La prima cosa bella (moltiplicato per 2)

1.Addì 22 febbraio 2023, dopo soli 193 giorni dall’inizio della stagione, Lukaku è abbastanza tornato Lukaku. Nei 192 giorni precedenti lo avevamo visto raramente in campo, spesso in panchina con outfit da tempo libero, e come un’apparizione durante i Mondiali in cui, alla maniera del mago Oronzo, con la semplice imposizione del suo corpaccione aveva agevolato l’eliminazione del Belgio. Nei 192 giorni precedenti abbiamo letto di lui prevalentemente sui bollettini medici. Nelle app dei risultati in tempo reale è stata quasi sempre etichettato così: Romelu Lukaku, muscle injury, unknown (il ritorno in campo, s’intende). Nelle foto a bordo campo sembrava la mascotte in scala 2:1. Nelle scelte del mister non era quasi mai un’opzione, quelle poche volte che lo era (o poteva esserlo, tra rinvii e ricadute varie) era finito anche dietro Correa. No, dico: dietro Correa. Secondo in classifica nei pacchi dell’anno dietro Pogba. Una pena, considerando quello che è stato Lukaku per l’Inter e le aspettative che ovviamente si riponevano in lui.

Ora, a parlare della salute di Lukaku si fa presto a essere smentiti. Però, ponendo il caso che ci sia del vero e del consistente in quello che abbiamo visto, Lukaku ha finalmente fatto il suo debutto in stagione. Il colpo di testa sul palo, la ribattuta in acrobazia, il suo testone che spicca al centro del gruppone esultante: roba che avevamo dimenticato. Ma anche l’assist lucido per Lautaro, e l’abbraccio a Barella per chiudere coram populo un fastidioso incidente. Roba che non vorremmo più scordare. Dopo 192 giorni, la sera del 193esimo giorno, la prima cosa bella.

2. La prima cosa bella l’ha fatta anche Onana. Ha 24 presenze in stagione contro le 9 di Handanovic, è ormai il titolare ufficiale da quattro mesi e mezzo, in Champions le ha giocate tutte lui. In questo lasso di tempo abbiamo imparato a conoscerlo un pochino, ad apprezzarne le doti di elasticità e ad accettare quel suo essere un po’ grezzo e un po’ acerbo. Ma tutti noi, chi più chi meno, non vedevamo l’ora di disfarci di Handa (o, detta più elegantemente, di avviare la successione) e Onana finora è andato più che bene così. Niente male, disastri non ne ha fatti, ha tempo e mezzi per migliorare.

Quello che mancava a Onana era una parata che segnasse definitivamente la discontinuità. Ok, parate in 24 partite ne ha fatte, qualcuna notevole. Ma ci voleva una parata speciale. Una parata-parata. Un gesto atletico, tecnico e istintivo che segnasse la discontinuità, che ci facesse dire con certezza che no, quella palla lì Handanovic non l’avrebbe mai presa. E Onana ieri sera l’ha finalmente fatta, in quella doppia parata su Zaidou e Taremi, la seconda da terra. Non importa che il secondo tiro fosse in fuorigioco. Importa che quella palla lì l’abbia presa con un gesto che no, Handa non avrebbe fatto. Ci sono voluti 193 giorni, ma adesso siamo tutti un po’ più tranquilli. E magari anche lui.

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The Big Short

Per carità, poi sicuramente tutto si aggiusterà, le semifinali saranno mainstream e al traguardo della finalissima arriveranno le favorite. Però la Champions di quest’anno si annuncia potenzialmente anomala come raramente è stata in tempi recenti.

Limitiamoci ai fatti oggettivi:

1) Non ci sono, tra le habitué della fase finale, il Barcellona e l’Atletico Madrid. Non c’è la squadra che sorprendentemente sta conducendo la Premier, l’Arsenal. Non c’è la Juve (vabbe’ dai, una battuta concedetemela).

2) Due tra le sei favoritissime usciranno agli ottavi: una tra Psg e Bayern e una tra Liverpool e Real, le finaliste dell’ultima edizione.

3) (Almeno) quattro delle otto squadre che si giocheranno i quarti di finale, cioè la metà, saranno delle outsider: le quattro che passeranno tra Inter e Porto, Milan e Tottenham, Napoli ed Eintracht, Benfica e Bruges.

E fin qui siamo alle certezze. Restano due ottavi (Chelsea-Borussia Dortmund e City-Lipsia) che possiamo immaginare come andranno. Se passeranno Chelsea e City, tutto nella norma. Non dovesse andare così, ai quarti ci potrebbero anche essere tre favorite e cinque outsider, mica male (non oso pensare all’en plein delle outsider). Tutto, poi, sarebbe comunque affidato alle palline che rotoleranno nell’urna dei sorteggi del 17 marzo: e chissà, potrebbero disegnare il tabellone perfetto (quattro omogenee sfide favorita-outisider). O magari no, potrebbero disegnarne uno imperfetto, o uno pesantemente imperfetto. In fondo saranno otto palline che girano in un recipiente.

No, niente, manca una settimana a Porto-Inter e guardando il soffitto pensavo a questa doppia opportunità che va maneggiata con cura: un ottavo “giocabile” e un possibile scenario molto fluido nel turno successivo, dove potrebbe succedere niente ma anche tutto, dove si potrebbe rientrare nella normalità oppure deflagrare nella follia: chessò, avere tre italiane su otto, tre o quattro sorteggi “giocabili” su sette. Ecco, queste cose qui. Che sono meno impossibili (o più possibili) di quanto si possa immaginare.

Ho volutamente diviso le cose reali da quelle eventuali, ma alla fine pesano più o meno uguali. C’è una specie di 50/50 davanti a tutte le outsider, noi compresi: senza esagerare con le fantasie e con l’onanismo, diciamo oggettivamente che tutte hanno una discreta chance di divertirsi. Non c’è ovviamente nulla di scontato – chiedere alla Juve e ai suoi fortunatissimi accoppiamenti delle ultime tre Champions – ma nemmeno tutte cime da 8mila metri davanti. Ce n’è qualcuna meno impervia, ecco.

Chiaro che per nutrire un sogno c’è bisogno di una certa Inter, non quella flaccida di Genova, ma che ve lo dico a fare? Ho scritto questo post (in pace, senza toccarmi i coglioni) come promemoria. Anzi, come pre-memoria. Il 17 marzo, davanti alla tv, potrei essere lì a sospirare, a smoccolare, oppure a mangiare Orociok come Poldo Sbaffini. Comunque vada, vorrei arrivare a questo supplizio con serenità. Di avere fatto tutto il possibile, e amen. O di averlo fatto e poterci ancora provare.

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Il labiale ci fa male

Se anche avessimo vinto 8-0 con sestupletta di Lautaro, gol singolo di Bellanova e gol in rovesciata di Onana, stamattina su qualsiasi sito ci sarebbe stata la stessa cosa: il video di Lukaku che manda affanculo Barella.

(beh, forse ci sarebbe stato anche quello della rovesciata di Onana. Ma sotto)

Quindi i problemi da affrontare questa mattina sono due: lo 0-0 con la Samp e la guapparia tra Lukaku e Barella. Cominciamo dalla seconda.

Diciamo che Barella ha normalmente un atteggiamento piuttosto plateale nei confronti degli errori dei compagni. Siamo nel limite dell’umano, per carità. Magari ti aspetti un passaggio che ti liberi al tiro, o magari ti aspetti che il tuo compagno la metta nell’angolino invece che spararla al secondo anello. A chi non scapperebbe un bel vaffanculo? Il problema, parlando di body language, è che si può mandare a stendere il compagno interiorizzando un pochino di più e non cominciare a sbracciare come un tarantolato, mettere il broncio come un pulcino sostituito dall’allenatore davanti ai genitori in tribuna e sparare moccoli a raffica tipo Benigni in “Berlinguer ti voglio bene”. Non ti rendi simpatico, ecco. Lukaku, dal canto suo, sarà anche bravo buono bello e paziente ma deve fare i conti con la frustrazione di un gol che non arriva e di un corpaccione che non si mette al pari degli altri. Diciamo che il corto circuito ci sta. Diciamo che siamo un po’ nervosi a prescindere, perchè andiamo verso il clou della stagione.

Accolita di rancorosi
Settimini cuspidi e tignosi
Persi nella vita
Come dentro una corrida
Intrappolati
Tra melassa e baraonda

Accolita di rancorosi
Camerati ruvidi e grinzosi
Incazzosi dentro casa
Compagnoni fuori in strada
Ci intendiam solo tra noi!

Diciamo anche – e veniamo all’altra questione – che una squadra che fa trash-talking e vince è meglio di una squadra che fa trash-talking e pareggia 0-0 con la penultima in classifica. “Eh, però abbiamo fatto 25 tiri”. Sì, ma 25 tiri di merda, anzi 24, e l’unico bello te lo ha fatto lo stopper provandoci da 30 metri. “Eh, però è la terza partita di fila che non prendiamo gol”. E’ vero, ma in queste tre partite ne abbiamo segnati due. Minchia, ma non c’è una via di mezzo?

Parliamo di una squadra – la nostra – che veleggia al secondo posto in classifica a -15 dalla prima, la morte civile, una specie di limbo in cui è facile perdere il senso dello spazio e del tempo. Dietro, un gruppone di squadre che balla il minuetto, passi avanti e indietro, serie positive e lunghe pause, un gustoso giochetto a chi resta più indietro degli altri in attesa di imboccare la dirittura finale. Però, sant’iddio, se avessimo vinto a Genova adesso ce la godremmo un po’ di più. Adesso ci guarderemmo indietro con serenità.

Cioè, per dirla in poche parole: buttare via punti non serve a granché. Ci fa anche essere più nervosi. Poi ci si manda affanculo in campo (e avanti così: si chiama narrazione circolare).

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A noi ci ha rovinati l’inizio (semi-cit.)

A noi ci ha rovinati l’inizio. Mi è scappata questa frase qui, con la stessa intonazione con cui Abatantuono/Ponchia diceva “A noi ci ha rovinati il cristianesimo” in Marrakech Express, mentre guardavo sospirando la classifica del campionato italiano giuoco calcio Figc. Ieri sera, dopo il derby, Inzaghi rievocava l’ottava giornata di campionato, 3 ottobre, noi che perdiamo in casa con la Roma e la classifica che ci inchioda alle nostre responsabilità: 12 punti in 8 partite, 4 vinte e 4 perse, nono posto.

Napoli e Atalanta 20, Udinese 19, Lazio e Milan 17, Roma 16, Juventus 13, Sassuolo e Inter 12, Torino 10.

Questi erano i primi dieci posti della classifica di quella sera. E com’è andato invece il campionato dalla nona alla ventunesima giornata, al netto della penalizzazione della Gobba e della partita in meno di Lazio e Juve che giocano stasera e domani?

Napoli 36, Inter 31, Juve 25*, Roma 24, Lazio* e Milan 21, Torino 20, Atalanta 18, Sassuolo 11, Udinese 10.

Escludiamo dunque la Juve, che ora ci interessa meno (comunque nel peggiore dei casi siamo a +3), e le piccole che erano destinate prima o poi a implodere. E il Napoli, ovviamente, che sta facendo una stagione fuori da ogni logica aspettativa (comprese le loro). Insomma, negli ultimi 4 mesi abbiamo fatto 7 punti più della Roma (e della Lazio, se stasera vince, sennò anche di più), 10 punti più del Milan, 13 punti più dell’Atalanta. Aggiungici la qualificazione agli ottavi di Champions eliminando il Barcellona, aggiungici la Supercoppa, aggiungici che bene o male sei pure in semifinale di Coppa Italia. Insomma, cosa vuoi mai dire all’Inter di questi ultimi quattro mesi, se non che firmeresti per fare altre 13 giornate di campionato così (10 vinte, 1 pari, 2 perse: una media-scudetto)?

Quindi, riprendendo la voce di Ponchia, a noi ci ha rovinati l’inizio. Un inizio del cazzo, diciamolo, fatto di scontri diretti persi sanguinosamente, di tanti gol presi in trasferta (trend conservato anche dopo), di partite devolute con troppa facilità. Ok, magari non proprio così disastrosamente persi, ma in certe partite sembravamo il Milan di oggi. Ecco, quell’Inter lì almeno non si è più vista. Un’Inter sistematicamente destinata a involversi in corso di partita, intendo. Errori e sfighe fanno parte del gioco e gli inciampi occasionali possono capitare. Mi spiego più serenamente un’Inter-Empoli o un Monza-Inter (partita rubata, don’t forget) che non quelle prime tre sconfitte di campionato a botte di tre gol alla volta (Lazio, Milan, Udinese) dando una drammatica sensazione di inferiorità e di mollezza.

Tutto questo cammino l’abbiamo fatto tra qualche alto e basso, ma sempre in progressione. E l’abbiamo fatto, va ricordato, senza Brozovic e Lukaku, praticamente gli uomini-scudetto del 2021. Vincere è la cosa che ti aiuta di più. E vincere tipo due derby in 18 giorni, dominandoli, dovrebbe darci un’altra bottarella all’autostima (condizionale d’obbligo, Empoli docet). Il primo campionato è durato 8 giornate e abbiamo fatto cagare. Nel secondo campionato (con il mondiale in mezzo) ci è stato davanti solo un Napoli mostruoso, che peraltro abbiamo battuto. Facciamo che nel terzo campionato, le 17 giornate che mancano, cerchiamo di mantenere la media di tutto: punti, consapevolezza, voglia. E andrà tutto bene.

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Non è successo niente (?)

Wow! Che figata di domenica! Il Milan ne prende 5 in casa dal Sassuolo (4 gol subiti a partita nelle ultime tre, squadrone!), la Juve viene scherzata al Latta Stadium dal Monza! Che domenica! E noi abbiamo vinto! Wow!

No, scusate la differita, è che avevo tenuto tutto in stand-by. Come si fa a esultare in santa pace e a cuor leggero quando magari tre ore dopo ti vendono Skrinny e poi magari anche Dummy e Brozzy e poi in piena tempesta procellosa l’Atalanta di Gaspy espugna San Siry e ti elimina dalla Coppa Eataly? Così mi sono tenuto tutto dentro per 48 lunghe ore, compreso un martedì passato a pigiare F5 sul sito della Gazza.

Come da quasi consueto copione, non è successo niente.

Certo, proprio niente niente niente direi di no. Andiamo avanti così, ok, ma con una squadra un po’ più virtuale, con uno che se ne stava già per andare e invece se ne andrà tra qualche mese, con un paio d’altri destinati altrove (oddio, Brozo ci avrà fatto il callo a questi scenari in corso d’opera) e con almeno altri quattro o cinque che, a furia di leggerlo sui giornali, dovranno alcuni resistere al canto di qualche sirena e altri dimostrare in fretta di essere da Inter, sennò raus!, ma magari no, perchè affrettare i giudizi? Qui si parrà la nobilitas del nostro mister, che dovrà tenere insieme una squadra la cui mente a volte vaga altrove. Abbiamo tipo tre obiettivi da inseguire (in ordine cronologico: rimanere tra le prime quattro, toglierci uno sfizio in Champions, le semifinali di Coppetta) e ci vuole un minimo di concentrazione, di voglia, di palle, di amor proprio, di amor di bandiera.

La vicenda Skriniar, come la vicenda plusvalenze, toglie altra poesia a uno sport già fin troppo prosaico. Abbiamo gioito per la punizione alla Juve, ma ci siamo anche resi conto di come un movimento elefantiaco come il calcio poggi su fondamenta di polistirolo, cifre gonfiate, soldi che non esistono, bilanci compilati a cazzo come se tutti fossero fessi. Ma il giorno che il gioco imploderà, imploderà per tutti, compresi gli innocenti (o meno colpevoli). E anche il caso Skriniar ci rappresenta un’altra sfaccettatura di questo carrozzone allo sbando, dove a un certo punto della filiera arrivi alla categoria “procuratori” e ti accorgi che sono loro a tenere per le palle chiunque, a monte e a valle. E noi qui, a guardarli spuntare ricche percentuali a nostre spese, cioè a guardare il pianista che suona mentre il transatlantico affonda.

Avremo un altro braccetto di destra della difesa a tre, figuriamoci, perso un braccetto se ne fa un altro. Nel nostro caso, al culmine di una vicenda gestita alla carlona dalla società, sarà più che altro un nuovo buco in un bilancio groviera. Dovremo sacrificare qualcosa, come di consueto. Di consueto per noi, vorrei sottolineare. Però preferisco mostrarmi povero ma bello piuttosto che trovarmi a dover spiegare come facevo lo splendido con le pezze al culo. L’anno scorso c’era gente che comprava un centravanti a 70 milioni al mercato di gennaio. Quest’anno vola un po’ più basso.

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Effetto stop

Sull’effetto Supercoppa, beata ingenuità, un po’ ci contavo. Vincere un trofeo piallando il Milan mi sembrava una di quelle cose che potevano farti solo bene. Piacere, fiducia, endorfina, sogni proibiti, una bottarella all’autostima dopo tanti alti e bassi. Se c’è stato un effetto, dev’essere però svanito già nel tragitto tra lo stadio e l’aeroporto di Riad, mentre sul prato gli addetti rastrellavano coriandoli e brandelli di milanisti. Al ritorno alla normalità – Milano, San Siro, campionato, Empoli (sbadiglio) – abbiamo sfoderato l’atteggiamento migliore per prendersi una tranvata che non ha niente di salutare, ma fotografa purtroppo quello che sa essere l’Inter: la spumeggiante trionfatrice di Supercoppa oppure, a stretto giro, una indistinta teoria di personaggi – giocatori, staff tecnico, società – da prendere a calci in culo, come avrebbe detto Lippi, non sapendo nemmeno da dove incominciare. Tutto nell’arco di cinque giorni. Non cinque settimane o cinque mesi: cinque giorni.

Non che una sconfitta in più o in meno, a questo punto, cambi più di tanto le cose, ma averne messe insieme in campionato 6 nel solo girone d’andata ci inchioda ormai – anche statisticamente – a una dimensione definitiva: dobbiamo giocarcela per un posto tra il secondo e il quarto, stop, e adesso che la Juve è (momentaneamente? chi può dirlo?) sparita dalle zone nobili ci accorgiamo che non sarà una passeggiata, perchè sono tutte lì ad aspettare che ne perdiamo altre sei nel ritorno per guadagnarsi la qualificazione in Champions più facile di sempre.

Gli ultimi cinque giorni ci dipingono alla perfezione, elencando tutto quello che sappiamo fare in meglio e in peggio: giocatori una volta scintillanti e vittime delle proprie paturnie la volta successiva (e va anche bene, perchè ne abbiamo di scarsi/impresentabili sempre), un allenatore che una volta le azzecca tutte e la volta dopo nemmeno una, una società che brilla per stile e lungimiranza salvo poi incartarsi nella gestione di casi singoli o di ordinarie strategie.

Tiriamo una riga a metà stagione. Supercoppa a parte, com’è andata? Una Champions da 8 e un campionato da 4. Un campionato dove in fondo ne hai vinte 12 su 19, neanche male, ma appunto ne hai perse 6, un’enormità irrimediabile. Un campionato dove hai fatto 24 punti in 10 partite in casa (saremmo secondi) e 13 in 9 partite in trasferta (saremmo ottavi) con l’incredibile cifra di 20 reti subite, un’altra evidenza che ci ridimensiona parecchio.

Fuori casa ne abbiamo presi tre dalla Lazio, dal Milan e dall’Udinese, ma anche dalla Fiorentina (qui, almeno, vincendo 4-3) e dal Barcellona (3-3). Ne abbiamo presi due dalla Juve, dal Monza (2-2), dall’Atalanta (anche qui, almeno, vincendo 3-2) e dal Bayern. Fanno nove partite stagionali, a metà del cammino, in cui siamo tornati da una trasferta con due o tre reti sul groppone. Nove trasferte sulle 12 disputate tra campionato e Champions. Solo una volta su 12 non abbiamo subito gol, a Plzeň. E dove vogliamo andare con una squadra diventata così vulnerabile?

La Supercoppa ci ha fatto trascorrere qualche giornata tranquilla. Poi una sera accendiamo la tv e vediamo un mezzo sfacelo: il capitano Skriniar che fa due falli alla Chuck Norris e viene espulso al 40′ (può essere spensierato uno che non sa dove giocherà tra una settimana?), Dumfries che da titolare fisso è passato a diciottesima scelta, Inzaghi che ha Dumfries e Gosens in panca e fa entrare Bellanova (condannandolo al classico massacro del laterale, nella miglior tradizione di San Siro), Lukaku che ha la forma di uno tornato il giorno prima dalle vacanze estive (solo che siamo quasi a febbraio), Barella con i nervi a fior di pelle, Correa con gli occhi da cerbiatto (vabbe’, i soliti), eccetera eccetera, e una squadra in balìa dei contropiedi dell’Empoli.

Tempo di resettare, va da sè, non ne abbiamo. Giocheremo tre partite in otto giorni (Cremonese, Atalanta in Coppa Italia, Milan) per le quali sarebbe necessaria l’Inter di Supercoppa, non la sua versione Wish di ieri sera. Spero che una brutta nottata l’abbiano passata anche i milanisti: “Ma se l’Inter ci ha asfaltati in Arabia e l’Empoli ha asfaltato l’Inter, quanto potremmo perdere con l’Empoli? Diciassette a zero?”

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Salvate il soldato Sinner

Sconfitte che valgono come vittorie, va da sè, non ne esistono. Sono concepibili solo se la sproporzione tra i contendenti è tale (chessò, un 512esimo di Coppa Italia Vogherese-Inter) che il perdente può considerare una vittoria l’aver venduto cara la pelle o l’aver fatto un figurone. Altrimenti, a parità di condizioni, sono formulette consolatorie per partite giocate bene e finite male, per insuccessi immeritati, per match condizionati da una botta di sfortuna, per un irrimediabile gol preso al 95′ quando il pareggio ti stava anche un po’ strettino.

Tutto quello che vogliamo, certo, però il risultato è sempre uno solo: zero punti. Tra una “sconfitta che vale una vittoria” e una vittoria magari ottenuta giocando da fare schifo, o per un pallone che incoccia uno stinco e va dalla parte opposta, o con un unico tiro quando magari gli avversari ne hanno fatti 15 e colpito tre pali, c’è un mondo di differenze (quando si decide di accantonare l’epica e la poesia e si dà un’occhiata alla classifica aggiornata) e un’unica drastica sentenza: la tua “sconfitta che vale come una vittoria” vale niente, hanno vinto gli altri, non ci sono cazzi, ed è anche dura autoconvincersi che la sconfitta in questione voglia dire altro che non averlo preso sonoramente in quel posto.

Parlando di tennis, il concetto di sconfitta che vale come una vittoria è stato ripescato ieri pomeriggio da Repubblica.it pochi minuti dopo che Sinner, agli ottavi dell’Australian Open, aveva perso al quinto set con Tsitsipas. Una sconfitta che vale una vittoria? Sicuri?

A proposito di autoconvincimenti, è dal 2018-2019 che nello sport italiano si è scatenata la Sinner-mania alimentata da uno storytelling mai riservato a nessuno. L’allora minorenne e precocissimo Sinner, che viaggiava oltre la 100esima posizione Atp, veniva pronosticato come il sicuro campionissimo del decennio successivo, sicuro numero 1, sicuro vincitore di Slam. Una tesi tanto convinta e tanto corale che nel tennis italiano si è verificato un fenomeno stranissimo: prima Fognini e pochi mesi dopo Berrettini entravano nei primi 10 della classifica, roba che non succedeva dai tempi di Panatta. Eppure, gli addetti al lavori già parlavano di Sinner. C’erano Fognini numero 9 e Berrettini numero 8, ma il fenomeno era Sinner. Era già Sinner, era comunque Sinner.

Faccio un inciso prima che sia troppo tardi: io non ce l’ho con Sinner, tutt’altro. E’ un ragazzo serio, forse anche troppo. Tifo per lui perchè conquisti davvero un decimo dei trofei che gli hanno pronosticato. Metterò la sveglia la notte in cui sarà in finale agli Us Open sul suo amato cemento. Non ce l’ho con lui, ce l’ho con gli storyteller.

A Sinner è stata fatta un’apertura di credito pazzesca rispetto alla media. Non gli si è genericamente pronosticato un futuro roseo, ma un futuro da numero 1, in uno sport in cui l’Italia un numero 1 non l’ha mai avuto. Non avevo mai visto un ragazzo così giovane – e così schivo rispetto a certi sboroni – diventare per “elezione” una specie di gallina dalle uova d’oro. Copincollo da Wikipedia: da juniores firma il contratto con la Head, nel 2019 con Nike, nel 2020 firma ulteriori contratti con Rolex, Lavazza, Technogym, Alfa Romeo, Parmigiano Reggiano e Fastweb. Il 19 maggio 2022 firma un contratto di 10 anni con la Nike per 150 milioni di dollari totali. Siamo già ai conteggi a 8 zeri, e Sinner da professionista non ha ancora vinto niente. Di importante, intendo: sei torneini (un 500 e cinque 250) e stop, niente Slam, niente numero 1, come da storytelling ripetuto fino all’ossessione.

Chi ha il bouquet Sport di Sky o chi ogni tanto finisce su Supertennis sa di cosa parlo: nella programmazione ci si imbatte spessissimo in una replica di una partita di Sinner, manco fosse McEnroe o Federer. Perché? Per dire: non ho mai visto la replica di Fognini-Nadal agli Us Open (partitone pazzesco con Fogna che sotto di due set rimonta e vince con Nadal, Nadal!, l’equivalente di una vittoria solitaria sul Mont Ventoux o di una maratona di New York), ma ogni tanto finisco su una partita di Sinner contro (nome di pallettaro a caso). Perché?

Sinner, prima del Covid (che poi ha fermato tutto, lui compreso: è stato sfortunato, sì, ma come tutti), ha battuto una lunga serie di record di precocità del tennis italiano, e dopo il Covid è arrivato velocemente nei primi 10 del mondo (9 la sua miglior classifica, oggi è 16esimo). E lì si è fermato. Grazie al cazzo, direte voi, perchè non vai tu a giocare al posto suo? No, certo, non ci vado. Ma non pretendo nemmeno – come fanno gli storyteller del tennis e dello sport italiano da quattro anni – di issarlo a forza dove non può ancora arrivare, nè di ripetere allo sfinimento lo stesso mantra in attesa che qualcosa si avveri.

Oggi Sinner ha 21 anni e 4 mesi, è nell’anno dei 22. E’ ancora ampiamente in tempo per vincere tutto quello che vorrà e potrà. E’ giovanissimo, ma non il più giovane. Il numero 1 della classifica (Alcaraz) ha due anni meno di lui, e anche il numero 9 (Rune). Il numero 6 (Auger-Aliassime) ha un anno di più, ma è nei primi dieci da un pezzo. Sinner, mentre lo storytelling continua senza sosta, è un signor giocatore che continua a sbattere sullo stesso muro, quello dei Top 5: contro i primi cinque della classifica ha perso 16 match su 17 in carriera, e per diventare numero 1 Atp o vincere uno Slam è proprio quello che dovrà fare: battere i primi 5 con una discreta regolarità. Altri metodi non ce ne sono.

Lo storytelling del super-Sinner ha finito col nuocere per primo a Sinner, temo. E forse sarebbe più sano e più produttivo ogni tanto parlare dei problemi di Sinner, oltre che raccontare quanto è bravo. Per fortuna è lo stesso Sinner nelle interviste a dire che la sconfitta col cazzo che vale come una vittoria: “È sicuramente una sconfitta dura questa con Tsitsipas. Ora dovrò ripensare a tutto e tornare ad allenarmi. In questo tipo di partite, al quinto set può andare in un modo o nell’altro. Ho avuto lo slancio. Poi ho fatto un po’ di casino”. E intanto si vede che sta lavorando a un futuro ancora migliore rispetto a questo pur luminoso presente: mette su muscoli, serve più forte. Si prepara a rimanere al vertice, a vincere altri tornei, a inseguire lo Slam che a un italiano in singolare manca dal 1976.

Lo storytelling ce lo racconta come un superatleta. Che però è fragile, si ferma spesso. Lo storytelling imperterrito racconta che mentalmente è il migliore di tutti. Ah, davvero? E com’è che perde sempre con i più forti? Non sarà che invece gli manca qualcosa proprio mentalmente? E cioè quell’ultimo stadio di sicurezza che uno storytelling diverso, che lo raccontasse forte sì ma anche un po’ più umano, potrebbe dargli?

Forza Jannik: tappati le orecchie e picchia. Lo Slam arriverà senza bisogno che lo raccontino in anticipo, a te e a noi.

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Superpagelle di Supercoppa

Onana 10. E’ l’evoluzione della parata laser di Handa: attira i palloni – quei pochi che arrivano – verso di sè. Una sicurezza.

Škriniar 10. Col cazzo che lo diamo agli sceicchi francesi. O almeno, ce lo paghino il giusto: 150 milioni più Messi, Verratti e Hakimi.

Acerbi 10. A fine stagione, con il metodo del Carbonio 14, sarà accertata la sua vera età: sembrava il nipote forte di Tomori.

Bastoni 10. E’ alto come Lebron James e ha il piede sinistro di Mariolino Corso. Potrebbe passare al Psg, sì, ma per Mbappè, Nizza, l’Alta Savoia e la Corsica. (dal 84’ De Vrij 10. Bravissimo).

Darmian 10. Con quella pettinatura può fare ciò che vuole: in un mare di sfumature alte, i suoi boccoli fluttuano eterei nel deserto.

Barella 10. Corre 37,5 km, serve 18 assist, recupera 37 palloni, nell’intervallo serve il tè caldo, fa un massaggio a Dzeko e mette via la roba per la lavanderia. Monumentale (dal 71’ Gagliardini 10, che classe, rinnovatelo fino al 2038, vi prego, è necessario)

Çalhanoğlu 10. Quando vede il Milan diventa pure stronzo. E quando un0 bravo è pure stronzo, diventa un fattore (dal 84’ Asllani 10. Praticamente perfetto)

Mkhitaryan 10. Abbiamo un sacco di giocatori vecchiotti, tutti bravi, specialmente lui che dove lo metti sta e dove non lo metti ci va. Ma perchè non lo abbiamo preso 10 anni fa? Boh. Se vanno in pensione tutti insieme, sono cazzi

Dimarco 10. Difende male? E diciamolo: ma chi se ne frega. Attacca e sgroppa da dio, ha un sinistro più che sopraffino e una tamarraggine che non stona (dal 63’ Gosens 10, uno scintillante dodicesimo uomo, o tredicesimo, o quattordicesimo, e sticazzi?)

Džeko 11. Tra due mesi compie 37 anni, nel frattempo insegna calcio in Italia e in Arabia, una doppia cattedra che si riconosce ai cervelloni (dal 71’ Correa 10. Un genio incompreso)

Lautaro Martínez 11. Lautarooooooo, Lautaroooooo, che ce frega de Mbappè noi ciabbiamo Lautarò. Lautarooooo Lautarooooo (ecc. ecc.)

Brazão 10. E’ la prima volta che lo vedo dal vivo, col quarto portiere siamo messi bene

Cordaz 10. Esperienza

Handanović 10. Non giocare, alzare la Supercoppa: king

Bellanova 10. Bravo

D’Ambrosio 10. Sempre un bel ragazzo.

Dumfries 10. L’uomo che non sorride mai, figuriamoci quando non gioca

Zanotti 10. Giuro, avevo letto Zanetti. Minchia, mi sono detto, vabbe’ che abbiamo qualche assenza. Poi ho letto meglio

Brozović 10. Il migliore

Carboni 10. Diligente

Lukaku 10. Un’altra prestazione impeccabile nel suo ormai consueto assetto stagionale, quello da seduto. In borghese o in divisa da gioco, è sempre rassicurante, sorride, fa gruppo. Un lusso

Inzaghi 11. Ci sono i Nessun dorma di Pavarotti, le veroniche di Panatta, le trivele di Quaresma, le uova di Cracco, le barzellette di Berlusconi, i covi di Messina Denaro. E le Supercoppe di Inzaghi

Arabia Saudita 10. E’ il più grande Stato arabo dell’Asia occidentale per superficie e il più grande del mondo arabo dopo l’Algeria, si sta impegnando molto sui diritti umani e la sera fa fresco. Un paradiso

Messina Denaro 10. Il nostro nuovo tifoso: gli abbiamo allietato la seconda notte al gabbio con una partita della madonna. Si era ridotto a mandare messaggi alle sciure della chemio, gli abbiamo aperto un mondo

Milan 10. Grazie di tutto, davvero

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L’Arabia in corpo

Dopo i Mondiali in Qatar ci mancava giusto una Supercoppa a Riad. E chissà per quanto ne avremo ancora di queste pagliacciate, se è vero che l’Arabia Saudita sarebbe in trattativa con la Lega di Serie A per organizzare la partita – anzi, LE partite, perchè vorrebbero fare una final four, massì, crepi l’avarizia – anche nei prossimi sei anni in cambio di una somma astronomica. Eticamente una finale a Riad è un gradino sotto Teheran e Kabul, ma chi se ne frega dell’etica quando le cifre hanno otto zeri? Ok, eticamente lasciamo stare. E tecnicamente?

Diciamo che Inter e Milan hanno attraversato momenti migliori. Restando alle ultime tre partite (la quartultima era Inter-Napoli, il 3 gennaio, ma sembra un mese fa), l’Inter ha affrontato Monza, Parma e Verona senza – diciamo così – brillare. Il Milan ha fatto anche peggio, perchè non ha mai vinto: due pareggi in campionato (Roma e Lecce) e sconfitta in casa in Coppa Italia con il Toro, un po’ poco per la squadra più scintillante del mondo.

Ma del Milan mi frega il giusto. Dall’Inter, invece, avrei voluto vedere un po’ di più dopo la vittoria con il Napoli, che sembrava averci dato una svolta. Per essere quelli che hanno riaperto il campionato (poi subito richiuso) mi aspettavo altro rispetto al mezzo disastro di Monza, al netto del furto arbitrale, e alle due partite da morte civile con Parma e Verona, i cui highlights durano circa 40 secondi compreso un breve inserto pubblicitario.

Un sommario esame della classifica di Serie A mi ha provocato un brivido sinistro. Era da qualche giornata che guardavo solo avanti (al Napoli lontanissimo, al Milan da raggiungere, alla Juve con cui giocarcela) e mi sono accorto che dietro c’è un certo fermento. Tre squadre inaffidabili e discontinue sono lì a soli tre punti, che sono pochini considerando che un po’ inaffidabili e discontinui lo siamo anche noi. E non so, ma le ultime partite dell’Inter mi hanno dato un’impressione strana, come se attualmente non ci sia abbastanza garra per credere allo scudetto (embè, sotto di 10…) e allora si punti a una linea di galleggiamento in campionato (restare entro le prime quattro) e nella stessa Coppa Italia (vediamo come va, senza perdere il sonno) in attesa di vedere come andrà in Champions (che magari ci scappa un quarto di finale, hai visto mai). E così squadre che alternano imprese a catastrofi sono lì a un passo, pronte a risucchiarti verso l’inferno del quinto posto.

Dietro il Napoli è tutto un ciapanò, che può essere un giochetto divertente ma solo se non ci partecipi. Forse il discorso è prematuro, a “sole” 20 giornate dalla fine. O forse è il momento stesso della stagione (giochiamo ogni tre giorni in tre competizioni diverse) a provocare qualche distrazione. Ma mi piacerebbe vedere un’altra Inter, un pochino più solida mentalmente. Non una squadra che non chiude la partita con il Monza, che va ai supplementari con il Parma, che soffre nel finale con il Verona.

Insomma, spero nella scossa da Supercoppa. Spero che, superato lo choc della ghirlanda al collo appena messo piede in un Paese poco civile, ci si concentri sul colore delle maglie della squadra avversaria, anche se intorno ci sono sabbia e cammelli e non nebbia e madunine. Spero nello choc positivo di una partita in cui si gioca un trofeo ma anche un po’ di reputazione e un po’ di onore. Spero, e aspetto.

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Inter-Parma (l’avessi vista)

La mia ultima Inter experience è andata così. Intanto, ero convinto che la Coppa Italia ce l’avesse ancora la Rai. E quindi dopo il Tg1 lascio scorrere il tempo, inizia I Soliti ignoti, Amadeus continua imperterrito e a un certo punto mi chiedo: ma come? Non è su Rai1, dunque. Cambio canale. Su Rai2 non c’è, su Rai3 non c’è, su Rete4 non c’è, arrivo a Canale 5 dove la partita sta per iniziare e noto che Correa e Gagliardini sono contemporaneamente in campo nell’undici titolare. Un ottavo di finale di Coppa Italia contro il Parma un martedì sera con Correa e Gagliardini titolari.

Mi appare subito chiaro che non ce la posso fare.

Quindi, con serenità, faccio zapping. Mi imbatto nell’Eurolega di basket, Alba Berlino-Olimpia Milano, ultimo quarto. La guardo. Dal momento in cui inizio la visione Milano, che già era sotto, fa tipo 3 su 200 al tiro e perde di 20. Tristezza. Torno su Canale 5, in tempo per vedere il replay del gol del Parma.

Non ce la posso fare.

Ri-zapping. Trovo altra Eurolega. Virtus Bologna-Zalgiris Kaunas, ottimo. Stanno 60 pari, inizia l’ultimo quarto. Bella partita. Se la giocano, Teodosic fa qualche numero, poi lo Zalgiris prende il largo e vince di 10. Inizio ad avere brutti pensieri. Nel giro di un’oretta e mezza scarsa mi sono occupato di tre partite e sono andate tutte male. Boh, mi dico, aspetta, adesso giro su Canale 5 e magari stiamo 4-1.

No, sempre 0-1.

Mancano 20 minuti. Mi armo di coraggio e la guardo fino in fondo. Vedo Buffon fare una parata come avesse 20 anni di meno e penso che non c’è più niente da fare. Poi un mezzo autogol di faccia ci rimette in pista. Fine dei tempi regolamentari.

Mi sembra ovvio che cambio canale.

Premo + e passo su Italia 1, dove alle Iene (programma che normalmente mi fa lo stesso effetto del combo Correa-Gagliardini) è in corso un’intervista surreale. Apprendo che il Ken umano (sì, quel fotomodello che aveva fatto chessò, 50 operazioni per assomigliare a Ken, il fidanzato di Barbie) con un’altra novantina di operazioni ha cambiato sesso ed è diventato donna.

E’ chiaro che a questo punto Inter-Parma passa completamente in secondo piano. Anzi no, in secondo piano c’era già. In terzo piano.

Il Ken umano adesso si chiama Jessica ed è un incrocio tra una Barbie venuta male, una Jessica Rabbit venuta male, una bambola gonfiabile venuta male e una Kim Kardashian venuta malissimo. L’intervista alterni momenti di finta divulgazione (come un pene viene trasformato in una vagina, ci sono vari metodi per tutte le tasche) ad altri di una volgarità imbarazzante. Finchè alla domanda “Jessica, ma l’amore?”, lei risponde “L’amore fa male, fa male, purtroppo la famiglia di lui non mi accettava”, al che mi sono alzato dal divano e ho detto

“Jessica, amica mia, non offenderti, ma temo dovrai farci il callo alle non accettazioni, nemmeno io da genitore sarei pronto, abbi pazienza”

cambiando canale e tornando alla partita dove scorreva il replay del gol di Acerbi. C’è ancora parecchio da giocare, succede poco, torno ogni tanto sulle Iene dove è iniziato un servizio sulla concia delle pelli in India e sul conseguente inquinamento del Gange. La concia delle pelli e la partita finiscono praticamente all’unisono. Attendo l’intervista di Inzaghi. Poi vado a dormire.

La morale è questa: ogni tanto non guardare l’Inter fa bene.

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