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Quattro cose che non mi sono piaciute dei Mondiali in Qatar.
4. I recuperi.
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Secondo me, le novità regolamentari andrebbero testate qualche mese e poi proposte sulle grandi ribalte, non il contrario. All’improvviso, ai Mondiali, mica al Birra Moretti, ci siamo trovati a sperimentare partite che durano tipo 10 minuti in più, e non invano (nel senso che qualche gol al centesimo minuto c’è pure stato). Tralasciando gli aspetti interpretativi – arbitri che recuperano fino all’inverosimile, altri meno – cambia un po’ la prospettiva delle partite. Quando arrivi all’80’ di solito sale ansia, adesso non sai più di che morte devi morire. Ma cambiano anche le prospettive di vita vissuta. Quando c’era la partita alle 11 del mattino, non sapevi mai in quale momento buttare la pasta: se la butto all’85esimo sarà pronta al quinto di recupero, ma se quello recupera 12 minuti? No, non si può vivere così.
3. I Mondiali in Qatar.
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Ora, a me starà anche sul culo il Qatar, d’accordo, ma non sopporto qualsiasi narrazione minimamente positiva di questo Mondiale. Uh ma che bello, uh ma che bravi, uh ma che gol. Uh. Non mi interessano le tesi buoniste, benaltriste, assoluzioniste e terzomondiste su questo Mondiale contronatura e ceduto al miglior offerente, una vergogna eterna, in un calar di mutande e aprire di portafogli. La cosa più suggestiva di questo Mondiale è che proprio in questi giorni, sui giornali, qualche pagina prima di quelle sportive, si parla di gente cui trovano in casa sacchi di soldi (dai tempi di Paperon de’ Paperoni non sentivo niente del genere) marchiati Qatar. Già, chissà cosa sarà mai successo qualche anno fa, quando si decise di giocare un Mondiale in mezzo al deserto, in un Paese di cui si parla male anche nelle fiction, figuriamoci nei consessi che contano, eppure indifferenti ai rumors e alle questioni morali e a quelle climatiche. Poi basta vedere un prato verde e qualche bel gol per dimenticare tutto, ma è un errore concettuale. Io condannerei l’intera filiera decisionale alle pene più infernali: chessò, tipo legarli e una poltrona e costringerli a due mesi di pausa del campionato.
2. Il Brasile.
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Fossi un appassionato di calcio brasiliano, avrei smesso di seguire il calcio da almeno dieci anni. Oggi sarei un appassionato brasiliano di basket, Formula 1, pallavolo, samba, curling, bob a quattro, bridge, zumba, forse addirittura padel. Qualsiasi cosa, pur di non vedere più questi saltimbanchi che si beano degli ooohhhhhh degli stolti come noi e si convincono che andare in porta con il pallone sia un sistema di calcio ancora sostenibile. Il Brasile ha rotto i coglioni. O meglio, li ha rotti questo Brasile del Terzo millennio dove ci si ossigenano i capelli, si fanno quattro mossette e poi si esce in lacrime tra i lazzi del mondo intero. Il Brasile che piange e i brasiliani che piangono in tribuna, dopo aver ballato 120 minuti A-E-I-O-U-Yplilòn, santiddio, hanno rotto i coglioni. Ha rotto i coglioni questo modello di Brasile in cui si mettono in campo tre-quattro giocatori che si fanno il culo per tutti gli altri, quelli da copertina, tesi a promuovere se stessi e a cercare la ribalta personale senza mai passare un pallone. Piccoli Neymar crescono e proliferano. Pensavo che Vinicius fosse un po’ diverso, e invece no, è quasi come lui (beh, Neymar è inarrivabile). Ma è ancora giovane, può tornare alla tinta naturale e provare ad allargare i suoi orizzonti. Ai brasiliani, con il loro tasso tecnico medio, basterebbe poco. Ma niente, non ce la fanno, preferiscono la giocoleria, lo sberleffo, il merletto, bailare il futbol. Poi gli sfiorano le caviglie e si rotolano mezz’ora. Poi li rimontano e perdono ai rigori. Poi piangono in favore di telecamera, increduli di fronte a un destino barbaro lasciato in mano a quattro ossigenati. Alla prossima, amisci.
1 . Adani.
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X Factor era in origine una gara tra aspiranti cantanti, poi è diventata una gara tra giudici. Così come Amici, così come Masterchef, così come ogni altro talent: lo spettacolo si è spostato, i concorrenti sono un semplice pretesto. Nel calcio non è ancora successo che si guardi una partita in tv proprio perché c’è il tal telecronista o la tal seconda voce (“Stasera c’è l’Inter!”, “No, io guardo Cuiopelli-Pergolettese, c’è Sebino Nela”), e spero che non succeda mai. Ma c’è chi ci vuole convincere che le telecronache con Adani siano migliori delle altre, molto migliori. Per me no. Ma proprio no. Quando c’è Adani, conto fino a cento e proseguo a fatica la visione di quello che avviene in campo cercando di trarne impressioni personali. Se in campo c’è una sudamericana, devo invece prepararmi a una continua lezione di vita tipo Do Nascimiento da uno che cerca di dimostrarmi che il calcio è questo, solo questo, e il resto è una merda inaccettabile. Se in campo poi c’è addirittura Messi, devo prepararmi a un’idolatria a 120 decibel (e nani manco fosse Disneyland) nei confronti di un giocatore che – ma come potete pensare il contrario? – c’è solo Lui, il Secondo Messia, e gli altri sono delle merde insignificanti, piccoli punti luminosi nell’universo del Pallone dove c’è una sola stella che brilla e gli altri sono dei led che li compri a strisce all’Esselunga. Che poi, porco cane, che tesi rivoluzionaria sarà mai l’esaltazione del calcio sudamericano e dei suoi migliori interpreti? Non sono luoghi comuni agghindati a festa con frasi sconnesse, che la prima volta fanno tanto folklore e la seconda hai l’impulso di chiamare il 118? Le telecronache tifose, correttamente, una volta erano confinate su un secondo canale audio. Se voglio Pizzul, sento Pizzul. Se voglio Scarpini, premo l’apposito tasto e mi perfondo di è gol, è gol, ègolègolègol. Io non voglio Adani ma non ho un cazzo di niente da premere per escludere dalle mie partite questo pittoresco invasato autoreferenziale che un tempo vestì la maglia per cui spasimo. Però io non dimentico: nel 2003, portai le mie figlie a vedere un allenamento infrasettimanale ad Appiano, quando ancora la tribunetta era aperta al pubblico e potevi vedere i giocatori a qualche metro. Poi, dopo l’allenamento, tutti alla porta carraia: ci sistemammo ai lati della strada a vedere sfilare i giocatori che se ne tornavano a casa. Guarda Zanetti! Guarda Toldo! Guarda (aspetta, chi cazzo è, ah sì) Brechet! Tutti salutavano, qualcuno addirittura si fermava a fare una foto. Poi arrivò un macchinone nero che sgommò manco avesse visto un posto di blocco della Finanza, passando in mezzo alla piccola ala di folla di tifosotti, da cui si levò qualche timido vaffanculo. Il passeggero era Vieri, guidava Adani. Mi sta sul culo da allora, poi ditemi che non vi avevo avvertito.