Wow! Che figata di domenica! Il Milan ne prende 5 in casa dal Sassuolo (4 gol subiti a partita nelle ultime tre, squadrone!), la Juve viene scherzata al Latta Stadium dal Monza! Che domenica! E noi abbiamo vinto! Wow!
No, scusate la differita, è che avevo tenuto tutto in stand-by. Come si fa a esultare in santa pace e a cuor leggero quando magari tre ore dopo ti vendono Skrinny e poi magari anche Dummy e Brozzy e poi in piena tempesta procellosa l’Atalanta di Gaspy espugna San Siry e ti elimina dalla Coppa Eataly? Così mi sono tenuto tutto dentro per 48 lunghe ore, compreso un martedì passato a pigiare F5 sul sito della Gazza.
Come da quasi consueto copione, non è successo niente.
Certo, proprio niente niente niente direi di no. Andiamo avanti così, ok, ma con una squadra un po’ più virtuale, con uno che se ne stava già per andare e invece se ne andrà tra qualche mese, con un paio d’altri destinati altrove (oddio, Brozo ci avrà fatto il callo a questi scenari in corso d’opera) e con almeno altri quattro o cinque che, a furia di leggerlo sui giornali, dovranno alcuni resistere al canto di qualche sirena e altri dimostrare in fretta di essere da Inter, sennò raus!, ma magari no, perchè affrettare i giudizi? Qui si parrà la nobilitas del nostro mister, che dovrà tenere insieme una squadra la cui mente a volte vaga altrove. Abbiamo tipo tre obiettivi da inseguire (in ordine cronologico: rimanere tra le prime quattro, toglierci uno sfizio in Champions, le semifinali di Coppetta) e ci vuole un minimo di concentrazione, di voglia, di palle, di amor proprio, di amor di bandiera.
La vicenda Skriniar, come la vicenda plusvalenze, toglie altra poesia a uno sport già fin troppo prosaico. Abbiamo gioito per la punizione alla Juve, ma ci siamo anche resi conto di come un movimento elefantiaco come il calcio poggi su fondamenta di polistirolo, cifre gonfiate, soldi che non esistono, bilanci compilati a cazzo come se tutti fossero fessi. Ma il giorno che il gioco imploderà, imploderà per tutti, compresi gli innocenti (o meno colpevoli). E anche il caso Skriniar ci rappresenta un’altra sfaccettatura di questo carrozzone allo sbando, dove a un certo punto della filiera arrivi alla categoria “procuratori” e ti accorgi che sono loro a tenere per le palle chiunque, a monte e a valle. E noi qui, a guardarli spuntare ricche percentuali a nostre spese, cioè a guardare il pianista che suona mentre il transatlantico affonda.
Avremo un altro braccetto di destra della difesa a tre, figuriamoci, perso un braccetto se ne fa un altro. Nel nostro caso, al culmine di una vicenda gestita alla carlona dalla società, sarà più che altro un nuovo buco in un bilancio groviera. Dovremo sacrificare qualcosa, come di consueto. Di consueto per noi, vorrei sottolineare. Però preferisco mostrarmi povero ma bello piuttosto che trovarmi a dover spiegare come facevo lo splendido con le pezze al culo. L’anno scorso c’era gente che comprava un centravanti a 70 milioni al mercato di gennaio. Quest’anno vola un po’ più basso.
Sull’effetto Supercoppa, beata ingenuità, un po’ ci contavo. Vincere un trofeo piallando il Milan mi sembrava una di quelle cose che potevano farti solo bene. Piacere, fiducia, endorfina, sogni proibiti, una bottarella all’autostima dopo tanti alti e bassi. Se c’è stato un effetto, dev’essere però svanito già nel tragitto tra lo stadio e l’aeroporto di Riad, mentre sul prato gli addetti rastrellavano coriandoli e brandelli di milanisti. Al ritorno alla normalità – Milano, San Siro, campionato, Empoli (sbadiglio) – abbiamo sfoderato l’atteggiamento migliore per prendersi una tranvata che non ha niente di salutare, ma fotografa purtroppo quello che sa essere l’Inter: la spumeggiante trionfatrice di Supercoppa oppure, a stretto giro, una indistinta teoria di personaggi – giocatori, staff tecnico, società – da prendere a calci in culo, come avrebbe detto Lippi, non sapendo nemmeno da dove incominciare. Tutto nell’arco di cinque giorni. Non cinque settimane o cinque mesi: cinque giorni.
Non che una sconfitta in più o in meno, a questo punto, cambi più di tanto le cose, ma averne messe insieme in campionato 6 nel solo girone d’andata ci inchioda ormai – anche statisticamente – a una dimensione definitiva: dobbiamo giocarcela per un posto tra il secondo e il quarto, stop, e adesso che la Juve è (momentaneamente? chi può dirlo?) sparita dalle zone nobili ci accorgiamo che non sarà una passeggiata, perchè sono tutte lì ad aspettare che ne perdiamo altre sei nel ritorno per guadagnarsi la qualificazione in Champions più facile di sempre.
Gli ultimi cinque giorni ci dipingono alla perfezione, elencando tutto quello che sappiamo fare in meglio e in peggio: giocatori una volta scintillanti e vittime delle proprie paturnie la volta successiva (e va anche bene, perchè ne abbiamo di scarsi/impresentabili sempre), un allenatore che una volta le azzecca tutte e la volta dopo nemmeno una, una società che brilla per stile e lungimiranza salvo poi incartarsi nella gestione di casi singoli o di ordinarie strategie.
Tiriamo una riga a metà stagione. Supercoppa a parte, com’è andata? Una Champions da 8 e un campionato da 4. Un campionato dove in fondo ne hai vinte 12 su 19, neanche male, ma appunto ne hai perse 6, un’enormità irrimediabile. Un campionato dove hai fatto 24 punti in 10 partite in casa (saremmo secondi) e 13 in 9 partite in trasferta (saremmo ottavi) con l’incredibile cifra di 20 reti subite, un’altra evidenza che ci ridimensiona parecchio.
Fuori casa ne abbiamo presi tre dalla Lazio, dal Milan e dall’Udinese, ma anche dalla Fiorentina (qui, almeno, vincendo 4-3) e dal Barcellona (3-3). Ne abbiamo presi due dalla Juve, dal Monza (2-2), dall’Atalanta (anche qui, almeno, vincendo 3-2) e dal Bayern. Fanno nove partite stagionali, a metà del cammino, in cui siamo tornati da una trasferta con due o tre reti sul groppone. Nove trasferte sulle 12 disputate tra campionato e Champions. Solo una volta su 12 non abbiamo subito gol, a Plzeň. E dove vogliamo andare con una squadra diventata così vulnerabile?
La Supercoppa ci ha fatto trascorrere qualche giornata tranquilla. Poi una sera accendiamo la tv e vediamo un mezzo sfacelo: il capitano Skriniar che fa due falli alla Chuck Norris e viene espulso al 40′ (può essere spensierato uno che non sa dove giocherà tra una settimana?), Dumfries che da titolare fisso è passato a diciottesima scelta, Inzaghi che ha Dumfries e Gosens in panca e fa entrare Bellanova (condannandolo al classico massacro del laterale, nella miglior tradizione di San Siro), Lukaku che ha la forma di uno tornato il giorno prima dalle vacanze estive (solo che siamo quasi a febbraio), Barella con i nervi a fior di pelle, Correa con gli occhi da cerbiatto (vabbe’, i soliti), eccetera eccetera, e una squadra in balìa dei contropiedi dell’Empoli.
Tempo di resettare, va da sè, non ne abbiamo. Giocheremo tre partite in otto giorni (Cremonese, Atalanta in Coppa Italia, Milan) per le quali sarebbe necessaria l’Inter di Supercoppa, non la sua versione Wish di ieri sera. Spero che una brutta nottata l’abbiano passata anche i milanisti: “Ma se l’Inter ci ha asfaltati in Arabia e l’Empoli ha asfaltato l’Inter, quanto potremmo perdere con l’Empoli? Diciassette a zero?”
Sconfitte che valgono come vittorie, va da sè, non ne esistono. Sono concepibili solo se la sproporzione tra i contendenti è tale (chessò, un 512esimo di Coppa Italia Vogherese-Inter) che il perdente può considerare una vittoria l’aver venduto cara la pelle o l’aver fatto un figurone. Altrimenti, a parità di condizioni, sono formulette consolatorie per partite giocate bene e finite male, per insuccessi immeritati, per match condizionati da una botta di sfortuna, per un irrimediabile gol preso al 95′ quando il pareggio ti stava anche un po’ strettino.
Tutto quello che vogliamo, certo, però il risultato è sempre uno solo: zero punti. Tra una “sconfitta che vale una vittoria” e una vittoria magari ottenuta giocando da fare schifo, o per un pallone che incoccia uno stinco e va dalla parte opposta, o con un unico tiro quando magari gli avversari ne hanno fatti 15 e colpito tre pali, c’è un mondo di differenze (quando si decide di accantonare l’epica e la poesia e si dà un’occhiata alla classifica aggiornata) e un’unica drastica sentenza: la tua “sconfitta che vale come una vittoria” vale niente, hanno vinto gli altri, non ci sono cazzi, ed è anche dura autoconvincersi che la sconfitta in questione voglia dire altro che non averlo preso sonoramente in quel posto.
Parlando di tennis, il concetto di sconfitta che vale come una vittoria è stato ripescato ieri pomeriggio da Repubblica.it pochi minuti dopo che Sinner, agli ottavi dell’Australian Open, aveva perso al quinto set con Tsitsipas. Una sconfitta che vale una vittoria? Sicuri?
A proposito di autoconvincimenti, è dal 2018-2019 che nello sport italiano si è scatenata la Sinner-mania alimentata da uno storytelling mai riservato a nessuno. L’allora minorenne e precocissimo Sinner, che viaggiava oltre la 100esima posizione Atp, veniva pronosticato come il sicuro campionissimo del decennio successivo, sicuro numero 1, sicuro vincitore di Slam. Una tesi tanto convinta e tanto corale che nel tennis italiano si è verificato un fenomeno stranissimo: prima Fognini e pochi mesi dopo Berrettini entravano nei primi 10 della classifica, roba che non succedeva dai tempi di Panatta. Eppure, gli addetti al lavori già parlavano di Sinner. C’erano Fognini numero 9 e Berrettini numero 8, ma il fenomeno era Sinner. Era già Sinner, era comunque Sinner.
Faccio un inciso prima che sia troppo tardi: io non ce l’ho con Sinner, tutt’altro. E’ un ragazzo serio, forse anche troppo. Tifo per lui perchè conquisti davvero un decimo dei trofei che gli hanno pronosticato. Metterò la sveglia la notte in cui sarà in finale agli Us Open sul suo amato cemento. Non ce l’ho con lui, ce l’ho con gli storyteller.
A Sinner è stata fatta un’apertura di credito pazzesca rispetto alla media. Non gli si è genericamente pronosticato un futuro roseo, ma un futuro da numero 1, in uno sport in cui l’Italia un numero 1 non l’ha mai avuto. Non avevo mai visto un ragazzo così giovane – e così schivo rispetto a certi sboroni – diventare per “elezione” una specie di gallina dalle uova d’oro. Copincollo da Wikipedia: da juniores firma il contratto con la Head, nel 2019 con Nike, nel 2020 firma ulteriori contratti con Rolex, Lavazza, Technogym, Alfa Romeo, Parmigiano Reggiano e Fastweb. Il 19 maggio 2022 firma un contratto di 10 anni con la Nike per 150 milioni di dollari totali. Siamo già ai conteggi a 8 zeri, e Sinner da professionista non ha ancora vinto niente. Di importante, intendo: sei torneini (un 500 e cinque 250) e stop, niente Slam, niente numero 1, come da storytelling ripetuto fino all’ossessione.
Chi ha il bouquet Sport di Sky o chi ogni tanto finisce su Supertennis sa di cosa parlo: nella programmazione ci si imbatte spessissimo in una replica di una partita di Sinner, manco fosse McEnroe o Federer. Perché? Per dire: non ho mai visto la replica di Fognini-Nadal agli Us Open (partitone pazzesco con Fogna che sotto di due set rimonta e vince con Nadal, Nadal!, l’equivalente di una vittoria solitaria sul Mont Ventoux o di una maratona di New York), ma ogni tanto finisco su una partita di Sinner contro (nome di pallettaro a caso). Perché?
Sinner, prima del Covid (che poi ha fermato tutto, lui compreso: è stato sfortunato, sì, ma come tutti), ha battuto una lunga serie di record di precocità del tennis italiano, e dopo il Covid è arrivato velocemente nei primi 10 del mondo (9 la sua miglior classifica, oggi è 16esimo). E lì si è fermato. Grazie al cazzo, direte voi, perchè non vai tu a giocare al posto suo? No, certo, non ci vado. Ma non pretendo nemmeno – come fanno gli storyteller del tennis e dello sport italiano da quattro anni – di issarlo a forza dove non può ancora arrivare, nè di ripetere allo sfinimento lo stesso mantra in attesa che qualcosa si avveri.
Oggi Sinner ha 21 anni e 4 mesi, è nell’anno dei 22. E’ ancora ampiamente in tempo per vincere tutto quello che vorrà e potrà. E’ giovanissimo, ma non il più giovane. Il numero 1 della classifica (Alcaraz) ha due anni meno di lui, e anche il numero 9 (Rune). Il numero 6 (Auger-Aliassime) ha un anno di più, ma è nei primi dieci da un pezzo. Sinner, mentre lo storytelling continua senza sosta, è un signor giocatore che continua a sbattere sullo stesso muro, quello dei Top 5: contro i primi cinque della classifica ha perso 16 match su 17 in carriera, e per diventare numero 1 Atp o vincere uno Slam è proprio quello che dovrà fare: battere i primi 5 con una discreta regolarità. Altri metodi non ce ne sono.
Lo storytelling del super-Sinner ha finito col nuocere per primo a Sinner, temo. E forse sarebbe più sano e più produttivo ogni tanto parlare dei problemi di Sinner, oltre che raccontare quanto è bravo. Per fortuna è lo stesso Sinner nelle interviste a dire che la sconfitta col cazzo che vale come una vittoria: “È sicuramente una sconfitta dura questa con Tsitsipas. Ora dovrò ripensare a tutto e tornare ad allenarmi. In questo tipo di partite, al quinto set può andare in un modo o nell’altro. Ho avuto lo slancio. Poi ho fatto un po’ di casino”. E intanto si vede che sta lavorando a un futuro ancora migliore rispetto a questo pur luminoso presente: mette su muscoli, serve più forte. Si prepara a rimanere al vertice, a vincere altri tornei, a inseguire lo Slam che a un italiano in singolare manca dal 1976.
Lo storytelling ce lo racconta come un superatleta. Che però è fragile, si ferma spesso. Lo storytelling imperterrito racconta che mentalmente è il migliore di tutti. Ah, davvero? E com’è che perde sempre con i più forti? Non sarà che invece gli manca qualcosa proprio mentalmente? E cioè quell’ultimo stadio di sicurezza che uno storytelling diverso, che lo raccontasse forte sì ma anche un po’ più umano, potrebbe dargli?
Forza Jannik: tappati le orecchie e picchia. Lo Slam arriverà senza bisogno che lo raccontino in anticipo, a te e a noi.
Onana 10. E’ l’evoluzione della parata laser di Handa: attira i palloni – quei pochi che arrivano – verso di sè. Una sicurezza.
Škriniar 10. Col cazzo che lo diamo agli sceicchi francesi. O almeno, ce lo paghino il giusto: 150 milioni più Messi, Verratti e Hakimi.
Acerbi 10. A fine stagione, con il metodo del Carbonio 14, sarà accertata la sua vera età: sembrava il nipote forte di Tomori.
Bastoni 10. E’ alto come Lebron James e ha il piede sinistro di Mariolino Corso. Potrebbe passare al Psg, sì, ma per Mbappè, Nizza, l’Alta Savoia e la Corsica. (dal 84’ De Vrij 10. Bravissimo).
Darmian 10. Con quella pettinatura può fare ciò che vuole: in un mare di sfumature alte, i suoi boccoli fluttuano eterei nel deserto.
Barella 10. Corre 37,5 km, serve 18 assist, recupera 37 palloni, nell’intervallo serve il tè caldo, fa un massaggio a Dzeko e mette via la roba per la lavanderia. Monumentale (dal 71’ Gagliardini 10, che classe, rinnovatelo fino al 2038, vi prego, è necessario)
Çalhanoğlu 10. Quando vede il Milan diventa pure stronzo. E quando un0 bravo è pure stronzo, diventa un fattore (dal 84’ Asllani 10. Praticamente perfetto)
Mkhitaryan 10. Abbiamo un sacco di giocatori vecchiotti, tutti bravi, specialmente lui che dove lo metti sta e dove non lo metti ci va. Ma perchè non lo abbiamo preso 10 anni fa? Boh. Se vanno in pensione tutti insieme, sono cazzi
Dimarco 10. Difende male? E diciamolo: ma chi se ne frega. Attacca e sgroppa da dio, ha un sinistro più che sopraffino e una tamarraggine che non stona (dal 63’ Gosens 10, uno scintillante dodicesimo uomo, o tredicesimo, o quattordicesimo, e sticazzi?)
Džeko 11. Tra due mesi compie 37 anni, nel frattempo insegna calcio in Italia e in Arabia, una doppia cattedra che si riconosce ai cervelloni (dal 71’ Correa 10. Un genio incompreso)
Lautaro Martínez 11. Lautarooooooo, Lautaroooooo, che ce frega de Mbappè noi ciabbiamo Lautarò. Lautarooooo Lautarooooo (ecc. ecc.)
Brazão 10. E’ la prima volta che lo vedo dal vivo, col quarto portiere siamo messi bene
Cordaz 10. Esperienza
Handanović 10. Non giocare, alzare la Supercoppa: king
Bellanova 10. Bravo
D’Ambrosio 10. Sempre un bel ragazzo.
Dumfries 10. L’uomo che non sorride mai, figuriamoci quando non gioca
Zanotti 10. Giuro, avevo letto Zanetti. Minchia, mi sono detto, vabbe’ che abbiamo qualche assenza. Poi ho letto meglio
Brozović 10. Il migliore
Carboni 10. Diligente
Lukaku 10. Un’altra prestazione impeccabile nel suo ormai consueto assetto stagionale, quello da seduto. In borghese o in divisa da gioco, è sempre rassicurante, sorride, fa gruppo. Un lusso
Inzaghi 11. Ci sono i Nessun dorma di Pavarotti, le veroniche di Panatta, le trivele di Quaresma, le uova di Cracco, le barzellette di Berlusconi, i covi di Messina Denaro. E le Supercoppe di Inzaghi
Arabia Saudita 10. E’ il più grande Stato arabo dell’Asia occidentale per superficie e il più grande del mondo arabo dopo l’Algeria, si sta impegnando molto sui diritti umani e la sera fa fresco. Un paradiso
Messina Denaro 10. Il nostro nuovo tifoso: gli abbiamo allietato la seconda notte al gabbio con una partita della madonna. Si era ridotto a mandare messaggi alle sciure della chemio, gli abbiamo aperto un mondo
Dopo i Mondiali in Qatar ci mancava giusto una Supercoppa a Riad. E chissà per quanto ne avremo ancora di queste pagliacciate, se è vero che l’Arabia Sauditasarebbe in trattativa con la Lega di Serie A per organizzare la partita – anzi, LE partite, perchè vorrebbero fare una final four, massì, crepi l’avarizia – anche nei prossimi sei anni in cambio di una somma astronomica. Eticamente una finale a Riad è un gradino sotto Teheran e Kabul, ma chi se ne frega dell’etica quando le cifre hanno otto zeri? Ok, eticamente lasciamo stare. E tecnicamente?
Diciamo che Inter e Milan hanno attraversato momenti migliori. Restando alle ultime tre partite (la quartultima era Inter-Napoli, il 3 gennaio, ma sembra un mese fa), l’Inter ha affrontato Monza, Parma e Verona senza – diciamo così – brillare. Il Milan ha fatto anche peggio, perchè non ha mai vinto: due pareggi in campionato (Roma e Lecce) e sconfitta in casa in Coppa Italia con il Toro, un po’ poco per la squadra più scintillante del mondo.
Ma del Milan mi frega il giusto. Dall’Inter, invece, avrei voluto vedere un po’ di più dopo la vittoria con il Napoli, che sembrava averci dato una svolta. Per essere quelli che hanno riaperto il campionato (poi subito richiuso) mi aspettavo altro rispetto al mezzo disastro di Monza, al netto del furto arbitrale, e alle due partite da morte civile con Parma e Verona, i cui highlights durano circa 40 secondi compreso un breve inserto pubblicitario.
Un sommario esame della classifica di Serie A mi ha provocato un brivido sinistro. Era da qualche giornata che guardavo solo avanti (al Napoli lontanissimo, al Milan da raggiungere, alla Juve con cui giocarcela) e mi sono accorto che dietro c’è un certo fermento. Tre squadre inaffidabili e discontinue sono lì a soli tre punti, che sono pochini considerando che un po’ inaffidabili e discontinui lo siamo anche noi. E non so, ma le ultime partite dell’Inter mi hanno dato un’impressione strana, come se attualmente non ci sia abbastanza garra per credere allo scudetto (embè, sotto di 10…) e allora si punti a una linea di galleggiamento in campionato (restare entro le prime quattro) e nella stessa Coppa Italia (vediamo come va, senza perdere il sonno) in attesa di vedere come andrà in Champions (che magari ci scappa un quarto di finale, hai visto mai). E così squadre che alternano imprese a catastrofi sono lì a un passo, pronte a risucchiarti verso l’inferno del quinto posto.
Dietro il Napoli è tutto un ciapanò, che può essere un giochetto divertente ma solo se non ci partecipi. Forse il discorso è prematuro, a “sole” 20 giornate dalla fine. O forse è il momento stesso della stagione (giochiamo ogni tre giorni in tre competizioni diverse) a provocare qualche distrazione. Ma mi piacerebbe vedere un’altra Inter, un pochino più solida mentalmente. Non una squadra che non chiude la partita con il Monza, che va ai supplementari con il Parma, che soffre nel finale con il Verona.
Insomma, spero nella scossa da Supercoppa. Spero che, superato lo choc della ghirlanda al collo appena messo piede in un Paese poco civile, ci si concentri sul colore delle maglie della squadra avversaria, anche se intorno ci sono sabbia e cammelli e non nebbia e madunine. Spero nello choc positivo di una partita in cui si gioca un trofeo ma anche un po’ di reputazione e un po’ di onore. Spero, e aspetto.
La mia ultima Inter experience è andata così. Intanto, ero convinto che la Coppa Italia ce l’avesse ancora la Rai. E quindi dopo il Tg1 lascio scorrere il tempo, inizia I Soliti ignoti, Amadeus continua imperterrito e a un certo punto mi chiedo: ma come? Non è su Rai1, dunque. Cambio canale. Su Rai2 non c’è, su Rai3 non c’è, su Rete4 non c’è, arrivo a Canale 5 dove la partita sta per iniziare e noto che Correa e Gagliardini sono contemporaneamente in campo nell’undici titolare. Un ottavo di finale di Coppa Italia contro il Parma un martedì sera con Correa e Gagliardini titolari.
Mi appare subito chiaro che non ce la posso fare.
Quindi, con serenità, faccio zapping. Mi imbatto nell’Eurolega di basket, Alba Berlino-Olimpia Milano, ultimo quarto. La guardo. Dal momento in cui inizio la visione Milano, che già era sotto, fa tipo 3 su 200 al tiro e perde di 20. Tristezza. Torno su Canale 5, in tempo per vedere il replay del gol del Parma.
Non ce la posso fare.
Ri-zapping. Trovo altra Eurolega. Virtus Bologna-Zalgiris Kaunas, ottimo. Stanno 60 pari, inizia l’ultimo quarto. Bella partita. Se la giocano, Teodosic fa qualche numero, poi lo Zalgiris prende il largo e vince di 10. Inizio ad avere brutti pensieri. Nel giro di un’oretta e mezza scarsa mi sono occupato di tre partite e sono andate tutte male. Boh, mi dico, aspetta, adesso giro su Canale 5 e magari stiamo 4-1.
No, sempre 0-1.
Mancano 20 minuti. Mi armo di coraggio e la guardo fino in fondo. Vedo Buffon fare una parata come avesse 20 anni di meno e penso che non c’è più niente da fare. Poi un mezzo autogol di faccia ci rimette in pista. Fine dei tempi regolamentari.
Mi sembra ovvio che cambio canale.
Premo + e passo su Italia 1, dove alle Iene (programma che normalmente mi fa lo stesso effetto del combo Correa-Gagliardini) è in corso un’intervista surreale. Apprendo che il Ken umano (sì, quel fotomodello che aveva fatto chessò, 50 operazioni per assomigliare a Ken, il fidanzato di Barbie) con un’altra novantina di operazioni ha cambiato sesso ed è diventato donna.
E’ chiaro che a questo punto Inter-Parma passa completamente in secondo piano. Anzi no, in secondo piano c’era già. In terzo piano.
Il Ken umano adesso si chiama Jessica ed è un incrocio tra una Barbie venuta male, una Jessica Rabbit venuta male, una bambola gonfiabile venuta male e una Kim Kardashian venuta malissimo. L’intervista alterni momenti di finta divulgazione (come un pene viene trasformato in una vagina, ci sono vari metodi per tutte le tasche) ad altri di una volgarità imbarazzante. Finchè alla domanda “Jessica, ma l’amore?”, lei risponde “L’amore fa male, fa male, purtroppo la famiglia di lui non mi accettava”, al che mi sono alzato dal divano e ho detto
“Jessica, amica mia, non offenderti, ma temo dovrai farci il callo alle non accettazioni, nemmeno io da genitore sarei pronto, abbi pazienza”
cambiando canale e tornando alla partita dove scorreva il replay del gol di Acerbi. C’è ancora parecchio da giocare, succede poco, torno ogni tanto sulle Iene dove è iniziato un servizio sulla concia delle pelli in India e sul conseguente inquinamento del Gange. La concia delle pelli e la partita finiscono praticamente all’unisono. Attendo l’intervista di Inzaghi. Poi vado a dormire.
La morale è questa: ogni tanto non guardare l’Inter fa bene.
Sul fallo di confusione, come direbbe Elio, c’è chi ci ha costruito su un impero. Il fischio di De Santis il 7 maggio 2000 in Juve-Parma – azione da calcio d’angolo all’89esimo minuto della penultima giornata di campionato – è passato alla storia del nostro calcio: un fischio deciso per interrompere gratuitamente un’azione, così, essenzialmente per evitare imprevisti, contando che nel casino qualcosa succeda a giustificare la chiamata. Cannavaro segnò per il Parma un gol regolarissimo, con un’incornata però contemporanea al fischio di un fallo che non c’era, un fallo eventuale – figuriamoci se non viene commesso un fallo in un’area strapiena di gente che attende gli sviluppi di un calcio piazzato – che invece non si verificò. Comunque sticazzi, il fischio stese un velo su cose vere o presunte (peccato solo che ci siano dieci telecamere a documentare il non-fallo, ma vabbe’) e via. Sette giorni dopo l’uragano di Perugia sistemò le cose, ma quel fischio passò alla storia lo stesso, nel girone delle pessime cose e dei pessimi individui. Non spianò la strada allo scudetto della Juve perchè sette giorni più tardi accadde un fatto altrettanto straordinario e storico. Ma, per dire, costò la Champions al Parma (ci andammo noi dopo lo spareggio proprio con il Parma. Mors tua, ecc.).
Ventidue anni e mezzo dopo, e cinque anni e mezzo dopo l’introduzione del Var, il fischio alla De Santis di questo Juan Luca Sacchi in Monza-Inter ci riporta a vecchie atmosfere arbitrali, quella dei fischi alla cazzo irrimediabili, proprio ora che il Var ci aveva fatto entrare nella dimensione dei fischi rimediabili. Sacchi ha fischiato male e con troppo anticipo, ancora prima che Acerbi segnasse. Il difensore del Monza era stato effettivamente sgambettato, ma da un suo compagno. Gol valido, Var neutralizzato. Insomma, una gran bella merda.
Non si può parlare di Monza-Inter senza fare questa lunga premessa. Sul 3-1 la partita sarebbe probabilmente finita e ora saremmo tutti qui a bere birre e a darci pacche sulle spalle. E invece no.
Tocca quindi parlare male dell’Inter, due volte in vantaggio e due volte rimontata, altre due pere in trasferta (e fanno 20 a nemmeno metà dal campionato, una vergogna), altre falle nell’atteggiamento (ok, ci hanno rubato la partita, ma potevamo/dovevamo risolverla comunque, eravamo a Monza, mica a Manchester) tre giorni dopo aver battuto il Napoli e aver rilasciato dichiarazioni paracule in fotocopia “sì, ma ora dobbiamo dimostrare già a Monza che…”.
Ecco.
L’Inter i disastri veri li ha fatti nei primi due mesi. Nelle ultime 9 partite ne ha vinte 7, pareggiata 1 e persa 1, e francamente firmerei per una serie così nelle prossime nove. Però, accidenti, non ci possiamo più permettere di buttare via punti. Non a Monza. Non riuscendo a gestire una partita già vinta. Prendendo due gol ancora una volta a difesa schierata e immobile, come se in trasferta ci andasse in pappa il cervello.
E quindi a due domande profondamente diverse – vi hanno rubato la partita? siete una squadra di coglioni? – ci tocca rispondere sì.
L’esperienza dei 51 giorni di pausa del campionato in pieno inverno, con in mezzo un campionato mondiale nel deserto di cui sostanzialmente non mi fregava un cazzo (nè nel mondiale nè del deserto), mi ha calcisticamente disorientato. Tanto che al momento di rituffarmi nel normale scorrere del calcio mi sono accorto di essere impreparato. Molto impreparato. Avevo perso completamente il filo.
Per dire: qualche giorno fa faccio zapping e mi imbatto in una partita del Tottenham. Un tizio apre sulla sinistra e la palla finisce a Perisic. Uh, Perisic, quanti ricordi, quanto tempo. L’avevo già visto con la maglia del Tottenham, poi con quella della Croazia in mezzo al deserto, che nostalgia per quei doppi passi a liberare i cross. Bei tempi, quando sarà stato che era ancora all’Inter?
Sette mesi.
Sette mesi fa ne metteva due alla Juve nell’extra time e vincevamo la Coppa Italia. La Coppa Italia? Parevano trascorsi anni, invece erano sette mesi. Quando avevamo vinto in trasferta A Bergamo? Il 13 novembre, ok, ma di che anno? Venti Ventidue? Ah, 51 giorni fa?
Così ieri mi sono trovato 10 partite di serie A in un giorno solo (non so, non accadeva pare da 170 anni) e mi è venuto una specie di attacco di panico. Non ricordavo niente. Chi gioca dove. Chi allena chi. Risultati, classifica, marcatori. Niente.
Vabbe’, ovvio, qualcosa dell’Inter ricordavo. Tipo che abbiamo la maglia a strisce nerazzurre, che il nostro allenatore ha fatto un figlio con la Marcuzzi e che dovevamo giocare con il Napoli capolista che ci precedeva di (sono andato a controllare) undici punti, un’enormità di cui non mi capacitavo finchè sono andato a vedere i risultati delle partite precedenti, scoprendo che ne avevamo perse 5 su 15, in effetti un’enormità all’origine di quell’altra enormità.
Comunque bene, mi sono di nuovo ambientato. Non saprei dire con precisione dove si ponga la linea di confine tra una certamente buona partita nostra e una non buonissima partita del Napoli, ok, ma non starei troppo a sottilizzare. Battiamo la capolista, molto bene!, ma rimaniamo lontani di 8 (otto) punti. E siamo sempre quarti. Cioè, ecco, non mi perderei in eccessivi festeggiamenti. Siamo indietro come le balle dei cani (detto popolare pavese) e sarà meglio restare concentrati, parecchio concentrati. Diciamo che nelle ultime due partite (giocatesi a distanza di quasi due mesi) abbiamo vinto due scontri diretti dopo aver perso tutti i precedenti. Bene, che dire?, avanti così.
Tra le cose che mi ero dimenticato e che mi appaiono tuttora poco spiegabili c’è che la Juve è davanti a noi. No, cioè, non dovevano essere in crisi, umiliati e vilipesi? Non dovevano essere morti e sepolti? Non dovevano essere stati retrocessi, radiati, polverizzati per ragioni sportivo-penali, avendone fatte di ogni negli ultimi 100-110 anni? (Ora che mi ricordo, il caso-Juve era stata la lettura più interessante durante i mondiali. Cioè, voi leggevate la cronaca di Lapponia-Ecuador e Prussia-Australia?)
Apprendo, andando a ritroso, che la Juve ha vinto le ultime sette partite senza subire un gol. Di queste sette, quattro erano in trasferta, tutte vinte 1-0. E’ un po’ come gli 11 (ora 8) punti di svtantaggio dal Napoli, è un po’ come il Milan che ci resta ampiamente sopra. Sono tutti alert: la vita non ce la può rendere facile nessuno. Tranne noi stessi, tipo ieri sera.
Ci ho messo un po’ – giusto qualche decennio – ma quest’anno alfin mi sono arreso. Il giochetto del “più grande di tutti i tempi” ci piacerà anche un sacco ma non ha alcun senso, basta, diciamolo. E’ un simpatico espediente per parlare ore di un argomento che ti stuzzica, ma appunto resta un giochetto. Simpatico e inutile, come tutti i giochetti. E dopo essermici immerso più volte anche in questo 2022 – da Federer a Messi a Pelè, passando per qualche anniversario, qualche serie tv e qualche suggestione – finalmente ho capito che nello sport il più grande di tutti i tempi non esiste. E che il tempo va nessariamente diviso in epoche, e per ogni epoca si può trovare il più grande (o non trovarlo, perchè le generazioni non sono tutte uguali). E fermarsi lì.
Come si possono paragonare i tennisti che usavano le racchette di legno a quelli che usano le racchette in carbonio/titanio/plutonio/antimonio? Come si posso paragonare gli sciatori di 60 o 30 anni di fa a quelli di oggi (e gli sci, e le piste)? Come si possono paragonare Fangio, Lauda, Schumacher e Verstappen tra le bare volanti di un tempo e le macchine che oggi vanno quasi da sole? Come si possono paragonare, in generale e in qualsiasi sport, gli atleti di 100 o 50 anni fa a quelli di oggi per stuttura fisica, metodologie di allenamento, materali/tempo/soldi a disposizione?
Arrivato a Pelè, insoma, mi sono messo il cuore in pace. Pelè è il più grande di ogni epoca? Maradona è megli’e Pelè o viceversa? E Messi, vuoi mettere Messi?
La morte di Pelè chiude per sempre la storia di un calcio che non esiste più e di cui Pelè era volto, anima, tutto. Pelè è un mito del calcio, senza dubbio, ma di un calcio prevalentemente in bianco e nero, un calcio poco documentato (a parte Italia-Brasile di Mexico ’70, quante partite avete visto di Pelè?), un calcio più immaginato che vissuto. Pelè ha vinto tre mondiali e questo basterà per sempre a farne una leggenda. Fu vera gloria, certo, tra i millemila gol e le millemila veroniche, stella di tre Brasili pieni di talento e solidità (no saltimbanchi), personaggio positivo, semidio del pallone, front-man di un movimento, il sorriso a 320 denti, Pelè, Pelè! eccetera.
Ma il modello-Pelè oggi non sarebbe riproducibile. Oggi una leggenda del calcio non potrebbe non giocare nemmeno una partita di club in Europa. Oggi non potrebbe esistere un Pelè che se ne sta tutta la carriera nel Santos e poi da monumento vivente va a vivere un crepuscolo durato nei Cosmos, in un calcio che praticamente non esiste. Oggi non sarebbe concepibile un campione che non si vede, un campione con statistiche incerte, un campione che vedi apparire ogni 4 anni. E sì, ok, sono apparizioni abbacinanti. Ma oggi se non vedi partite per due giorni di fila vai in astinenza, figuriamoci ci fosse un Pelè che vedi un mese sì e 4 anni no. Oggi sarebbe inaccettabile non diffondere la bellezza di un Pelè. Oggi un Pelè non se ne starebbe mai rintanato in un altro emisfero senza diffondere la sua bellezza (e incassare il giusto). Ma oggi è oggi, e Pelè è – inequivocalbilmente – un campione di ieri.
Quindi: Pelè è stato il migliore della sua epoca (una quindicina di anni da primadonna assoluta dello sport più amato del mondo, per assurgere alla gloria eterna), Maradona della sua (una rock star con una cazzimma calcistica mai più raggiunta da nessun uomo), Messi della sua (giocatorone simbolo di uno sport sempre più ricco, sempre più frenetico, sempre meno affascinante).
Poi, siccome non puoi recintare nè la nostalgia nè le pulsioni calcistiche, ognuno decida chi è stato il più grande. Ma per sè, non per l’umanità intera. Certe classifiche non esistono, sono solo giochetti utili a riempire pagine e tabelle. Diffidate delle classifiche “ogni tempo”. Di Pelè restano la tecnica e la leggerezza, quella proprietà che hanno avuto in pochi di attraversare il campo su un cuscino d’aria prima di scegliere se segnare di tocco o di potenza o liberare il compagno al tiro, sempre comunicando una certa superiorità rispetto a un mondo di gente normale. Palè era Pelè, il re, che trasformava in oro ogni pallone, che veniva bene anche nelle foto. Resta il gol dell’1-0 di Italia-Brasile, un colpo di testa incastonato in una carriera di colpi di piede, eppure un colpo di testa maestoso, fluttuando nell’area e poi schiacciando con una potenza inumana, ed è un peccato che questa impresa fisica e tecnica non sia stato oggetto di studio come ogni singola mossa di CR7, scoregge comprese.
Ecco. Avrò più cose da ricordare di Pelè che di Messi, questo è sicuro, pur avendo visto una sola partita di Pelè e almeno cento di Messi. Maradona non so, è un’altra categoria di uomo e di campione, nel bene e nel male e anche nel malissimo: di lui ricorderò più cose di Pelè e Messi messi (ops) insieme.
E così, dopo il Covid, la guerra, la siccità, un campionato regalato al Milan, il caldo tropicale, il centrosinistra scherzato alle elezioni, la crisi energetica, un Mondiale in Qatar e non so più quale altra calamità, mi tocca chiudere questo anno di merda dovendo porgere le mie scuse a Messi per la mia dannata fretta a considerarlo – ormai ultra 35enne – non più abile a nessuna grande impresa. E vabbe’, lui del resto è Messi e io un pirla qualunque. Però ci tengo a scusarmi.
Dunque, la questione per me era questa: fino a un anno e mezzo fa Messi non aveva vinto nulla con la sua nazionale (a parte un oro olimpico, boh, per quanto possa contare). E questo, per me, ne faceva un campione dimezzato. Un anno e mezzo fa, prima di giocare la finale di Coppa America 2021, Messi (no dico, Messi) aveva giocato 150 partite (no dico, 150) dell’Argentina (no dico, l’Argentina! Mica le Samoa o il Togo, l’Argentina!) e tutto questo bendiddio calcistico – 150 partite di Messi nell’Argentina – non aveva prodotto niente di niente. Questo lo teneva irrimediabilmente lontano dai due giocatori con cui è stato perennemente paragonato: non solo Maradona per il passato, ma anche CR7 per il presente, lui sì molto decisivo per il suo Portogallo, una nazionale qualche categoria sotto quella argentina eppure, in tempi recenti, più vincente (Europei e Nations League negli ultimi 6 anni, contro due ori olimpici dell’Argentina negli ultimi 28).
Un anno e mezzo fa Messi e l’Argentina vincono la Coppa America, in Brasile, in finale con il Brasile. Un modo piuttosto spettacolare di interrompere un digiuno che durava dal 1993. Messi finalmente alza una coppa in nazionale, dopo 150 partite, a 34 anni. Una toppa messa in extremis, non certo la più prestigiosa possibile. La statistica è salva. Ma la reputazione?
Intendiamoci, si sta parlando di un giocatore clamoroso. Ma anche privilegiato. Rimanendo alle sue cifre cristallizzate a un anno e mezzo fa, uno che ha giocato 750 partite nel Barcellona e 150 nell’Argentina non ha calcisticamente le pezze al culo. E’ uno che può vincere col minimo sforzo (mica come Maradona a Napoli). E se nel club ha messo insieme l’inverosimile, in nazionale per 16 anni e 150 partite non ha quasi lasciato un segno. Un segno vero, una coppa, una coppa vera. Una di quelle cose per cui ti ricorderanno nei secoli dei secoli.
Messi è così forte che lo premiano a caso. Almeno due dei suoi sette Palloni d’oro sono senza senso, se non quello di aver dato un premio a uno bravo – ma non il più bravo di quella stagione lì. Messi è così forte che resta il più forte anche se le sue ultime due stagioni a Parigi, con una maglia che gli sta addosso in maniera innaturale, sono state tristi (o intristite, fate voi). Messi è così forte che anche le sue ultime due stagioni al Barcellona erano state piuttosto tristi: 31 e 38 gol l’anno, che tristezza, vero?
Ecco, ho frettolosamente dato Messi per finito, depresso dalle mollezze parigine, appagato dalla statistica sistemata in nazionale. L’ho dato per finito in un perfido parallelo con Cr7, perchè prima o poi il viale del tramonto lo imboccano tutti e sembrava la volta buona anche per loro. L’ho dato per finito dopo Argentina-Arabia Saudita, una partita che sembrava allontanarlo crudelmente dall’unica emozione che gli mancava in carriera, un’emozione che meritava, un’emozione che però soltanto lui – un campione in mezzo a una banda di vandali – poteva procurarsi.
Lo ha fatto.
Maradona aveva dimostrato che si poteva vincere un Mondiale più o meno da soli, Messi lo ha confermato. Perciò gli chiedo scusa. Ha vinto sei partite più o meno da solo, sempre una spanna sopra gli altri, spesso anche due o tre, come si addice ai campioni. Anche ai campioni tardivi, che aspettano i 35 anni e mezzo per mettere la ciliegina sulla torta.
E’ nell’Olimpo, ora non ci sono più dubbi. Non sarà mai Maradona, non avendone la caratura, lo spessore, la follia, la maledizione. Resta un anti-personaggio, ha avuto spesso vita facile, gli hanno steso tappeti rossi. Ma adesso ha vinto un Mondiale da solo, e quindi lui è lui, e noi non siamo un cazzo.