse senza rimedio (qualche volta smettendo di giocare), nelle ultime cinque l’atteggiamento si è ribaltato, portando questa squadra a ribattere colpo su colpo, rimontare, vincere (o pareggiare 3-3 al Camp Nou rischiando di fare il colpo grosso, cioè facendo un figurone). E’ un’Inter tutt’altro che perfetta, ma che non rinuncia a vincere fino al triplice fischio del’arbitro. La stessa squadra che fino a un mese fa rinunciava a vincere quando magari restava mezz’ora da giocare, se non di più.
Se vinci segnando quattro gol a Firenze non ti devi vergognare di averne presi tre (un rigore e due prodezze, c’è poco da cercare peli nelle uova) e nemmeno di avere avuto un discreto colpo di culo a tempo quasi scaduto. La fortuna aiuta gli audaci, cioè chi attacca. Dopo aver tirato a campare per troppo tempo, adesso la ritrovata garra ci premia. “Ci siamo parlati e da lì è cambiato tutto”, dice Lautaro. Che mi verrebbe da chiedergli di cosa cazzo parlavano ad agosto e settembre, quando sembravano venti mammolette. E perchè cazzo non si sono parlati prima, ecco. Ma poi lo abbraccerei, Lautaro, perchè sta facendo grandi cose e gioca partite di una densità pazzesca, tipo questa di Firenze. Con lui e Barella in questo stato di grazia, nulla ci è precluso.
Quanto agli arbitri, si vede che ci gira bene: quando ho visto e rivisto l’azione di Bruce Lee con la maglia di Dimarco, mi sono messo a fare i calcoli su quanti minuti rimanessero da giocare in dieci e quale cambio avrebbe fatto Inzaghi. E invece no, solo rigore. Non capisco, mi adeguo. Ci siamo fatti rimontare due gol, siamo andati in vantaggio altre due volte. Non abbiamo rubato niente. Siamo sempre un po’ sommari, sempre un po’ sbadati, ma non più inconcludenti. Concludenti, ecco cosa siamo. Possiamo recuperare il tempo perduto, nell’attesa che là in alto qualcuno rallenti. Ma va bene così, bene bene.