C’est la vie avec le Var

Il mondo Juve continua a rapportarsi con il Var così, con lo stesso indignato stupore con cui cui certi automobilisti abituati a sfrecciare a 200 all’ora sulle provinciali hanno accolto l’introduzione dell’autovelox, e con la stessa stupefatta indignazione con cui certi commercianti abituati a fare i conti sulla carta da formaggio hanno accolto l’introduzione del registratore di cassa. Talmente spiazzati dall’essere sottoposti alle stesse regole imposte agli altri – eh, capisco – da continuare a parlarne in termini scandalizzati a ormai quasi 5 anni dalla sua introduzione. Talmente poco abituati a dover subire decisioni avverse da contestarle ogni volta come se ci fosse un sistema a determinarle (tranquilli, noi ce ne intendiamo: oggi non è così). Talmente poco avvezzi al dover pagare tutto e subito da affibbiare a chi riscuote la patente del ladro.

Curioso poi che i ladri, improvvisamente, siamo diventati noi, dopo centinaia di furti subiti e scritti nella storia del calcio, cioè dai, non ce lo meritiamo – sarebbe come dire tipo ai curdi “oh, va bene tutto, però che cazzo di rompicoglioni”. Curioso che si pensi che un sistema certamente perfettibile ma oggettivo e manifesto (le immagini che controlla il Var le vediamo anche noi dal divano) possa favorire l’una o l’altra squadra. Ma per gente non abituata a queste fastidiose perequazioni, come dire, è un meccanismo mentale troppo tortuoso. Si procede quindi per poche e basilari affermazioni, a livello di reazione pavloviana: decisione favorevole occhei, decisione sfavorevole ladri.

Trattandosi di una questione che riguarda il calcio e trattandosi di un tema sottoposto al giudizio di quella categoria subumana che sono i tifosi (io per primo), difficilmente se ne verrà a capo dal punto di vista culturale. C’è chi lo abolirebbe, c’è chi le regimenterebbe. Io, per esempio, colloco il Var tra le invenzioni più importanti dalla ruota a oggi, insieme a internet, la pizza margherita e il Gps. Un formidabile sistema che nove volte su dieci taglia la testa al toro, e considerando che prima non la si tagliava mai è un enorme passo in avanti.

Sono passati 41 anni dal gol annullato a Turone in Juve-Roma, sono passati 24 anni dal non rigore Ronaldo-Iuliano e se ne parla ancora. Due domande: 1) non è meglio risolvere tutto subito? 2) non vi dice niente che ci sia sempre stata la Juve di mezzo?

Adesso che la Juve, di fronte a questi monitor che calcolano il fuorigioco scansionando la peluria in eccesso, conta più o meno come le altre – orrore! – ecco che l’obiettivo è minarne la credibilità. Che è un problema reale, voglio dire, non solo riconducibile alla lesa maestà dei gobbi che hanno scoperto che “la legge è uguale per tutti” non è un bizarro aforisma. L’oggettività del Var vacilla nei meandri delle interpretazioni, una zona grigia che a volte accetti e a volte no – la accetti quando ti va bene, non la accetti quando ti inculano (questo vale per tutti, eh?).

Nei cinque anni di storia del Var è stato tutto un rimaneggiare, correggere, perfezionare. Le regole, le sensibilità, le consuetudini arbitrali si vanno via via adeguando allo strumento, appiattendosi o prendendone un po’ le distanze. In questi cinque anni è cambiato profondamente il comportamento nel microcosmo dell’area di rigore. Fatta la regola, si trova sempre un inganno. Tipo quando al momento di crossare, più che cercare di metterla sulla testa del tuo centravanti, miravi alle mani del difensore. Poi si corregge e bòn, avanti così, cercando di limitare il dolo e di esaltare il gioco.

Io vado pazzo per il Var ma non vado pazzo per i rigorini: se si trovasse il modo di valutare con precisione il danno subito dall’attaccante, sarei più tranquillo. Se si trovasse il modo di distinguere con precisione tra azioni vere e azioni forzate, lo sarei ancora di più. Il riferimento è al rigore su Lautaro, dove c’è tutto il meglio e il peggio del Var e dei giocatori. Ci sono due energumeni della Juve che arrivano da dietro a contrastare l’attaccante, ce n’è uno che gli prende in pieno il ginocchio destro, c’è l’attaccante che allarga la gamba sinistra per farsi toccare dall’altro. Mi piace tutto questo? No, non tanto. Mi rimetto al giudizio di tre arbitri professionisti che guardano lo stesso monitor che fanno vedere a me conoscendo le regole meglio di me.

Abbiamo scoperto un universo di sfioramenti e pestoni, strusciamenti e incroci che il calcio pre-Var negava ai nostri sguardi e alle nostre considerazioni. Con qualche eccesso – il calcio è pur sempre un gioco di contatto, vivaddio – siamo planati su un terreno diverso, dove si capisce bene cosa si può fare e cosa no. Funziona? Non sempre, non benissimo. Ma molto meglio di quando tutto era lasciato ai soli occhi dell’arbitro e a un susseguirsi di tensioni e polemiche, alcune eterne (per non dire della tensione da stadio, oggi molto ammorbidita perchè “l’hanno visto al Var”).

In una stagione, in questo eterno gioco di sfumature, nella singola percezione di uomo di parte è chiaro che il Var un po’ ti dà (evvai!) e un po’ ti prende (ma vaffanculo!). Per quanto ci riguarda, resto ancora basito dal rigore contro di noi non dato in Torino-Inter. Per il resto, tutto nella norma, un dare e avere sereno (una modalità che dovrebbero adottare tutti, visto che la regola adesso è questa). Che alla Juve piaccia a no, se hanno dato rigori a noi e se ne hanno dati contro la Juve vuol dire che c’erano, punto. C’est la vie. C’est la vie avec le Var, maudits bossus.

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Avere la Juve come mascotte

Nell’Anno domini 2022 con la Juve ci siamo rapportati al limite del bullismo calcistico. Del resto, i gobbi hanno dovuto fare i conti con il karma per tutta la stagione: giusto così. Era ancora la prima metà di agosto quando si godevano lo spettacolo del nostro giocattolino che si disfaceva con il Chelsea che – pagando bene, per carità – veniva a fare spesa a Milano portandoci via l’Uomo della provvidenza. I più ilari e sprezzanti in quei giorni erano loro. Non sapevano che la luna di miele sarebbe durata una ventina di giorni scarsa: quando Cr7 li ha lasciati in braghe di tela, si sono accorti di una cruda realtà che avrebbe costantemente caratterizzato la loro annata un po’ così. E a rendergliela pessima siamo stati proprio noi: due finali ai supplementari, una vinta al 120′ e una vinta con due rigori, due trofei vinti e nel contempo tolti a loro, una goduria quasi surreale. E poi quella vittoria a Torino nel loro miglior momento e nel nostro peggior momento, poteva essere il sorpasso e invece puff!, il loro campionato è finito lì. Tre vittorie e un pareggio su quattro confronti, prima volta per loro dopo 11 anni senza niente in bacheca: meraviglioso.

Ogni volta che vedo l’Inter vincere, addirittura vincere in rimonta, addirittura vincere in rimonta con la Juve, non posso fare a meno di pensare a un campionato che ci sta sfuggendo in maniera quasi incredibile. Se siamo stati spietati con la Juve, siamo stati troppo generosi con il Milan. Vorrei godermi il momento, ma non ce la faccio. Vorrei essere d’accordo con chi sostiene che con le premesse di agosto tutto quello che è arrivato dopo è un di più, ma non lo sono. La realtà è che questa squadra si è rivelata piano piano la più forte in Italia: e se queste due coppette contese alla Juve sono state la ciliegina della stagione, la torta è invece lì in bilico, sempre più vicina alle fauci del Milan. Poteva andare meglio, e invece no. Anche in finale di Coppa Italia ci siamo dimostrati capaci di fare la qualunque, nel bene e nel male. Soprattutto nel bene. Perisic strepitoso e polemico, stanco ma decisivo. Un po’ come vorremmo tutti: stanchi e decisivi. Domenica in 5 ore si deciderà quasi tutto. Mi porto avanti: grazie ragazzi, spreconi di talento. Vendiamo cara la pelle, il resto si vedrà.

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Il teorema del braccino

I (per noi) drammatici accadimenti di Bologna-Inter hanno avuto almeno un effetto positivo: quello di spostare l’attenzione su temi calcisticamente meno grotteschi rispetto a quelli che stavano tenendo banco fino al giorno prima. Personalmente, preferisco parlare di quanto è facile perdere uno scudetto quasi vinto piuttosto che intervenire nel dibattito sui presunti favori arbitrali a nostro favore. Che comportava pure ascoltare lezioncine di etica da due club che fino a tipo 16 anni fa si ritrovavano in pizzeria a fare le designazioni di arbitri e segnalinee per le nostre partite. O, per restare a tempi più recenti (e con protagonisti contemporanei), da una squadraccia che l’anno scorso ha avuto 20 rigori a favore e con questi è arrivata seconda a 12 punti dalla prima.

Sul tema, invece, “come buttare nel cesso un campionato e vivere piuttosto infelici” mi sento assolutamente sul pezzo. Tanto che, a questo punto, con quattro partite da giocare (più una finale di Coppa Italia contro Il Male fc), sguazzo nella scaramanzia più scomposta e abbozzo un bilancio stagionale, come se tutto fosse già finito. Anche questo è molto a tema: dopo esserci immaginati per quasi quattro mesi un’altra classifica (quella con i famosi tre punti in più), perchè non immaginare che dopo un anonimo recupero infrasettimanale sia tutto già deciso, fatto, finito, successo, archiviato sia pure con leggero anticipo?

E quindi cosa diremo di questo campionato, al di là di Radu (che è solo l’apostrofo rosa tra le parole chit’ammuort), quando sarà finito e noi saremo arrivati secondi? Che sarà stato, più che altro, un’enorme occasione persa. Se c’è stata una vera differenza, e tutta a nostro favore, con Milan e Juve quest’anno non è l’incidenza degli arbitri (una tesi ridicola) ma quella degli infortuni. Se avessimo avuto lo stesso numero di infortuni di Milan e Juve (forse un effetto di tutti gli accidenti che gli tiriamo quotidianamente), credo oggi saremmo qui a giocarci un faticoso ingresso in zona Champions, altroché scudetto. Sotto questo aspetto, è stato un anno quasi sereno. Il loro molto meno, in certi momenti addirittura disastroso. Eppure il Milan è due punti davanti e la Juve non tantissimo dietro, tanto che rischia di arrivare terza. Mi ricordo di qualche loro partita con otto-nove assenti: non credo che avremmo potuto fare meglio di loro.

E poi la beffa è perdere lo scudetto con questi uomini, con queste cifre (abbiamo miglior attacco e miglior difesa), con questo bel clima che c’è attorno alla squadra nonostante qualche alto e basso. La formazione-base dell’Inter è la migliore che un club possa mettere in campo in Italia oggi. Peccato che molti cambi non siano all’altezza del titolari, e questo è un problema doppio. Un problema in sè, ovvio, e un problema di rimbalzo: nel senso che per forza Inzaghi ha dovuto insistere quasi sempre sugli stessi, con tutto quello che ne è conseguito in termini di stress e usura.

Il finale è beffardo, perchè Radu c’entra fino a un certo punto. Bologna-Inter era una partita che non stavamo vincendo, che non avevamo chiuso quando l’avversario era alle corde. Una partita riuscita male, nonostante la stessimo preparando da quasi quattro mesi. Il finale è beffardo perchè il campionato ce lo siamo giocati molto tempo prima, nel derby del 5 febbraio. In quei tre maledetti minuti, tra il 75′ e il 78′, quando tra noi e loro in 200 secondi scarsi sono ballati sei punti. All’epoca l’avevamo presa male, ma rivista adesso la circostanza è addirittura apocalittica. Rischia di costarci quella che potrebbe essere la beffa di tutte le beffe, arrivare alla pari e (no, non ci voglio nemmeno pensare).

La storia di questo campionato, che sarà vinto da una squadra che a fatica avrà superato gli ottanta punti, non autorizza a fare pronostici: quasi non ci sono le basi. Chi scommetterebbe serenamente 50 euri su quattro vittorie di fila (non quaranta: quattro) del Milan o dell’Inter? E chi, anche solo guardando i risultati degli ultimi 3-4 turni, sarebbe in grado di dividere le loro avversarie in categorie attendibili di difficoltà? E’ il bello e il brutto di questa manciata di giorni che ci separa dal 22 maggio, una data per noi magnifica e che potrebbe diventare anche un po’ dolente. Tutte le cazzate che potevamo fare le abbiamo fatte, quindi potremmo concentrarci per fare le cose essenziali, tipo portare a casa il culo una partita alla volta. In fondo, il destino non più nelle nostre mani potrebbe anche essere una chiave interessante. Chissà, deresponsabilizzati ci liberiamo di qualche peso.

Bologna-Inter, finalmente disputata, ha tolto dalla classifica quell’alone di incertezza che funzionava da scappatoia intellettuale un po’ per tutti. Prendiamola come una partita di tennis. Siamo all’ultimo game, il Milan serve per il match. Ma è una partita tra due tennisti senza un gran servizio e troppo ondivaghi tra grandi colpi e immani stronzate. In queste circostanze di solito non vince chi la tira più forte, ma perde quello col braccino.

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Radu Burgnich Facchetti

Dopo tre mesi e mezzo, quasi quattro, a segnare mentalmente il +3 in classifica (e dopo tre giorni a prendere per il culo Buffon), giochiamo finalmente ‘sto Bologna-Inter e perdiamo (per una papera del portiere uguale a quella di Buffon). Perdiamo 2-1, male, malissimo, una partita con tutte le statistiche a nostro favore, tranne quella dei gol. Ne segni uno bellissimo e troppo presto, poi non la metti più nella classica serata stregata, anzi maledetta, trascorsa a tenere palla a tirare (fin qui tutto normale) perché poi ti capita l’immane cazzata di Radu e bòn, dopo mesi di montagne russe rischia di finire tutto così, per uno di quei gesti che – tranne noi – fanno ridere tutti e si perpetuano nella viralità del web, “ahahahah, guarda che coglione”, e i coglioni siamo noi.

55 anni dopo la papera di Mantova, quella di Sarti, che segnò la fine della Grande Inter, chissà se rimarrà altrettanto nella nostra storia quella di Radu, che potrebbe segnare la fine della Piccola Inter di Inzaghi, un gioiellino che si è spesso incasinato la vita fino al gesto estremo di gettare via il tesoretto virtuale a meno di un mese dalla fine, una sorta di polizza scudetto, anzi, il jolly di Giochi senza Frontiere, da giocarsi al momento giusto che invece diventa sbagliato.

Fantasticheremo a lungo su Radu e del suo harakiri. Lui, forse l’unico giocatore della rosa ad avere fatto polemica nel corso della stagione per essere stato poco utilizzato. E che quando finalmente gioca diventa l’uomo decisivo per lo scudetto. Il non-scudetto, per la precisione.

Non è finita, certo, ma adesso non dipende più tutto da noi. Le dobbiamo vincere tutte e quattro, sperando che il Milan ne perda una. Cose difficili ma non impossibili. Però diventa dura crederci davvero, quando hai appena visto volatilizzarsi i tre punti che davi per scontati fin dal giorno della Befana. La classifica finalmente adesso è quella vera. E la classifica vera, improvvisamente, ci fa schifo.

Bologna-Inter, del resto, è anche la prova provata che tutto può accadere. Nella nottata in cui verrebbe voglia di mandare tutto affanculo, c’è invece il bisogno di riordinare le idee e autoconvincersi che la palla è rotonda, non sempre va dove vuoi tu e un Radu ce l’hanno tutti. Questa stagione merita un finale migliore. Ci sono quattro partite di campionato per opporsi ai cugini cacciaviti e una finale di Coppa Italia da contendere ai nostri peggiori nemici. Sarebbe un delitto lasciare che tutto sia finito a Bologna e in quel modo, poi. Non possiamo lasciare campionato e coppa a due squadracce. Non possiamo perdere tutto per un portiere di riserva che manco si è sporcato la divisa. A tutto c’è un limite, dai. Finiamo in pace con la nostra coscienza. Il resto, no, non dipende da noi.

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E’ il ginecologo che vi parla

(Lautaro Martinez / Getty Images)

In questa stagione in cui l’affermazione “non ci capisco un cazzo” è quella di certo più attinente all’evolversi delle cose – non vergognatevi di non capire un cazzo, anzi, siete molto trendy – , l’Inter procede bizzarramente secondo la scansione del calendario gregoriano. Non per cicli di partite, ma per mesi. Nel 2022 abbiamo avuto un buon gennaio, un pessimo bimestre febbraio-marzo e, finora, un ottimo aprile. Cicli di partite, o in qualche caso singole partite, hanno aperto o chiuso il mese e, con esso, una fase ben precisa. Più che cicli, i nostri sono dunque cicli mestruali. Non a caso tra febbraio e marzo siamo stati spesso inguardabili: provateci voi a saltare di netto un ciclo senza che vi girino le palle (questo è un assurdo anatomo-fiosiologico, ma è tutta la stagione a essere un po’ assurda, come dicevamo sopra, quindi non formalizziamoci, stiamo parlando di pallone, mica siamo all’assemblea della Società italiana di Ostetricia).

Solo 16 giorni fa la prima partita di aprile ci cambiava l’umore e con esso il finale di stagione. In un crescendo di paradossi, abbiamo raggiunto l’obiettivo massimo – vincere a Torino fermando la scalata della Juve – facendo cagare, non meritando, tantomeno tirando in porta. Cioè, è stato fantastico, sublime, liberatorio. E dopo, dopo cioè la magica sera del Playmobil Stadium, ci siamo sbloccati. Del resto – anche il più scalcinato dei ginecologi ve lo potrà confermare – può capitare che occasionalmente la dismenorrea sia acuita da una condizione di tensione psicologica che tende a sfasare la regolarità del ciclo o, talvolta, impedire il verificarsi stesso del flusso mensile. Quello che era capitato a noi tra febbraio e marzo. Il recupero di uno stato psicologico più sereno – grazie Juve – ha consentito la ripresa del ciclo ormonale normale. E ora tutto va per il meglio. Siamo più sereni, meno irritabili. Chiedete pure alle vostre donne. E’ così che funzionano le cose (ops).

Nel breve volgere di 16 giorni, con due vittorie nel mezzo (totale 4, 9 gol fatti e 1 subito), abbiamo sistemato anche il Milan. Con una partita ben diversa rispetta a quella di Torino, che abbiamo giocato ancora tra le scorie della fase down. Il derby lo abbiamo vinto 3-0, con tutte le attenuanti del caso (il Milan ci ha fatto passare un brutto quarto d’ora nel primo tempo, e se avessero convalidato il gol di Bennacer boh, io non avrei protestato) ma nel segno di una confidenza e di una concretezza che avevamo perso per strada sbatacchiati tra mile partite come una pallina da flipper, tic-toc Milan, tic-toc Liverpool, tic-toc Napoli, senza tregua, senza nemmeno grandi soddisfazioni.

Ora no, siamo tornati magari non bellissimi ma lucidi sì, ed è un upgrade che a questo punto della stagione ha il suo bel perchè. E adesso, a proposito di mesi, inizia il mese decisivo. Non coincide con il foglio del calendario, è un mese mobile (mobile, non mobail: mobile).

Da Inter-Roma (23/4) a Inter-Samp (22/5), guarda un po’, c’è un mese preciso preciso, trenta giorni da paura. E dentro a questo mese ci sono sette partite che a questo punto è inutile stare lì a incasellare dentro le solite tabelle, due tre o cinque stelle, in maiuscolo o in minuscolo, quelle robe lì. In un mese così, non ci saranno partite facili o difficili. Saranno tutte importanti allo stesso modo, tutte ricche di insidie oggettive o soggettive. Tutte da vincere come prima e unica opzione, senza dimenticare che la palla è rotonda eccetera eccetera. Se non fosse una frase che aborro, direi che sono tutte finali. O almeno semifinali, come quella col Milan, che sono tutti lì ad aspettare che crolli in diretta tv in chiaro e invece vinci 3-0 e toh!, nella stagione in cui nessuno capisce un cazzo vogliamo essere noi quelli che alla fine chiudono il cerchio. Forza Inter, forza ragazzi: cos’è un mese in confronto all’eternità?

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Il lodo Jalisse

C’è stato un momento nella storia del Festival di Sanremo, una quindicina di anni a cavallo tra di due secoli, in cui vincere era il massimo della sfiga che ti poteva capitare. Con alcune luminose eccezioni, si era affermata una regola: la canzone non avrà successo, il cantante dovrà come minimo combattere il malocchio. Non a caso la serie fu inaugurata dai Jalisse e terminò con Valerio Scanu. Solo qualche nome eccelso nel mezzo l’ha scampata, il resto della storia parla da sè. Ci si augurava di non vincere, in sostanza.

Il campionato di quest’anno mi riporta alla mente quei festival. Fateci caso: andare in testa è il massimo della sfiga che ti possa capitare. Chiunque si sia avventurato, prima o poi si è incasinato la vita. E mica per chissà quali congiunture. Semplicemente, chi va in testa dopo un po’ si affloscia. E i demeriti della capolista di turno sono sempre stati superiori ai meriti delle inseguitrici.

All’inizio Milan e Napoli volavano, poi si sono bloccate di brutto, in coppia. Quindi è toccato all’Inter: ha rimontato e ha staccato tutti, quando stava dando il colpo di grazia (Inter-Milan al 74′ era ancora 1-0 ) è crollata e per due mesi non ne ha più azzeccata una. Il Milan si è così ritrovata davanti senza neanche fare fatica, ma una volta stabilmente in testa ha ricominciato ad avere problemi seri (tipo che non segna più). Nel mentre, alla sola prospettiva di ripartire grazie a un calendario strafavorevole, l’Inter aveva fatto 6 punti nelle 5 partite in cui poteva pensare di farne 15. Il Napoli dopo la crisi si è rimesso a macinare punti ma ha perso in casa la partita che poteva portarlo in testa. E guardate cosa è costato alla Juve al solo pensare di tornare davvero in corsa per lo scudetto battendo l’Inter.

E’ un campionato in sottrazione. Le prime tre hanno vinto “solo” tre delle ultime cinque partite. La Roma è quinta e la Lazio è sesta con 9 partite perse su 32, una enormità. La Fiorentina, settima, ne ha perse 10, praticamente una su tre. In coda, al 16esimo, 17esimo e 18esimo posto ci sono le stesse squadre di un mese e mezzo fa, di fatto con gli stessi punti: la Samp ha perso 4 delle ultime 5 partite, Cagliari e Venezia ne hanno perse 5 su 5.

Quindi, in questo gigantesco minuetto di passi avanti e passi indietro, non saprei bene cosa augurare all’Inter: un sorpasso, che poi magari porta rogna? O un agguato finale, che poi magari non riesce? Boh.

Nel solco di questa strana situazione, il Corriere dello Sport è andato giù pesante con l’amarcord. Eccitato dalla suggestiva ammucchiata di scudettabili, nel ventennale del 5 maggio, perchè non gufare di brutto prospettando un secondo 5 maggio? Caro Zazza, di campionati equilibrati verso la fine ce ne sono stati un po’, senza andare a ripescare il precedente certamente più sfizioso, almeno per voi. Ammesso che le situazioni si assomiglino (secondo me no), ti posso solo dire che oggi c’è una cosa che sicuramente nel 2002 non c’era: il Var. Il che non ci preserva dall’inculata in senso generale, certo. Ma dal furto con scasso, almeno quello, sì.

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The Martian

Se un marziano fosse atterrato sulla Terra tipo lo scorso dicembre, fosse stato invitato dalla Federcalcio a vedere giocare l’Inter e la Juve per conoscere lo sport nazionale, poi fosse tornato su Marte per le vacanze di Natale, poi fosse stato trattenuto a lungo da altri impegni ma fosse di nuovo atterrato ieri sulla Terra, e saputolo la Federcalcio gli avesse trovato al volo un posto al Carta Stagnola Stadium per vedere di nuovo la Juve e l’Inter stavolta nella stessa partita, beh, il marziano dopo qualche minuto di sconcerto si sarebbe rivolto al tizio seduto di fianco (così preso dalla partita da non accorgersi che il suo vicino di posto è un marziano, cioè, tipo con la testa grossa e la pelle verde, robe così) e gli avrebbe chiesto:

“Scusa capo, ma io ero rimasto che quelli vestiti come l’Ascoli facevano ca-ca-re a nastro e quelli pitonati nerazzurri erano la compagine più brillante dell’universo da voi conosciuto. Com’è che adesso l’imitazione del Newcastle sembra addirittura una squadra e i pitonati, se mi posso permettere, fanno veramente schifo al cazzo?”

Al che il tizio, senza distogliere lo sguardo dal campo, gli avrebbe risposto:

“Ma che minchia ne so, amico mio. Io sono qui solo a gridare Merda quando rinvia il portiere, il resto non mi interessa”.

Comunque, le perplessità del marziano sono state anche le mie nel corso di una delle partite più paradossali a cui abbia mai assistito, paradossale nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze dirette e indirette, così paradossale che ho visto l’Inter giocare davvero la partita che tutti abbiamo sognato almeno una volta nella vita – vincere a Torino con la Juve giocando di merda, senza praticamente fare un tiro in porta, loro due pali e noi zero, loro 8 corner e noi 1, con un rigore della categoria “rigorini” fatto pure ripetere, loro che poi si buttano a ripetizione e l’arbitro li fa alzare – e sinceramente non so se goderne come un riccio nella stagione dell’amore o preoccuparmi come un riccio ai bordi della tangenziale.

Cioè, roba che il marziano potrebbe tornare su Marte e relazionare che il calcio è uno sport bizzarro e profondamente ingiusto, specialmente con la Juve (e vaglielo a spiegare che la Federcalcio lo ha invitato a vedere la partita meno attendibile degli ultimi 120 anni).

Ricapitolando.

a) Vincere così a Torino è fantastico. Grazie ragazzi, avete reso realtà i nostri sogni più arditi. Viva l’Inter, viva il calcio, viva lo sport, Juve merda.

b) L’imbruttimento dell’Inter esce sostanzialmente rafforzato dalla partita di Torino. Sì, è ufficiale: siamo involuti, siamo peggiorati, siamo irriconoscibili rispetto a tre o quattro mesi fa. Quando avremo finito di brindare a questa straordinaria serata – che come effetto accessorio ha quello di ricacciare indietro forse definitivamente una squadraccia che non perdeva da più di quattro mesi (in campionato, eh?) – ci toccherà chiederci quanto sia lecito aspettarci dai nostri eroi. Perchè qualche volta ti può andare bene, ma non sempre.

Sono mesi (diciamo due mesi) che aspettiamo la svolta ogni settimana. Aspettiamo una vittoria benefica, una partita liberatoria, una pausa ristoratrice. Un cazzo. Dopo il poker di partite tritatutto di inizio febbraio non siamo più stati noi, se non per due vittorie inutili – Liverpool e Salernitana. Stanchi, nervosi, scarichi. Avevamo il campionato in mano e lo abbiamo consegnato ad altri (perchè mica ce lo hanno scippato, abbiamo fatto tutto noi).

La clamorosa vittoria in casa della Juve, con tutte le caratteristiche migliori che potesse avere (immeritata, imprevista, illogica), in teoria potrebbe davvero essere la partita della svolta, l’ultima, in extremis, visto che ne mancano solo otto e il tempo stringe. Potevamo essere quarti e invece toh!, siamo ancora lassù, rilanciati dalla vittoria nello scontro diretto oggettivamente più difficile di tutti, quello che non vinciamo quasi mai.

Quasi.

Meritavamo cento altre volte, e invece lo abbiamo fatto così, tipo sberleffo, una sciccheria concettuale. Io sono come il marziano, non ci capisco più un cazzo. Dico solo, sommessamente, che vittorie così sono un segno. Ci hanno regalato una chance, non buttiamola via. Un mese e mezzo pancia a terra, chiedo solo questo. Il resto, si vedrà.

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No Ashleigh, no Barty

Ma cosa farei io se l’Inter si ritirasse? Cioè, se una mattina accendessi la tv e vedessi scorrere nel sottopancia la notizia che l’Inter si è ritirata dal calcio, basta, non gioca più perchè Suning ha deciso che ha dato tutto e inseguirà altri sogni?

Altri sogni?

Cioè, scusate: e i miei, di sogni? Io penso che resterei sbalordito per alcuni giorni, ma sbalordito di brutto, e poi smetterei col calcio anch’io. Cioè, cosa guardo se non c’è l’Inter? Sì, vabbe’, la Champions, i Mondiali, sì, certo, forse. Ma nel quotidiano, dico. Un quotidiano senza Inter. No. Mi vedo assorto davanti alla tv mentre scorrono le immagini di un Empoli-Salernitana, tipo un sabato alle 15. Un pallone che rotola, maglie esogene al mio organismo, uno sport senza alcun senso. No. Chiamo Sky, chiamo Dazn, chiamo Amnesty, disdico tutto (disdire: operazione tecnicamente più difficile di ritirarsi per inseguire altri sogni).

La turpe fantasia mi è stata indotta dalla notizia del ritiro di Ashleigh Barty, numero 1 del tennis femminile che a 25 anni, quasi 26, decide che bòn, basta così. Ho pensato ai già abbastanza disperati fan del tennis femminile: e adesso? Cosa faranno, cosa disdiranno? Ashleigh Barty non era solo la numero 1 della classifica Wta, ma una delle poche (forse l’unica) tenniste “guardabili” in uno sport sprofondato in una omologazione spaventosa: tutte uguali, pum-pum!, che le distingui giusto se sono brune o sono bionde, il resto è una melassa indistinta di botte spaventose, rovesci a due mani, rarissime discese a rete (solo per necessità), creatività vicina allo zero.

Ashleigh Barty si ritira pochi giorni prima di compiere 26 anni, nel pieno della sua attività e delle sue forze, da 115 settimane numero 1 e con la prospettiva di rimanerlo per chissà quanto ancora. Numero 1 predestinata non necessariamente per il suo valore (molto elevato parametrato al panorama 2022, non saprei dire parametrato a 10 o 20 anni fa) ma per la generale mediocrità delle sue colleghe. Cioè si ritira invece che passare all’incasso, e questo me la rende simpatica. Incomprensibile, ma simpatica.

In fondo, decide di non giocare più al gioco in cui è la più forte di tutte. Siccome si era già ritirata una volta da ragazzina (per giocare a cricket, tzè), mi piace pensare che per prima cosa voglia sfuggire la noia. E anche un gioco in cui vinci (quasi) sempre è noioso. Ashleigh Barty è incontrastata numero 1 (una delle quattro tenniste della storia a chiudere per almeno 3 anni l’anno prima in classifica, i nomi di chi l’ha preceduta sono immani) senza nemmeno sprecarsi troppo, vincendo “solo” tre Slam in quasi quattro anni. Che rende l’idea della noia. Di una certa noia, almeno.

La cosa più importante (vincere Wimbledon, il suo sogno da sempre) l’ha fatta. Due mesi fa ha vinto anche il “suo” Slam, l’Australian Open. E quindi stop, si ferma qui, perchè il tennis – fatte queste cose – è sostanzialmente noioso. Non per colpa sua, una delle rare tenniste di oggi a dare qualche sfumatura antica al pum-pum. Ma per colpa delle altre, fatte con lo stampino.

Agassi ha spiegato cosa vuol dire odiare lo sport: lui ha sopportato fino al limite possibile, fino a quella cruenta seduta di fisioterapia con cui apre il suo libro, la tortura seguita alla sua penultima partita. La Barty, secondo me, ci regala un altro prezioso insegnamento: se ti annoi, (se puoi) cambia, cambia finchè sei in tempo. E’ da privilegiati, certo, poter cambiare se ci si annoia. Figuriamoci annoiarsi e ritirarsi da numero 1 del tennis femminile (non me la vedo fare la fame. Anzi, me la vedo probabilmente ripensarci tra un annetto o due, quando le verrà la tentazione di ributtarsi nel solito pum-pum che lei sa scardinare con qualche back di rovescio o attaccando un po’), però queste decisioni apparentemente insensate e sottilmente clamorose hanno il loro maledetto fascino, in un mondo in cui nessuno rinuncia alla poltrona, qualunque essa sia.

Il tennis femminile è così svalutato che il solo ritiro della Barty ha l’effetto che avrebbe il contemporaneo ritiro (annunciato in blocco, non a rate) di Djokovic, Nadal, Federer, Murray, Berrettini, Fognini e Nick Kyrgios nel tennis maschile (Sinner è troppo pum-pum), un terremoto che avrebbe effesti nefasti per decenni.

Comunque sticazzi: ciao ciao Ash, solo se si ritirasse l’Inter sarebbe una catastrofe, altrochè. Non ci voglio pensare. Se invece chiudessero la Juve per reati finanziari aggravati e continuati, giuro che mi vedrei in loop un intero torneo di tennis femminile, con precedenza alle giocatrici con desinenza in -ova, le più noiose in assoluto. Un fioretto che tutti dovremmo fare – ova!-ova! – per un obiettivo così importante e denso di significato.

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We all guf in a yellow submarine

Cioè, voi magari ancora pensate che gufare la Juve sia un simpatico e innocuo rituale collettivo. Col cazzo. Le gufate, per esempio, hanno pesanti implicazioni psico-alimentari. Più vicino è il possibile obiettivo della Juve, e più prestigioso è il confronto sul campo, e più ai gufi si chiude lo stomaco. Per dire, la sera delle finali della Juve con il Barcellona e il Real ci siamo nutriti con un apposito sondino. Potete quindi capire, al contrario, come la vigilia di un ottavo di finale con il Villarreal – livello di appeal: film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco – sia stata più che altro dedicata al catering.

Verso la reale magione der Pomata, che aveva preparato il classico buffet pre-partita (salame, vino, formaggio, pane, patatine) nel soggiorno della servitù, i quattro gufi di turno hanno quindi portato i loro doni: Er Monnezza si presenta con un sontuoso paniere lucano contenente salsiccia pezzente, pecorino e biscotti alle mandorle; Er Matita (che, con sprezzo del pericolo, si presenta per la la prima volta a un turno ancora molto preliminare) porta una squisita torta al cacao e cocco fatta in casa bullizzando la moglie: e io, Er Blogghe, impermeabile a ogni scaramanzia, un prosecco da brindisi. Er Condominio si palesa penosamente a mani vuote, ma per l’effetto sorpresa – arriva in clamoroso anticipo invece che a metà del primo tempo – nessuno se ne accorge.

Per non lasciare nulla di intentato, i gufi hanno assecondato la bizzarra richiesta del padrone di casa: dress code, indossare qualcosa di giallo. Io ed Er Pomata sfoggiamo un cachemirino da ragazzi attempati. Er Monnezza una nostra seconda o terza maglia d’epoca. Er Matita (“scusatemi, non avevo altro”) un’improbabile tela cerata modello preliminari di America’s Cup. Er Condominio una maglietta nera con scritte gialle: a suo dire, l’unico indumento con qualcosa di giallo trovato nel suo guardaroba.

Livello di concentrazione: pari o minore di zero. Er Pomata si lascia andare a una domanda – “Scusa, ma giocano alle 20,45 o alle 21?” – che in altri tempi sarebbe stata accolta con fischi e sassaiole. Ma non è serata da isterie, anzi. I cinque gufi delegati alla gufata di Juve-Villarreal prendono comodamente posto intorno alla tavola (altro effetto delle vigilie più difficili è che si mangia in piedi, passeggiando nervosamente e guardando l’orologio) e parlano del più e del meno – guerra in Ucraina, rinnovi contrattuali Inter, caro benzina, meteo, figa – fino alle 20,57 quando in fila indiana si dirigono verso il salone delle feste, dove l’immane televisore der Pomata sembra avere acquistato pollici in più durante il periodo Covid.

Covid, già. L’ultima gufata – Juve-Porto – l’avevamo fatta in dad, la penultima – Juve-Lione – in pieno agosto. Bene: siamo tornati nella datazione giusta e nel posto giusto. Sullo schermo scorre la formazione del Villarreal e io confesso ad alta voce: “Oh, a parte l’allenatore, non ne conosco uno”. Dall’altro capo della sala Er Monnezza mi dà ragione: “Nemmeno io, li hanno presi dalla strada”. Al che si alza e urla: “Juve merda!”. Er Pomata intanto gira per il salone con il gufo reale in ceramica e peltro, che baciamo in fronte come vuole il rito. Poi si siede con in mano lo scettro. Partiti!

Il primo tempo trascorre veloce tra gli spaventi che ci provoca Vlahovic e le soddisfazioni che ci regala il nostro nuovo eroe, Geronimo Rulli. “Ma se gli diamo Handanovic, Radu, Cordaz, Berni, Carini e Orlandoni più conguaglio, non lo possiamo prendere noi?” osserva Er Matita versione Ausilio proprio mentre il Villarreal ha l’unica occasione del primo tempo. Er Monnezza segue il tiraggiro di Lo Celso gettandosi a corpo morto sul prezioso bukhara der Pomata, esalando un rantolo e rimanendo a terra in apparente stato di coma tipo Cuadrado. “Argh, la forbicina!”.

C’è un attimo di silenzio. Mentre si contorce per il dolore, Er Monnezza ci informa tra ululati e onomatopee che la forbicina portafortuna che porta in tasca dalla prima gufata (2014, Juve-Benfica) gli ha trafitto una coscia. A Er Pomata si illuminano gli occhi: “Ottimo! Era già successo nella gufata del 2019, quella meravigliosa serata con l’Ajax”. “Sì, occhei – piagnucola Er Monnezza – ma mi si è riaperta l’arteria femorale e se tu potessi chiamare il 118 potrei sopravvivere al probabile dissanguamento e partecipare ad altre…”. “No dai, porta bene. Resisti, poi chiamo la veterinaria che sta qui vicino”. “Ma io…”. “Porta bene, non rompere i coglioni”.

Nell’intervallo, mentre Er Monnezza si ritira in bagno usando l’auricolare come laccio emostatico, finiamo la seconda bonarda “Cassandra” (nome scelto non a caso dar Pomata) e facciamo il punto della situazione. “Vabbe’, stiamo a vedere (sbadiglio)”. Ci riposizioniamo davanti al mega-schermo e assistiamo annoiati alla guerra di posizione del secondo tempo, dove due squadracce si schierano con un 6-3-1 e si organizzano mentalmente per i supplementari. A un certo punto, senza alcuna ragione, nel silenzo più assoluto, Er Condominio – forse per dominare un potente abbiocco – chiede:

“Ma Eugenio Fascetti è vivo o morto?”

Gelo. Er Pomata lo fulmina: “Ma che cazzo dici? Stai concentrato, mancano ancora 13 minuti più recupero, siamo nel pieno di una gufata e tu ci caghi il…”. Rigore. Forte brusio. Va sul dischetto Moreno, che in una vita precedente si esibiva con il pupazzo Rockefeller. Tiro. Gol.

Gaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.

Salti, urla, strepiti, insulti, rumori corporali. La scena si ripeterà altre due volte nei successivi 13 minuti, in un crescendo di meravigliosa incredulità. Al terzo gol, Er Pomata inseririsce una musicassetta acquistata in un autogrill nel 1975 in uno stereo portatile modello break dance anni ’90, alzando il volume a palla:

In the town where I was born
Lived a man who sailed to sea
And he told us of his life
In the land of submarines

“Ragazzi, facciamo il trenino! -urla Er Monnezza – Il trenino del Bari del ’94!”.

E fu così che cinque gufi, di cui quattro over 50, cantando “Yellow submarine” si mettono a fare il trenino sulle ginocchia nel salone delle feste.

We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submaaaaaargh

“Cosa c’è?”

“Mi si è riaperta la falla nell’arteria femorale. Ti spiace se chiamo l’elisoccorso e mi faccio portare con sollecitudine a…”

“Ancora rompi il cazzo? Porta bene! Weee aaaall liiiive”

in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in a yellow submarine
Yellow submarine, yellow submarine

La serata termina con un ultimo assalto al buffet e abbondanti libagioni. Come al solito tocca a me aggiornare l’albo d’oro dei Gufi: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real, 2018 Real, 2019 Ajax, 2020 Lione, 2021 (in Dad) Porto, 2022 Villarreal. Per il terzo anno consecutivo è bastata una gufata one shot. Non c’è più la Juve di una volta, oppure siamo noi che le meniamo una rogna da far paura? Appuntamento al 2023. Non è facendovi eliminare subito, gobbacci maledetti, che ci farete desistere dal perseguitarvi.

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Buon riposo

Milan 17, Napoli 14, Juventus 14, Sassuolo 14, Lazio 13, Fiorentina 11, Roma 10, Genoa 9, Udinese 9, Verona 8, Cagliari 8, Inter 7, Bologna 6, Sampdoria 6, Atalanta 5, Salernitana 5, Spezia 4, Venezia 4, Empoli 3, Torino 3.

E’ la classifica (senza le partite di domenica 20: quindi Juve e Atalanta ne hanno una in meno) delle sette partite di campionato che si sono giocate nei mesi di febbraio e marzo. Abbiamo fatto la metà dei punti del Sassuolo, ne abbiamo fatti meno anche di Genoa e Cagliari, due delle ultime quattro della classifica. Abbiamo fatto 10 punti meno del Milan e, probabilmente, della Juve. Sette meno del Napoli. Il Torino, con cui abbiamo pareggiato al 93′, è ultimo in classifica: non vince dal 16 gennaio.

E se uno dei luoghi comuni del nostro calcio – “la stagione si decide tra febbraio e marzo” – come tutti i luoghi comuni ha un suo solido fondo di verità, dovremmo concludere che siamo fottuti. Nei due mesi decisivi della stagione abbiamo fatto 7 punti in 7 partite in campionato, siamo usciti dalla Champions e siamo più fuori che dentro in Coppa Italia. Due mesi terribili – solo 43 giorni, in realtà, dal 5 febbraio al 19 marzo – in cui abbiamo giocato 11 partite vincendone solo 3, pareggiandone 5 e perdendone 3.

Inter-Fiorentina non si è discostata granchè, purtroppo, dal copione dell’ultimo mese. Stanchi? Di sicuro più del Milan, che ha giocato tre partite in meno. Ma le altre, più o meno, sono al nostro livello. Laceri e contusi? Beh, altre squadre potrebbero lamentarsi molto più di noi (e hanno fatto molti più punti di noi). Stressati? Parecchio, questo sì. Intristiti? Molto, non siamo più quelli che scorrazzavano felici sul prato fino a un paio di mesi fa.

Aspettavo con ansia la pausa di campionato, convinto di una cosa: si torna in campo ad aprile, un po’ più livellati dal riposo, con la mente un po’ più sgombra, e magari anche più entusiasti di iniziare lo sprint finale senza più scuse o distrazioni. I problemi però sono due: a) sarebbe stato meglio arrivare alla pausa con qualche punto in più; b) sarebbe stato meglio non trovare subito la Juve.

Alla giornata 23, fine gennaio, battuto il Venezia, con una partita in meno avevamo 4 punti di vantaggio su Milan e Napoli e 11 sulla Juve. Alla giornata 31, settanta giorni dopo, andremo a Torino a giocare un match apocalittico, che protrebbe rilanciarci o farci sprofondare al quarto posto, non ci sono cazzi. In questo senso sì, la pausa cade a proposito. Abbiamo una settimana in più per ricucire i brandelli e ritrovare un po’ di garra. Aprile potrebbe essere un buon inizio o una pessima fine. I gobbi non ci faranno sconti. Ergo: se non ci diamo una mossa, l’operazione seconda stella finirà così brutalmente che Caporetto, al confronto, è un rave party.

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