L’indifendibile difesa

Al di là di ogni possibile rilievo tecnico, tattico, statistico e psicopatologico su questa Inter-Juve, c’è un dato immateriale ma molto veritiero che rende inaccettabile a priori questo risultato per un qualsiasi interista: che a 20 minuti dalla fine stavamo vincendo 4-2 e avevamo sbagliato almeno quattro occasioni clamorose per fare il quinto, e magari il sesto, e magari boh, chissà. Insomma, se al 70′ il risultato fosse stato 5-2 o 6-2 non ci sarebbe stato niente da dire. Dal 35′ al 70′ abbiamo avuto la partita in mano, stradominandola e buttando via in maniera scellerata l’enormità di palle gol che abbiamo visto tutti. 35 minuti di potenza e spreco preceduti e seguiti da due quarti d’ora in cui invece ci siamo assentati dalla gara e ci siamo astenuti dal difendere, due cosette imprudenti. Dicono sia stata una partita strepitosa, divertente, otto gol, belle azioni, occasioni a raffica. Lo dicono tutti tranne gli juventini, che comunque possono festeggiare l’atto di aver portato a casa il culo in maniera inattesa. E tranne gli interisti, che dietro i frizzi e i lazzi vedono i contorni di una mezza tragedia.

Ascolta “4 + 4 di Nora Orlandi” su Spreaker.

Prendi pregi e difetti dell’Inter di questi primi due mesi e mezzo di stagione, moltiplicali per due (o anche per tre) ed eccoti rappresentata la partita. L’Inter ha fatto quattro gol (due su azione, due su rigore) alla Juve che nelle precedenti otto partite se aveva subito uno (su rigore), e gliene avrebbe potuti fare cinque o sei, a stare stretti: quindi, in teoria, potremmo anche dire che in attacco ci siamo. Ma è così? Si può dire che ci siamo se segniamo quattro gol e non vinciamo la partita? Si può dire che ci siamo che segniamo quattro gol ma ne sbagliamo altrettanti (limitandoci alla categoria “occasioni clamorose”)? Come si fa a segnare 4 gol e a prendere la Juve a pallate per 35 minuti e non vincere?

Avessimo vinto 5-4 o 6-4 adesso saremmo qui a parlare di pazza Inter e – come dice il signor Wolf in Pulp Fiction – a farci i pompini a vicenda. Ma abbiamo pareggiato 4-4 e usciamo con le ossa rotte e le palle girate da una partita in cui abbiamo segnato 4 gol alla Juve, quattro!, uno sciupìo epocale. Non abbiamo vinto una partita in cui la Juve ci ha regalato due rigori, prendendo a calci gente che passava per l’area. Non abbiamo vinto questa partita.

Del resto, vincere partite in cui subisci 4 gol è difficile. Serve segnarne almeno 5, che statisticamente non capita spesso. Abbiamo preso quattro gol su azione, con nessuna prodezza, niente che li rendesse in qualche modo inevitabili. Abbiamo preso 4 gol dove, al netto della bontà delle azioni e delle conclusioni avversarie, prevale nettamente il peso dei nostri errori (a volte anche più di uno nella stessa azione). Centrocampo che fa poco filtro, difesa piazzata male, movimenti lenti, portiere poco reattivo: quattro tiri quattro gol, cioè un disastro.

13 gol subiti in 9 partite di campionato, quando lo scorso anno ne abbiamo subiti 22 in 38 partite. Difesa piazza male, dicevamo: oh, sono gli stessi dello scorso anno. Gli stessi che i gol non li prendevano mai. Adesso li prendono all’ingrosso. C’è evidentemente un problema di testa che va seriamente affrontato: il reparto non è sicuro di sè, non si sente protetto, non si protegge. Anche il modo con cui ci si impanicava ogni volta che Conceiçao jr prendeva palla – uno dei rari giocatori in grado di uscire da soliti schemi – mi è sembrato un palese indice di insicurezza: basta un dribblomane svelto di piede per farti andare totalmente in palla? Quelli della nostra difesa giocano insieme da più stagioni, minimo due. Come si sia originata questa involuzione resta un mistero. Così come è misterioso il meccanismo mentale con cui quasi ti astieni dal tirare il colpo di grazia alla Juve, una volta, due volte, tre volte, quattro volte, mah, a un certo punto ho smesso di contare. Anche perchè del premio Fair Play non me frega un cazzo: potevamo sminuzzarli e invece siamo qui con un 4-4 che ci fa tornare a picchi di svagatezza e autolesionismo che parevano lontani.


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #82, con il mio socio ex aspirante pensionato (ora effettivamente in quiescenza), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Pavia? Gli 883? Siamo qui apposta.

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Prendila così

Ma insomma, questa Inter, come la dobbiamo giudicare: dall’inizio o dalla fine? No, perchè dalla fine tutto torna: quinta vittoria di fila, di cui tre in trasferta; secondo clean sheet di fila; rete ancora immacolata (a differenza del campionato) in Champions dopo tre partite; classifica di Champions che al momento (3 partite, di cui due in trasferta) ci vedrebbe virtualmente qualificati agli ottavi, saltando cioè le due partite degli spareggi – e giocare due partite in meno, quest’anno, ha un valore quasi inestimabile.

Ascolta “Nipoti e pavesini” su Spreaker.

Se invece riavvolgiamo il nastro e lo rivediamo dall’inizio, vabbe’, potremmo star qui a discuterne un paio d’ore, o forse giorni. C’è sempre un qualcosa che non va o non ci convince nell’Inter 2024/25. Ieri, per esempio, la decima in classifica (su 12 squadre) della Super League svizzera ci ha messi un po’ alla corda: sarà anche perchè il campo era sintetico, ma questi ragazzotti (Young Boys, appunto) correvano e spingevano e tiravano da ogni posizione – quest’ultima operazione, per fortuna, era ammantata di un tale scarsume che potevamo anche non schierare Sommer ma, per esempio, me. Come siano riusciti a prendere un palo, boh, credo sia stata più che altro questione di culo.

Il culo, a proposito, è una cosa che in questo momento non ci manca. Precisiamo: non è che ne abbiamo tanto. Ce lo abbiamo, punto. Prima (tipo fino a un mese fa) non ne avevamo proprio. Adesso abbiamo quella quota fisiologica di culo che ci consente di vincere al 93′ una partita in cui non è che avessimo fatto un figurone.

Quanto al gol al 93′, a nessuno è sfuggito che se lo sono inventati tre dei nostri migliori giocatori che, nel più ovvio e condivisibile dei turn over (no, scusa, li doveva tener fuori con la Roma o con (rumore di tuoni) la Juve?), erano partiti dalla panchina. Le rotazioni che non la Stella Rossa avevano funzionato benissimo allo Young Boys Emmenthal Stadium non hanno funzionato granchè. Il processo di rendere tutti titolari i 24 della rosa non può essere cosa di poche settimane. In più adesso ci si mettono gli infortuni, a raffica, come non ci capitava da parecchio. Siamo solo alla fine di ottobre, dobbiamo tenere botta per mesi. Anche per questo a me sembra più zen giudicare le partite dalla fine: abbiamo vinto? per la quinta volta di fila? in Champions siamo perfettamente in bolla? la Thu-La funziona alla grande? Beh ragazzi, io ne ho viste di peggio.


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #81, con il mio socio ex aspirante pensionato (ora effettivamente in quiescenza), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Pavia? Gli 883? Siamo qui apposta.

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Il torneo dei meno peggio

Alzi la mano chi nel corso del weekend è rimasto totalmente impermeabile alla tempesta scaramantico-moriremotuttistica che si stava addensando sulle nostre teste: la sensazione cioè che, dopo le vittorie tutte per 1-0 (e tutte risicate, sofferte, fortunate, rubacchiate) delle nostre rivali toccasse a noi, la domenica sera, ricevere la più classica delle enculadas. E invece no: vinciamo 1-0 anche noi (godiamoci anche il clean sheet), vinciamo a Roma (mica pizza e fichi), vinciamo la quarta di fila (un ritorno anche numerico a una certa qual dimensione), vinciamo con un gol di Lautaro (con un po’ di ritardo, peraltro ampiamente preventivabile, è tornato).

Ascolta “Puntata da record in salsa bernese” su Spreaker.

In altri tempi e altre situazioni ci sarebbe da stappare, se non proprio uno champagnino, almeno un barolo chinato da sorseggiare in maniera contemplativa. Invece siamo qui a calcolare il tasso di affollamento dell’infermeria, che non è una bella cosa. Abbiamo quattro infortunati di cui tre a centrocampo, dove già Barella non è che sprizzi salute da tutti i pori. A una settimana dalla Juve, e con la Champions di mezzo, è un discreto casino. E’ un fake turn over: non un balletto tra gente che a turno rifiata, ma una divisione netta tra stakanovisti e malaticci. E questo, a priori, inceppa il meccanismo della rosa intercambiabile e coinvolta: ci sarà gente che si stancherà parecchio, lì nel mezzo.

Mi sforzo di leggere in positivo anche questo elemento: non brillantissimi, con due infortunati nella prima mezz’ora, su un campo ostico, torniamo comunque a casa con tre punti. In attesa di arrivare al teorico livello di quello che potremmo essere, fare bottino pieno in partite come questa è una gran cosa. Se solo avessivo pareggiato (poteva accadere) avremmo perso due punti da tutte le rivali, premiate da vittorie immeritate. Un disastro, anche per il morale. Invece il nostro 1-0 risponde con le rime ai loro 1-0: abbiamo vinto a Roma, avete visto?

La grande bellezza della scorsa stagione si vede solo a tratti, giochiamo un po’ con il limitatore in attesa di qualche fiammata, c’è una macchinosità latente di cui andrebbe valutata la percentuale: dipende più dalle gambe o dal cervello? Se però il migliore in campo dei tuoi avversari è stato il portiere, qualcosa vorrà pur dire. Napoli, Juve e Milan hanno giocato partite mediocri, potevano solo avere più culo di noi ma per fortuna non è stato così. Se il mood del campionato è una gara a chi fa meno cagare, noi stiamo facendo il nostro dovere.


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #80, con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Se non ci riuscite, va bene lo stesso.

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Due alla volta

In serie A, dopo 7 giornate, c’è una sola squadra che non ha mai vinto, il Monza; una sola squadra che non ha mai pareggiato, Verona; una sola squadra che non ha mai perso, la Juve. La Juve, in più, è la squadra che ha subito meno gol: uno, su rigore. Quindi, in 7 giornate non ha mai perso nè preso gol su azione. Eppure è un punto dietro di noi, dietro la sgarrupata Inter che ha segnato sei gol in più ma ne ha anche presi otto in più, cioè nove. La preoccupante Inter che ha 4 punti in meno rispetto alla stessa giornata dello scorso campionato (4-2-1 rispetto a 6-0-1) e 9 gol in meno di differenza reti (16-9 contro 19-3).

Ora, sempre tenendo conto che siamo alla settima di 38 giornate (sospiro) e che i paragoni con la nostra scorsa stagione vanno presi con le pinze (fare meglio sarà impossibile, quindi saranno quasi sempre paragoni in negativo, quindi perchè continuare a farli?), la questione dei gol è curiosa in generale e per noi interessante (meglio, inquietante). La Juve champagne di Motta non prende gol – oh, non ne prende proprio – però ne segna pochi e vince poco (3 vittorie in 7 partite, una sola in casa su 4 partite). Se noi siamo un po’ phsyco, loro sono quasi da Tso, perchè fanno 0-0 oppure vincono 3-0, non hanno mezze misure (a parte Juve-Cagliari 1-1-).

Ma chi se ne frega della Juve, parliamo di noi. Parliamo dei gol fatti, 16: 7 di Thuram (tre di testa, quattro di destro), 2 di Lautaro, 1 ciascuno di Darmian, Barella, Calhanoglu, Dimarco, Dumfries e Frattesi, più un autogol. Ma chi se ne frega dei gol fatti – quelli non sono un grosso problema -, parliamo dei gol subiti.

I gol subiti sono 9, che in sette partite non sono pochi. Ma la cosa peggiore è che per 4 volte su 7 ne abbiamo subiti due, di cui tre volte nelle ultime tre. La scorsa stagione (ok, va bene, ma qualche paragone bisogna pur farlo) abbiamo subito due gol in una partita per quattro volte IN TUTTO IL CAMPIONATO, non nelle prime sette giornate. La quarta volta che abbiamo subito due gol nella stessa partita era il 14 aprile (Inter-Cagliari 2-2). Quest’anno è successo il 5 ottobre.

L’altro fatto terribilmente inquietante è la ripetitività dei gol subiti. Quattro sono praticamente identici: cross da destra (zona tre quarti), colpo di testa, difesa ferma, gol: Genoa (quello dell’1-1. Variazione: colpo di testa, tutti fermi, traversa, ancora tutti fermi, arriva uno, gol), Monza, Milan (Gabbia) e Udinese (quello dell’1-1). Altri due molto simili: Pulisic e Zapata (palla persa, percussione centrale, maglie larghe – le nostre -, gol). Poi due rigori (Genoa e Torino) concettualmente e temporalmente simili: finale di partita (a Genova al 97′), movimenti goffi da pura deconcentrazione. Resta il secondo gol dell’Udinese, realizzato grazie a una prodezza (Lucca si è fatto 40 metri in contropiede resistendo al difensore e tirando in precario equilibrio) ma comunque originato da una palla persa male a centrocampo.

E infine il tempo: cinque gol su nove presi dall’80esimo in poi (quattro tra l’80’ e l’88’, uno al 97′), uno spicchio di partita in cui l’anno scorso eravamo praticamente invulnerabili. Gli altri: 10′, 20′, 34′, 35′. Quindi: nei 45 minuti tra il 35′ e l’80’ (praticamente un tempo) restiamo vergini (e abbiamo invece segnato sette volte. A proposito, dei 16 gol: 9 nel primo tempo e 7 nel secondo). Due soli clean sheet (l’anno scorso cinque) (ah già, i paragoni. Basta paragoni).

Quindi, al netto che mancano 31 partite (più altre circa duecento nelle restanti competizioni), la difesa è un problema che bisogna serenamente affrontare. Nelle 4 partite in cui abbiamo subito 2 gol abbiamo fatto 7 punti, che non è un disastro ma nemmeno una media scudetto. In proiezioni ti garantisce 65-66 punti: l’anno scorso con 65-66 punti arrivavi sesto dietro il Bologna e davanti alla Roma. E noi non siamo da sesto posto, e neanche da quinto, e neanche da quarto, e neanche da terzo.

Cioè, siamo da primo posto, ma con chi ce la giochiamo? A parte Juve e Milan, quest’anno c’è il Napoli. Ora, va detto che il Napoli ha avuto un calendario abbordabile (unica partita difficile la Juve fuori casa, 0-0), in casa è l’unica ad averle vinte tutte e avrà ora altre tre partite facili che potrebbero spingerla anche più in su (Como, Empoli, Lecce). Scusa, ma quando avrà quelle toste? Praticamente tutte in una volta: dall’11esima alla 17esima giornata affronterà Milan, Atalanta, Inter, Roma, Torino, Lazio e Udinese, un discreto ciclo che bisognerà vedere come supererà: se le vince tutte, chapeau. Sennò vediamo.

Noi abbiamo anche le coppe e il peso lo sentiremo tutto, anche se Inzaghi sta usando il bilancino come mai aveva fatto nelle precedenti stagioni. La nostra prova della verità sta tutta nei 21 giorni tra il 20 ottobre e il 10 novembre, sette partite tutte d’un fiato (Roma fuori, Young Boys fuori, Juve casa, Empoli fuori, Venezia casa, Arsenal casa, Napoli casa) prima i fermarsi ancora per le nazionali. La notte tra il 10 e l’11 novembre, al termine di Inter-Napoli, sarà il momento giusto per fare il primo vero bilancio della stagione 2024-25. Forse il momento in cui l’aggettivo prematuro lascerà il posto a realistico.

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Thu-Thu-Thuram

Il concetto di clean sheet sistematico ce lo dobbiamo dimenticare: per la quarta volta in nove partite stagionali – e, soprattutto, la quarta su sette partite di campionato – anche stasera con un Torino in dieci dal 19′ abbiamo preso due gol, un’enormità rispetto all’andazzo della scorsa stagione. C’è di buono che nell’ultima settimana ci siamo messi a segnare di brutto: 10 gol nelle ultime tre partite, alla media di 3,33 a partita che è proprio l’ideale per una squadra che spesso ne prende due. L’Inter è sempre un po’ malaticcia – ha le difese basse – ma gli anticorpi hanno preso a funzionare. Prendiamo due gol? E chi se ne frega, se ne segniamo tre.

Ascolta “Monsoni e distrazioni” su Spreaker.

Alla settimana-no (Monza, City, Milan: tre partite, due punti, due gol fatti, tre subiti) abbiamo fatto seguire la settimana sì (Udinese, Stella Rossa, Torino: tre partite, nove punti, dieci gol fatti, quattro subiti): mini-serie forse imparagonabili, visto che nelle prima c’erano due top team – il City e il Monza -, se non per la sensazione che l’Inter si stia finalmente calando nella nuova realtà, quella di una stagione in cui tutto va resettato e si deve ragionare diversamente, a cominciare dal coinvolgimento totale della rosa dove ormai non ci sono (quasi) più titolari e riserve nel senso tradizionale del termine.

Sotto un certo punto di vista, è un’esperienza interessante e appagante (se le cose vanno bene, ovvio). Vediamo in ogni partita un’Inter uguale nei meccanismi ma diversa nelle facce, il che ci allontana piacevolmente dall’idea di un undici titolare che magari nelle nostre povere menti resta quello, ma che ormai non vediamo più. Nella settimana precedente ‘sta cosa non era andata benissimo, in questa molto meglio. Si procede per amnesie (puntualmente punite con un gol preso: perchè, cosa abbiamo fatto?) ma ora ci si sta attrezzando, si rimedia, si ritrova il gusto del gol. La sensazione è che le cose stiano tornando a funzionare. E, naturalmente, al momento più opportuno, arriva la pausa per le nazionali.

Stavolta, però, la pausa segna uno stacco preciso tra il rodaggio e la stagione vera. Dal 20 ottobre al 10 novembre (prima, cioè, della successiva pausa) ci aspettano 7 partite, una ogni tre giorni: inframmezzate da Young Boys, Empoli e Venezia avremo Roma, Juve, Arsenal e Napoli e lì si vedrà di che pasta siamo fatti. Sette partite con sette Inter diverse: impanicato, ma non vedo l’ora.

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Fricchettoni e no

Quando nell’antistadio, mangiando un monumentale panino alla salamella con Max, ho visto apparire le formazioni ufficiali sul telefono e ho comunicato al mio socio di podcast che la coppia d’attacco da opporre alla Stella Rossa sarebbe stata composta da Taremi e Arnautovic, a entrambi è venuto istintivo prendere la birra e tirarne giù un paio di decilitri. In realtà, la suddetta coppia sarà la protagonista quasi assoluta della mia serata in termini emozioni, qualche santo (colpa di Arna) e considerazioni profonde sull’Inter: futuro, prospettive, criticità, valore intrinseco e arte del turnover.

Cambiare la coppia d’attacco è cambiare mezza squadra, così, come impatto visivo. Che poi la squadra in campo fosse stata davvero cambiata per (più di) metà da Inzaghi rispetto a tre giorni prima, ecco, questo per me era un fatto che non sussisteva: ero distratto da Taremi e Arnautovic e dalle loro gesta. La mia personale Arna-cam mi ha consentito di vedere all’opera un giocatore forse con qualche rotella fuori posto, ma che può dare il suo apporto alla causa (tradotto: l’ho mandato un paio di volte a quel paese, però non ha giocato male, per niente). Mi spiace non avere acceso più spesso la Tare-cam, ma va bene così perché alla fine ho rivissuto certe situazioni tipiche del basket, quando ti chiedono come ha giocato Tizio e tu dici “mah, si è visto poco” e loro ti fanno notare che “veramente ha preso 12 rimbalzi, servito 6 assist, subito 8 falli, recuperato 3 palloni” e tu dici “ah”.

Ascolta “La banda degli onesti” su Spreaker.

Queste partite di pura sostanza, quelle di Taremi, sono il vero potenziale valore aggiunto dell’Inter, che un giocatore così non ce l’aveva e adesso ce l’ha. Un Taremi in squadra ti consente di riconsiderare il peso di Arnautovic, un fricchettone col senso del gol, un’opzione creativa e sostenibile perchè c’è anche Taremi. Cioè, l’anno scorso con due personaggi borderline – un gangster sudamericano e un fricchettone austriaco – non potevamo dormire sonni tranquilli. Ma quest’anno c’è Taremi, ecco. E a me piace anche Zielinski, mi piace dai tempi di Empoli. Mi piacciono quelli che entrano e si sentono subito parte di un meccanismo.

Alla fine abbiamo vinto 4-0 una partita di Champions schierando un’Inter molto alternativa, con quattro dei giocatori migliori fuori (Lautaro, Barella, Thuram, Dimarco) eppure senza quasi accorgercene, perchè il meccanismo di cui sopra funziona più o meno bene sempre, soprattutto se le teste sono ben sintonizzate sull’obiettivo, e l’altra sera lo erano. Io allo stadio mi metto quasi sempre dietro la porta perchè voglio vedere l’Inter da una visuale alternativa rispetto al divano. E da lì sì, mi sembra che giri tutto bene, che ci si trovi a meraviglia. Che poi le mie tre ultime partite a San Siro siano tutte finite con le stesso risultato – 4-0 per noi – mi mette in pace con il mondo. Non so che questa serie sia destinata a continuare, e per quanto: se però siete scaramantici e volete a tutti costi cedermi il vostro abbonamento al primo rosso, beh, contattatemi in privato.


(è ormai riaperto da giorni e giorni – vabbe’, non proprio: diciamo giorni, qualche giorno – l’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #78. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. L’Inter soprattutto, poi la Juve, il Milan. Anche che moriremo tutti, per dire.

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Il gambino (e il cervelletto)

Tutto il buono e il cattivo che oggi l’Inter può esprimere si è visto a Udine, come fosse stato mostrato in diretta tv il catalogo dei nostri pregi e dei nostri difetti attuali. Soprattutto il buono, perchè una partita teoricamente non facile (e complicata dalle paturnie post-derby) è stata sostanzialmente dominata e se il primo tempo fosse finito 3-0 non ci sarebbe stato niente da dire. E anche il secondo tempo è stato buono, a tratti ottimo, e se la partita fosse finita 5-0 non ci sarebbe stato niente da dire.

Ma è finita 3-2.

L’abbiamo vinta, e questo è l’importante. Lautaro finalmente è tornato a segnare, è questo forse lo è anche di più. Sulla difesa – meglio, sul come difendiamo – invece non ci siamo: 7 gol subiti in 7 partite (non è un disastro, per carità, ma questa squadra sa fare mooooolto di meglio) ci dicono che non siamo più la corazzata che eravamo la scorsa stagione.

Ascolta “Doppio scoop!” su Spreaker.

In tre di queste sette partite (tre su sei, la metà, restando al campionato) abbiamo subito due gol (1 vinta, 1 pareggiata, 1 persa), un’altra cosa che l’anno scorso era rara e invece oggi si sta ripetendo quasi al ritmo di una partita sì e una no. E oggi, per vincere, abbiamo dovuto segnare tre volte: che è un bel vedere, ma non è detto che ci riesca sempre.

Ammetto: al gol dell’1-1 ho pensato male. La quasi-replica del gol di Gabbia, tutti fermi, una roba brutta. E’ anche la riprova – guardando e riguardando l’azione – che c’è davvero un qualcosa di mentale a frenare certi meccanismi. Qualcosa simile al braccino. In questo caso, il gambino. I movimenti giusti che non partono. Quell’attimo in cui decidi di stare a guardare invece di intervenire, sperando di sfangarla. Eh, a volte non la sfanghi.

Anche questo va sottolineato: non la sfanghiamo quasi mai. La percentuale di errori puniti duramente è molto alta. Cioè, il fattore C non ci ha salvato quasi mai. Anche in questo possiamo pensare di migliorare (anche se non dipende da noi). Sul resto ci dobbiamo sbloccare: Lautaro ci ha messo un po’, adesso tocca all’ingranaggio generale. Se qualcuno ha dello Svitol cerebrale, please, lo porti direttamente ad Appiano.


(è ormai riaperto da giorni e giorni – vabbe’, non proprio: diciamo giorni, qualche giorno – l’angolo Podcast, giunto all’episodio #77. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Volete che vi suggerisca un argomento a caso? Boh, tipo l’Inter.

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Non essere sul pezzo

Assistere alla metamorfosi di due squadre nel giro di quattro giorni è un evento piuttosto raro. Il Milan visto con il Liverpool sembrava una squadra di morti, un’accozzaglia di gente disperata in attesa che l’arbitro finalmente fischiasse la fine. L’Inter di Manchester aveva dato una lezione di calcio, di organizzazione, di estrema confidenza nei propri mezzi. Si potrebbe concludere che è il bello del calcio e che per fortuna non sempre le cose vanno come da pronostico, sennò sai che due coglioni. Purtroppo, però, era il derby. E purtroppo lo ha perso l’Inter, resuscitando il Milan, un contro-filotto da tragedia.

Ascolta “Da derby a derby” su Spreaker.

Anche aver subito 12 tiri, di cui 8 in porta, in una sola partita è un evento piuttosto raro per l’Inter. Così come aver visto Inzaghi sostituire tutti e tre i suoi centrocampisti – quelli super ultra iper titolari -, un evento davvero simbolico, estremamente indicativo di quanto problematica sia stata la serata. Un’ora prima della partita, quando sono arrivate le formazioni ufficiali e ho visto che il Milan si schierava con quattro punte mi sono detto: vabbe’, Fonseca vuole accelerare i tempi. E quando la partita è iniziata, e il Milan è partito a velocità doppia e ha segnato mi sono detto: questi rifanno Milan-Liverpool, poi scoppiano e noi passeggeremo sui loro cadaveri.

Ok, mi sono detto un po’ di stronzate, questo è chiaro.

Ma a parte questo: cosa ci è successo di preciso? In quattro giorni, poi. Perchè con il Milan abbiamo fatto l’esatto contrario del match con il City: poco mordente, idee confuse, atteggiamento a tratti passivo, sbandamenti difensivi, un disastro. E l’avremmo anche potuto vincere, ‘sta partita, perchè il miracolo di Maignan su Thuram ci ha impedito di andare al riposo sul 2-1 e chissà. Ma se già nel primo tempo era stata un’Inter inspiegabilmente fuori fuoco, nel secondo tempo è stato un mezzo disastro.

In questo primo mese di stagione ci siamo già smentiti un sacco di volte, alternando grandi partite a prestazioni un po’ così. Sembrava che fossimo sul pezzo più nei match importanti che non contro le piccole, ma aver fallito in questo modo un derby giocato in casa rimescola ulteriormente le carte. Anche le nostre facili ironie (occhio al Milan, è una piccola) ci sono tornate indietro tipo boomerang: con una piccola puoi anche perdere, ok, ma non in questo modo. E quindi?

Beh, ragazzi, nel premettere che non moriremo tutti – almeno a stretto giro – e che siamo ancora a settembre (quindi suicidarci collettivamente mi sembra un’iniziativa quantomeno prematura), restiamo ai fatti e alle crude cifre: su 6 partite stagionali (5 di campionato e 1 di Champions) ne abbiamo vinte solo 2. In campionato siamo sesti. Forse quella cosa là che ci aveva un po’ offesi – la cosa della fame che non abbiamo più – magari non è vera, ma non è nemmeno così da prendere sotto gamba. Perdere un derby ci sta, la legge dei grandi numeri iniziava a chiederci il conto. Ok, perdere un derby ci sta, quindi. Ma perdersi, perdersi in un derby fa girare assai le palle.


(si riapre l’angolo Podcast, giunto all’episodio #76 e varcato l’anno di vita così, senza dire nulla. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Avevamo iniziato con un derby – vinto 5-1 – e ripartiamo con un derby. Vabbe’, non è che tutto può sempre andare benissimo.

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Essere sul pezzo

Secondo schemi tecnici e mentali che, come ho scritto due post fa, quest’anno (con una stagione lunga quasi 11 mesi e quasi 60 partite) sono improvvisamente invecchiati, dovremmo dire che l’Inter a Manchester, col City (!), ha giocato facendo ricorso a un ampio turnover, schierando quattro giocatori (tre per scelta tecnica, uno per infortunio) che non appartengono a quella che tutti consideriamo la nostra formazione-tipo, l’unica teoricamente adatta ad affrontare Rodri e compagnia bella. E invece, appunto, Simone Inzaghi ha applicato a Manchester City-Inter – la partita più difficile della prima fase di Champions e una delle partite più difficili in assoluto che si possano giocare oggi, in casa di una delle due squadre più forti del mondo – il sistema di gestione della rosa che cancella quello che normalmente chiamiamo ancora turnover. Il turnover esisterà ancora, solo che dobbiamo alzare l’asticella: ne cambi setto o otto, allora sì, è turnover. Il resto non lo è più e non lo dobbiamo più considerare tale. Con 60 partite da giocare, la formazione tipo è solo una carta da giocare, ma non è più la regola e non la deve più essere.

La cosa più bella della partita con il City è che i quattro presunti non-titolari hanno fatto tutti una buona partita, alcuni ottima. Il confine tra passare per un genio o per un coglione, in questi casi, è molto labile. Ma quello che è certo è che le scelte di Inzaghi sono state tutte azzeccate: Carlos Augusto – scelta obbligata – e Bisseck hanno fatto il loro, Taremi e Zielinski hanno fatto un partitone. I due nuovi, in particolare, ci regalano la bella sensazione di avere non due semplici opzioni in più, ma due titolari fatti e finiti. E il non-più-turnover passa esattamente da qui: da non avere 11 titolari e 11 riserve, ma 22 giocatori da ruotare tutti pronti e da ruotare il più possibile. Ne è uscita una bellissima serata: rischi di perdere ma anche – più volte – di vincere sul campo di una squadra che in coppa non perde lì da 4 anni, giochi alla pari, non segni – è un fatto non casuale, con Lautaro non (ancora) pervenuto – ma non prendi gol, fai una grandissima figura giocando un match di grande consapevolezza, di elevatissimo autocontrollo, insomma, una sciccheria.

L’inizio della stagione ci ha detto cose molto contrastanti tra di loro: c’è un’Inter che prende a pallate l’Atalanta e se la gioca alla stragrande col City, e un’altra Inter (che poi è la stessa) che si incarta col Genoa e si intristisce col Monza. Ma anche tutte le altre stanno andando avanti tra sensazioni e dimostrazioni contrastanti. Quindi l’unica cosa di cui mi preoccuperei è diluire gli sforzi, bilanciare la fatica e tenere tutti sul pezzo. E di Inzaghi ci possiamo fidare. Il fatto che poi si faccia una miglior figura contro Rodri e De Bruyne rispetto a Pessina e Dani Mota, boh, a suo modo la trovo una cosa affascinante. Forza Inter.

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Chiedi chi era Totò

Ci sono cose divertenti e faticose. Parlando tra boomer: vi è mai capitato di spiegare a un ragazzo, chessò, chi erano e cos’erano i Beatles? O cos’era Carosello? O com’era entrare in un negozio e comprare un disco (“un cosa??”)? O che i programmi in tv a un certo punto finivano (“cioè??”)? O che se eri in giro si telefonava con i gettoni? O che le partite erano tutte lo stesso giorno alla stessa ora? E che quando c’era la Coppa dei Campioni (“la cosa??”, sì, scusa, la Champions) non è detto che la trasmetteressero? E’ un esercizio estremamente divertente (la parte del racconto) e faticoso (la parte del riuscire a farsi capire, o dell’accettare che non ti capiscano, o che capiscano ma non si rendano conto della grandezza o della specialità di determinate cose). E’ un po’ frustrante, a volte. I nostri vecchi ci raccontavano solo (o soprattutto) delle guerra e di quanto erano poveri, ed erano racconti affascinanti ma un po’ monocordi. Noi, che avremmo un sacco di cose da raccontare (oh, sai che quanto ero piccolo non esistevano i computer? “E Netflix?” No, nemmeno Netflix) (silenzio), facciamo molta più fatica.

Stasera, prima di Manchester City-Inter, farò la solita pizza Champions e le mie figlie, forse, a tavola, con un occhio alla tv in attesa che entrino le squadre a scaldarsi, potrebbero chiedermi chi fosse Schillaci. Che per loro era un tizio con uno statuario parrucchino che ha fatto l’Isola dei Famosi e Pechino Express, quindi sanno che era un vip, un ex calciatore, anche importante. Che ha addirittura giocato nell’Inter (quindi molto importante). E qualcosa di quei Mondiali di Italia ’90, da qualche parte, l’avranno visto, letto o orecchiato. Può darsi che gliel’abbia raccontato io, certo. Però, forse, sarò chiamato a rispondere a qualche nuova curiosità. Mi preparo.

Dunque. Io penso che quella di Schillaci sia una vicenda tecnica e umana più unica che rara nell’intera storia del calcio. Direi, essenzialmente, che era un ottimo giocatore e un ragazzo semplice, molto semplice, un piccolo alieno che per un mese ha avuto il mondo in mano e l’Italia ai suoi piedi, una sensazione da cui credo non si sia mai più ripreso. Era un semplice, un umile, anche troppo per poter gestire tutto questo. Uno che faticava a mettere una parola dopo l’altra e a sistemarla nella giusta casella, ma a un certo punto ha avuto il mondo in mano e l’Italia ai suoi piedi come a pochi è riuscito dalla notte dei tempi.

E’ uno che ha vissuto un sogno e ce l’ha fatto vivere con lui, da pari a pari. Il sogno di arrivare in Nazionale, di quasi vincere un Mondiale, di quasi vincere un Pallone d’Oro, tutto in quel mese in cui abbiamo sognato insieme e ci siamo identificati in questo eroe per caso, in questo ragazzo normale che in quei 28 giorni, come per magia, si è trovato sempre al posto giusto nel momento giusto, ma in Mondovisione, davanti a miliardi di persone, soprattutto ai sessanta milioni di italiani che a un certo punto sono impazziti per quegli occhi strabuzzati che erano anche un po’ i nostri, increduli di quello che stava accadendo.

Schillaci ha giocato solo 16 partite in Nazionale, di cui 7 (quasi la metà) ai Mondiali di Italia ’90, segnando 6 volte, diventando capocannoniere della competizione. Frattesi, per dire, che domenica compie 25 anni, in Nazionale è arrivato a quota 7 anche lui, e ha già 21 presenze. La storia di Schillaci rimarrà unica proprio per questo, perchè non ricapiterà più a nessuno di vivere un’avventura così, uno stato di grazia così, giusto nel mese che serviva, a lui e a noi. E’ stata una favola vissuta coralmente, la dimostrazione che certe cose possono accadere, che non è tutto già scritto, magari sarebbero potute accadere anche a noi. Però sono accadute a lui, che quel mese pazzesco l’ha sfruttato alla stragrande – gli arrivava il pallone, lui lo toccava, gol, nei modi più vari, dalle posizioni più diverse, gol, sempre gol – ed è rimasto nella memoria del mondo che ama il calcio.

Schillaci è stato anche all’Inter una stagione e mezza, un secondo posto e una quasi retrocessione (con Coppa Uefa, ma lui era già andato via da un mese, in Giappone): non era vecchio ma già in declino, perchè il raffronto con il mese di Italia ’90 è rimasto per lui un parametro calcisticamente impietoso: forse la definizione stessa di cosa irripetibile, per chiunque a partire da lui. Con l’Inter ha giocato 36 partite e segnato 12 gol, vinto niente (anche alla Juve non ha vinto quasi niente, un paio di coppette, e l’unico scudetto l’ha vinto in Giappone). Alle mie figlie, giusto per dare un’idea della cosa, potrei dire che Gagliardini ne ha giocate quasi duecento di partite con noi, sei volte quelle di Schillaci, e segnato 16 gol, più di Schillaci. Però Gaglia è Gaglia e Schillaci e Schillaci. Totò rimarrà nei cuori di chi ama il calcio per la totale unicità della sua avventura. In quel mese ha fatto cose che non umani non abbiamo più visto. Troviamoci qui tra venti o trent’anni e facciamo un esperimento: ci ricorderemo di Mbappè o di Totò Schillaci?

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