Trattatello in laude di Acerbi

Mentre l’Inter viveva la stagione dei suoi successi a raffica (tra il 2006 e il 2012, da Mancini a Leonardo passando dallo Special One e Benitez, scudetti, Champions, triplete, coppe varie) (sospiro), a Pavia – 40 km da San Siro, controllate pure su Maps – transitavano giocatori che poi avremmo visto più o meno stabilmente in Serie A, o addiririttura in Nazionale. Il Pavia – che nel frattempo è fallito, sprofondato e rinato e oggi milita in Eccellenza, una specie di limbo tra il calcio che conta poco e il calcio che non conta un cazzo – in quegli anni così densi di interismo militava tra C2 e C1 (poi LegaPro): diciamo che avevo calcisticamente altro a cui pensare, ma che mi poteva capitare, in momenti di astinenza o di particolare afflato cittadino (o anche per lavoro, occasionalmente), di fare un salto allo stadio Fortunati e di guardare la partita di quella che, volendo essere precisi, potrei definire una delle mie seconde squadre, qualche gradino sotto la prima.

(la prima, non so se l’ho mai detto, è l’Inter. Poi, a livello di club, ci sono tre squadre di cui seguo passo passo i risultati e i rispettivi campionati: Vogherese, Pavia e Liverpool)

C’è stato un momento, diciamo a metà dello scorso decennio, che in Serie A giocavano contemporaneamente da titolari un calciatore di Pavia (Simone Verdi, che curiosamente non ha mai giocato nel Pavia) e quattro ex del Pavia: Giaccherini, Pavoletti, Falco e Acerbi. Una felice e rara coincidenza, per una città un po’ ai margini del calcio che conta. Giaccherini, Pavoletti e Falco hanno giocato un solo campionato a Pavia per poi andare altrove. Acerbi, invece, è stato a Pavia parecchio. Cinque stagioni, dalle giovanili alla prima squadra, inframmezzati da un paio di prestiti. Cinque stagioni. Potrei bullarmi a dire che io sì, l’avevo visto giocare da ragazzo e bla bla bla, si intuiva che bla bla bla, ma non me lo ricordo proprio. Probabilmente no, non l’ho mai visto.

A Pavia Francesco Acerbi ha esordito a 18 anni in prima squadra in C1, quindi nel calcio professionistico, domenica 23 aprile 2006 in Pavia-San Marino 4-0 (forse era un segno del destino, passato del tutto inosservato, ma nella corrispondente giornata di Serie A, anticipata a sabato 22, anche l’Inter vinceva 4-0 con la Reggina). Aprile 2006: da lì a un mesetto sarebbe successo il finimondo. Le ultime due stagioni le ha giocate da giovane titolare al centro della difesa. Poi il Pavia lo cedette in comproprietà proprio alla Reggina, che lo cedette al Genoa, che lo rimpallò in comproprietà prima al Chievo e poi al Milan (solo 10 presenze, ma due in Champions) e via così per qualche confuso passaggio di maglia e di cartellino fino a quello definitivo al Sassuolo. E da lì – è il 2013, dieci anni fa – la storia è nota.

Quando arriva al Sassuolo, Acerbi ha già 25 anni, e ne perderà uno abbondante per curarsi un tumore con recidiva. Quando a 26 anni e mezzo torna in campo, non più giovanissimo e una drammatica storia alle spalle, praticamente non ne uscirà più. Dopo un campionato di (ri)assaggio, seguiranno nove stagioni in cui le giocherà tutte o quasi. Quando parla della malattia lo fa con serenità e una punta di orgoglio: “Se non avessi avuto il tumore forse giocherei in B, o in C, o forse avrei già smesso”. Invece la sua rinascita personale si è realizzata sui campi di Serie A, dove per recuperare il tempo perduto (o forse, apprezzando la seconda chance che gli veniva data) è diventato un giocatore affidabile, generoso, puntuale, necessario. Lo ha fatto senza forzare, soprattutto nei toni, lasciando parlare i fatti. Punto di riferimento assoluto di Sassuolo e poi Lazio. E anche in azzurro, con la formula dell’usato sicuro: delle 31 presenze in Nazionale, 29 le colleziona dopo aver compiuto 30 anni.

Quando arriva all’Inter, anche a seguito di (oggi possiamo dire: grazie a) una spiacevole situazione creatasi con la tifoseria laziale, diamo tutti per scontato che sia il centrale di riserva, anzi, il sostituto di Ranocchia, non mancando di notare che Acerbi è addirittura 6 giorni più vecchio dell’ex capitano, alla faccia del ringiovanimento della rosa. Ma Ranocchia nel suo ultimo anno all’Inter aveva fatto 10 presenze, per lo più spezzoni, di cui 3 in Coppa Italia. Acerbi, nel suo primo anno all’Inter, farà 49 presenze di cui 12 in Champions League, compresa la finale, duellando in mondovisione con il miglior giovane centravanti dell’universo che toccherà tre palloni in 90 minuti.

Se l’aggettivo “sorprendente” è quello che forse più si adatta a descrivere la stagione 2022/23 dell’Inter, il giocatore simbolo non può che essere uno sorprendente come Francesco Acerbi. Che è meno patinato di Lautaro, meno frenetico di Barella, meno strabordante di Onana, meno pulito di Bastoni, ma ha dato a tutti una straordinaria lezione di calcio. La naturalezza con cui si è inserito nell’Inter, nel suo gruppo e nel suoi meccanismi difensivi è una delle chiavi dell’intera annata nerazzurra. Nella perenne ricerca del “giovane”, quasi non ti accorgi che il tuo colpo di mercato va per i 36. E quando te ne accorgi vieni colto da una piacevole sensazione: tipo che non c’è niente di scritto e che gli schemi possono essere stravolti anche da chi non ti aspetti. Un vecchio, o presunto tale.

Che poi varrebbe anche per Darmian, anche lui uno serio, senza effetti speciali, che magari ti distrai a guardare gli altri fino a quando non gli vedi fare una diagonale che Chuck Norris al confronto è Carla Fracci e ti alzi dal divano ad applaudire come avesse fatto un gol – che poi ogni tanto ne fa. E’ l’Inter italiana, diligente e un po’ operaia che ti regala una stagione con tre finali e tu che fai?, ringrazi e stop, la ami, li ami.

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Rimpianto & orgoglio

Cioè, qualcuno avrebbe davvero firmato per una buona sconfitta? Ovviamente no, in una finale di Champions esistono solo due risultati – hai vinto, hai perso – e tutte le possibili sfumature della sconfitta non cambiano il risultato. La Champions l’ha vinta il Manchester, il nome sull’albo d’oro sarà quello e non ci sarà nessun asterisco di fianco al risultato City-Inter 1-0*

* ma cagandosi addosso perché l’Inter ha fatto un partitone

No, purtroppo non funziona così. Non ci sarà nessun asterisco nemmeno riguardo la serenità, ancora più impalpabile della paura altrui. Però quella ce la possiamo godere, prendendo sonno con naturalezza: la serenità di avere giocato al 100%, di avere onorato l’impegno, di essere stati al livello di un’avversaria che gli algoritmi mettevano qualche gradino sopra. La malinconica serenità di accettare un sentimento che non era nella Top 10 delle previsioni della vigilia: il rimpianto. Il rimpianto di non aver prolungato la partita ai supplementari, forse addirittura di non averla vinta quando si poteva.

Ecco, l’Inter ci ha sorpreso anche stasera. Ancora non ci si credeva di vederla lì, a giocarsi la finale di Champions, e in fondo è andata oltre: ci ha fatto vivere una notte da leoni, una partita in cui non si capiva bene chi stava dominando chi, quando nei pronostici della vigilia era tutto molto chiaro. Il fatto di avere addirittura dimostrato di poterla vincere, beh, ci provoca un inatteso rimbalzo di umore: contenti proprio no, nemmeno così sereni, gne, umf.

Ci è mancata un po’ di lucidità e un po’ di culo, in una dose fisiologica, non clamorosa: sarebbe bastato. Aver concesso al City tre occasioni da gol in 95 minuti dà l’idea della razza di partita che abbiamo fatto in quella che è diventata quest’anno la nostra specialità di coppe, applicazione più sacrificio. Essere qui a mangiarsi i gomiti per essere arrivati anche noi tre volte vicini a segnare (anzi, più vicini di loro) è un altro indicatore di quanto l’Inter se la sia giocata, se la sia voluta tenacemente giocare.

Consoliamoci con l’orgoglio. Quello sì, poteva traballare di fronte a una partita anonima, passiva, rinunciataria. E invece gli abbiamo dato una bella lustrata: non ricorderemo questa serata per il risultato, ma per la bellezza di essere interisti sì. La sventolata di bandiere della nostra curva all’Ataturk, dopo il fischio finale, è stata una bella immagine di interismo.

E’ stata una stagione pazzesca, a tratti bellissima, qualche volta insensata, perché la pazzia una non la può eliminare del tutto. Abbiamo fatto tre finali, vincendone due. Inzaghi (anche lui non ha sfigurato davanti al presunto genio del calcio, anzi) e tutta la squadra vanno ringraziati per averci portato fin qui, ben oltre quanto potessimo immaginare. Abbiamo perso la Champions, arrivando a un millimetro dal mettere un gol che avrebbe cambiato le sorti della partita: è lo sport, è il calcio, le co-vittorie sono solo un’invenzione dei poveri di spirito. Forza Inter, siamo tornati nel club delle grandi: provare a restarci sarà il prossimo step, ma pensiamo pure tra un po’.

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Meno zero (ci siamo)

Per tutta la settimana – è una scaramanzia talmente farlocca che posso tranquillamente spoilerarla – dopo pranzo mi sono fatto un Istanbul. Quelli che come me fanno uso del Nespresso, anzi, fanno parte del Nespresso – una specie di massoneria alimentare – sanno di cosa parlo. Capsulina giallo ocra istoriata, intensità 8, un caffè eclettico e allo stesso tempo armonioso – sto copincollando lo spiegone – come l’atmosfera frenetica delle prime caffetterie, nate in questa città cosmopolita dell’antico Impero Ottomano (sospiro). Dinamico come la storia del caffè in questa città, storico crocevia delle antiche rotte commerciali.

Che copy, che poesia. Uhm, questa settimana insomma mi sono fatto quasi una stecca di Istanbul. Avverto, schioccando le labbra, che l’unione di due diverse varietà – l’Arabica dell’Etiopia e il Robusta dell’India, e torno a copincollare – offre un profilo splendidamente complesso, con note tostate e di frutti selvatici e un gusto amaro e una spiccata acidità. Secondo Nespresso, nel minuto circa della mescita potevo legittimamente sentirmi un po’ a Istanbul, e così ho fatto.

(un giorno mi occuperò della questione Nespresso. Dall’inizio nutro il sospetto che dentro le 25 diverse capsule ci sia lo stesso caffè e che le note tostate e la spiccata acidità siano un’esperienza indotta da una specie di autosuggestione, l’effetto dell’appartenere a questa casta che aspetta l’uscita delle nuove fragranze come fossero un disco di Battisti e che, dovunque ci si trovi nel mondo, entra nel negozio Nespresso come fosse il Prado)

A parte il caffè, che per qualche istante mi faceva sentire a Istanbul prima di affacciarmi alla finestra e di rendermi conto con un’indicibile tristezza di essere a Pavia – poi dicono che il caffè ti tira su – di Istanbul mi sono occupato poco. Calcisticamente, intendo. Ho letto pochissimo, quasi niente. Non ho letto nulla del City. Mi ricordo che 13 anni fa mi successe la stessa cosa con il Bayern: dopo tutto quello che ci era successo nelle settimane e nei mesi precedenti, non c’era nulla che mi interessasse dei nostri avversari. Quando qualcuno mi disse che non avrebbe giocato Ribery, il mio commento tecnico fu:

“Ah”.

Non me ne frega niente di chi gioca e di chi non gioca. Di questo City, come di quel Bayern. Lo scoprirò quando si schiereranno a centrocampo con i bambini davanti. Del City abbiamo tutti ben fisse quelle tre o quattro nozioni: in sintesi, sono fortissimi, hanno un sacco di alternative, saranno cazzi. Ma non mi interessa, lo sappiamo tutti e basta, stop. Tantomeno, mi interessano le questioni tecniche. Fossi io l’allenatore dell’Inter, darei sommarie indicazioni ai giocatori:

“Lo vedete quello spilungone biondo? Ecco, qualcuno gli dia un’occhiata. Anche all’altro biondo, quello un po’ meno grosso, visto, sì? E’ uno che ci sa fare a centrocampo. State all’occhio, divertitevi, domani giorno libero! Mucha Mierda!”

Non mi interessa se pioverà o ci sarà il sole, se l’arbitro è neonazista o castrista, non mi interessa più niente. Mi interessa solo che si giochi.

Il City è un gradino sopra, ci può ingoiare in un sol boccone, vincere il match di un due/tre semplici mosse, concedersi una goleada per il suo triplete in grande stile. In teoria non c’è partita. Ma a me interessa la pratica, voglio sentire la musichetta, il fischio dell’arbitro, l’urlo della folla. Voglio vedere rotolare il pallone. In teoria non c’è partita, ma nella pratica?

Nella pratica, abbiamo conosciuto quest’anno un’Inter di coppa che non ha avuto niente da spartire con una certa Inter di campionato. Un’Inter che in Europa ha giocato partite di grande sofferenza portando a casa il risultato. Un’Inter che in Italia ha giocato quattro finali in due stagioni e le ha vinte. Se tutto questo avrà un peso, boh, io non lo saprei dire. In questi giorni mi sono molto concentrato sul distinguere le note tostate nel contesto di un gusto amaro che mi ha fatto dire:

“Ma se io adesso mi bevo un Milano, un Palermo, un Napoli (rumore di tuoni) sentirò le stesse cose? Le note tostate le sta elaborando il mio cervello per farmi sentire in pace con me stesso ed evitare una spiacevole class action?”

Ma oggi è diverso, oggi tocca concentrarsi e aspettare le nove di sera. Se la Nespresso avesse un Madrid, me lo berrei un’oretta prima e chiuderei gli occhi per sentirmi come mi ero sentito al Bernabeu. “Entra, respira, guarda dove ti hanno portato i ragazzi”. Ecco, questo pensiero lo replicherò di sicuro. Non perchè porta bene, ma perchè è vero.

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Meno uno

Tra cose che non si dicono, cose che non si pensano e cose che si fanno finta di non sapere, a chi mai delegare una sana botta di realismo (che non siamo più in grado di isolare dalla scaramanzia)? Beh, a chi se ne intende: alle società di scommesse. Fate anche voi questo esperimento. Vi stendete a letto o sul divano, guardate il soffitto, socchiudete gli occhi, pensate a sabato, lasciate fluire le sensazioni. Poi riaprite gli occhi, prendete lo smartphone, cercate City-Inter quote, cliccate, leggetele. Eh, lo so. Tirate un sospiro. Posate lo smartphone.

Più o meno, la quote di City-Inter sono quelle di un’Inter-Bologna. In cui loro sono l’Inter e noi il Bologna. La vittoria al 90esimo del City è data a circa 1.4/1.5, una miseria; il pareggio a 4.5/4.7, che sarebbe già un bel prendere; la vittoria dell’Inter 6.5/7.0. Col passare delle ore, la quota è aumentata di qualche decimale: insomma, non solo il City è favorito, ma sull’Inter non si sono addensate nel frattempo grandi aspettative. Le quote degli allibratori possiamo considerarle la fotografia più o meno esatta della situazione: naturalmente capita che il Bologna vinca a San Siro – capitano i pali, le traverse, le occasioni sbagliate, le partite di merda, le espulsioni, l’arbitro fenomeno, la pioggia, le sfighe varie -, ma l’imponderabile fa parte del gioco.Stiamo cercando una base oggettiva, e la base oggettiva di tutte le società di scommesse dice che il City è strafavorito e l’Inter molto probabilmente perderà.

Questo lo sapevamo dall’inizio anche senza andare a sfrucugliare Snai, Sisal, Better ecc. ecc., ma ogni tanto è giusto soffermarsi sul lato più spiacevole di questo meraviglioso finale di stagione: e cioè che sarà dura, durissima, probabilmente impossibile. Quando due interisti i incontrano per strada e parlano della finale iniziano in punta di piedi, fanno della gran teoria, massimizzano i sistemi, poi planano lemmi lemmi sul terreno del “non succede, ma se succede” che tiene aperta la porta principale. Eh, ma quello di Istanbul non sarà il migliore dei mondi possibili.

Noi siamo l’Inter, la sorpresa. Loro sono il City, i più forti del mondo. L’importante è non dare per scontato tutto questo, nè l’impossibilità nè la possibilità. Rassegnarsi a un ruolo subalterno, accontentarsi di essere arrivati a una finale in cui le società di scommesse ti quotano come un Bologna qualsiasi perchè probabilmente è giusto così. O confidare che c’è una chance per tutti, che comunque qualcosa possa accadere, e che per una simpatica combinazione sarà proprio quello che desideri.

Il mio mantra in questi giorni è stato “con serenità”. Cosa potevamo fare di più? Niente, siamo arrivati alla più insperata delle finali, abbiamo giocato 12 partite di Champions e ci resta la tredicesima. “Con serenità” è un concetto che racchiude un sacco di cose. A proposito delle società di scommesse, la serenità di accettare di essere quotati come ampiamente sfavoriti: 80 per cento delle possibilità a loro, il 20 a noi (un 20 che comprende anche la possibilità di allungare la partita). Ma anche la serenità, forse, di essere più sereni di loro, che hanno davanti l’occasione della storia da netti favoriti. La serenità – che spero non sia troppa – di non avere eccessiva pressione da parte nostra.

E’ questa la sfumatura più complicata. E’ chiaro che tutti sogniamo di vincere, è ovvio che tutti nel nostro intimo cediamo a un ottimismo magari eccessivo (siamo in finale, why not?). Ma non siamo lì a fiatare sul collo dei nostri beniamini: tutti vorremmo che vincessero, nessuno – almeno, credo sia così – lo pretende davvero. Sarebbe ingeneroso. Ecco, io vorrei tanto che questo meccanismo infondesse serenità alla squadra, non appagamento, non autoassoluzione a priori. La partita è da giocare fino in fondo, e so che lo faremo. Per una sera cercheremo di essere un Bologna o un Monza, quando vengono a San Siro a giocare quelle partite che nessuno pretenda che vincano (“non è qui che dobbiamo fare i punti”) e invece, mannaggia a loro, lo fanno. Perchè i risultati delle partite non li decidono gli algoritmi degli allibratori.

La cosa davvero clamorosa, ecco, è che domani sera sapremo tutto, conosceremo il finale della finale. Mi basterebbe – non lo dico per scaramanzia – non rimanere deluso.

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Meno due

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, ma se dovessimo vincere questa Champions

(la frase si presta a almeno 12 diverse sfumature di scaramanzia, quindi va bene così)

ci potrebbe essere qualcuno che tira fuori la storia di Steven Bradbury, l’australiano che vinse l’oro a Salt Lake City nello short track perchè i quattro che correvano la finale con lui (che erano molto davanti a lui ed erano molto più forti di lui) caddero tutti all’ultima curva. Steven Bradbury, che tra cadute e squalifiche altrui aveva passato fortunosamente anche i quarti e le semifinali, è così passato alla storia per due motivi: è stato la prima medaglia d’oro di un atleta dell’emisfero australe alle Olimpiadi invernali ed è stato il protagonista della più gigantesca botta di culo della storia dello sport. Tanto che in Australia – terzo motivo di fama imperitura – si dice ancora oggi doing a Bradbury, fare un Bradbury, per indicare un successo insperato.

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, ma se dovessimo vincere questa Champions

(la ripetizione della scaramanzia è essa stessa una scaramanzia)

qualcuno potrebbe dire che siamo stati come Bradbury, riferendosi ai fortunati sorteggi che ci hanno riservato Porto, Benfica e Milan quando dall’altra parte del tabellone City, Real, Liverpool, Chelsea, Bayern e Psg si scannavano tra di loro.

Il paragone potrebbe essere simpatico (tra l’altro presuporrebbe che abbiamo vinto la Champions, quindi sticazzi, potrebbero paragonarci anche a Bokassa), ma è ovviamente inesatto. Guadagnarsi la finale di Champions vuol dire arrivare a giocare 13 partite, che sono tante, e passare indenni le 12 precedenti non può essere frutto del caso. E se siamo stati fortunati in primavera, in autunno non lo siamo stati per niente: aver passato il turno in un girone con Bayern e Barcellona (Barcellona che hanno subito catalogato come disastroso, salvo poi vederlo vincere la Liga con 10 punti di vantaggio sul Real nonostante tre sconfitte nelle ultime quattro) è stata un’impresa della madonna.

Quanto poi alla fortuna, vabbe’, ne abbiamo avuta a livello di sorteggi, ma in ogni singola partita ce la siamo cavata ampiamente da soli, mica a colpi di autogol o di rigori che non c’erano. E infine: parlando degli accoppiamenti fortunati, i Bradbury in questa Champions sono stati otto (la nostra parte del tabellone), mica uno solo. Abbiamo stravinto il torneo dei fortunelli, e giustamente approdiamo in finale.

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, molto più probabilmente che si perda 5-0, ma se dovessimo vincere questa Champions

(amplificare la scaramanzia può sempre rivelarsi utile)

con un autogol di ciuffo di Grealish, o per un tiro di Barella destinato al fallo laterale e che invece incoccia in un gluteo di Gagliardini – entrato nel finale come mossa disperata di Inzaghi – ecco, diciamo che con onestà intellettuale sarei il primo a dire che abbiamo avuto culo e che siamo i Bradbury del soccer. Ma lo direi alzando la coppa con una mano e con l’altra stringendo l’ultima birra mentre la finisco a canna. E dopo aver dominato per decenza un enorme rutto, dopo aver cantato Pazza Inter e l’Inno di Mameli in rapida successione, dopo avere guardato 46 volte gli highlights, intratterrei gli astanti raccontando la vera storia di Bradbury, delle sue sofferenze, dei suoi 118 punti di sutura, della sua vertebra cervicale, degli avversari che facevano strike tra di loro e delle porte del paradiso che si aprivano all’improvviso nel palaghiaccio. Perchè bisogna esserci, in finale.

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Meno tre

He did not say that because he knew that if you said a good thing it might not happen

(Non lo disse perché sapeva che se dicevi una cosa bella poteva non accadere)

(Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Ecco, già sento un brusio di ammirata approvazione: “Ma che cultura, ma che profondità, ma che blog, che blogger!, forza Inter, Juve merda!”. Amici, credo sia giusto spiegare: sono semplicemente andato alla pagina “Scaramanzia” di Wikipedia e ho fatto copincolla. Adoro le pagine di Wikipedia che sono brevi e vanno dritte al punto. Quindi, nello spirito più puro del blog di servizio e di divulgazione, copincollo la definizione:

La scaramanzia è una forma di superstizione secondo la quale alcune frasi o gesti attirerebbero o allontanerebbero la fortuna o la sfortuna. L’etimologia è incerta e potrebbe derivare dall’alterazione della parola “chiromanzia” (a sua volta di origine greca), quindi con un collegamento con l’ipotetica capacità di prevedere del futuro.

E fin qui ci siamo. Wikipedia parla di noi. In questi giorni è tutto un non dire (“No, non dire niente!”) tanto che se ci troviamo faccia a faccia con un altro interista, restiamo in silenzio. Magari siamo amici da trent’anni, ma siccome ogni frase potrebbe riservare un trabocchetto, non la diciamo. Il 95% degli argomenti nasconde insidie, doppi sensi, rimandi, link. “Come stai?”, per esempio, è una domanda crudele. Meglio stare zitti. Stiamo zitti come negli ascensori degli alberghi, quando facciamo qualche piano con degli sconosciuti a cui non sapremmo cosa cazzo dire – e perchè poi dovremmo mai dirgli qualcosa? – e poi dopo una lunga scena muta ci salutiamo, ciao ciao, perché in effetti un ciao non ha doppi sensi, mentre un “ci vediamo” potrebbe averne, e una qualsiasi scadenza (“ci vediamo la settimana prossima”) è una clamorosa badilata di rogna. La settimana prossima? Fanculo, chissà dove/come saremo la sett (frase tronca, mani sui coglioni, fuga).

Un tipico esempio di tale credenza è l’idea che dicendo qualcosa, questa non accadrà, o potrebbe accadere il contrario di ciò che si è detto. Per tale motivo, in particolare in Italia, si usa augurare il contrario di ciò che si desidera che accada. Per esempio, a un cacciatore non si dirà “Buona caccia”, ma “In bocca al lupo”, termine entrato anche nel linguaggio comune e utilizzato per augurare “buona fortuna”.

Quindi “Ho sempre ammirato il meraviglioso tiki-taka di quel genio di Guardiola” oppure “Haaland è il miglior attaccante mai apparso sul pianeta Terra” sono considerazioni che ogni interista dovrebbe far in questi giorni. Questa mattina ho aiutato ad attraversare la strada a una signora di 97 anni, lei mi ha detto “grazie mille” e io le ho risposto “Ma si figuri, tra l’altro Ederson è un portiere che mi è sempre piaciuto e sbaglia pochissimo”.

La scaramanzia non è limitata soltanto a frasi dette, ma anche a gesti e comportamenti. Per esempio, credere che se si esce senza ombrello pioverà, mentre invece portandolo con sé non pioverà (gesto apotropaico).

Io non ho comprato champagne, e quello che ho in casa non lo metto in frigo. Un mio amico voleva comprare una copia a grandezza naturale della Coppa dei Campioni, ma ha rinunciato. Sono giorni complicati. Io per sabato, a proposito, ho preparato un rito scaramantico clamoroso, che naturalmente non posso rivelare. Lo farò forse nei giorni successivi. Successivi a cosa? A sabato? Sabato non esiste. Il calcio non esiste. La tv non esiste. Il divano non esiste. No, non dire niente. Noi non ci conosciamo.

La figata della pagina di Wikipedia dedicata alla scaramanzia è che – per scaramanzia? – viene messa in dubbio da Wikipedia stessa:

Questa voce o sezione sull’argomento antropologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Questa voce o sezione sull’argomento antropologia è ritenuta da controllare.
Motivo: voce un po’ raffazzonata

Non è meraviglioso? Quindi, fatemi capire: la scaramanzia è un po’ raffazzonata? Cioè, non ha basi di nessun tipo (stavo per dire scientifica, muahahaha)? Oh, lo dice Wikipedia. Quindi?

(disclaimer: da qui in avanti, non si fa uso di scaramanzia)

Il Manchester City è il grande favorito, è più forte dell’Inter, ci potrebbe mangiare in un sol boccone. Ha la grande occasione della sua storia, la prima Champions, il Triplete, tutto. Potrebbe caricarsi a palla, oppure sentire la pressione, questo è da vedere. Dipenderà anche da noi, se gli daremo l’impressione non solo che la partita se la dovranno sudare, ma che non staranno giocando proprio contro nessuno. Non facciamo finta di non avere visto le quote dele scommesse: sono la fotografia esatta della situazione. Senza offesa, partiamo da un gradino sotto. E’ una delle tre/quattro finali più sbilanciate dell’intera storia della Champions. Ma questo potrebbe essere un punto di forza. Le favorite ogni tanto si fanno la cacca addosso. Le underdog a volte fanno la partita della vita. La palla è rotonda. La partita è secca. Forza Inter.

(disclaimer: da qui in avanti si torna scaramantici)

Scusate, non ho scritto io. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. Mi hanno hackerato il sito. E’ stata Chat Gpt. Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!

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Meno quattro

Come stavamo il 18 maggio 2010, il martedì prima della finale? Sì, certo, eravamo di sicuro alle prese con l’ansia per il partitone, l’attesa che montava, eccetera eccetera, ovvio. Ma come stavamo davvero?

Ho fatto una cosa semplice, per quando riguarda me: sono andato a vedere cosa ho scritto sul blog il 18 maggio 2010. Beh, in effetti la cosa mi ha colpito parecchio: 13 giorni dopo aver vinto la Coppa Italia, due giorni dopo aver vinto lo scudetto, quattro giorni prima di giocare la finale di Champions, insomma nel bel mezzo di un crescendo pazzesco, alla vigilia di quella che poteva rappresentare – e lo rappresenterà, come ben sappiamo – la più clamorosa impresa di un club nella storia del calcio italiano, ecco, io scrivevo un post su Mourinho che se ne sarebbe andato.

Vigilia serena, eh? Il giorno prima, lunedì 17 maggio, non mi ricordo da quale giornale iniziò a diffondersi una notizia che doveva per forza essere vera. Perché non erano illazioni dei soliti tromboni del calciomercato o presunte superbombe dei gossipari del pallone. No: semplicemente, si venne a sapere che Mourinho non aveva rinnovato l’iscrizione dei figli alla Scuola americana del Canton Ticino. E tra i compagni – beata innocenza – non solo si confermava la cosa, ma qualcuno disse: sì sì, ci hanno detto che l’anno prossimo saranno a Madrid.

Ecco come stavamo il martedì prima della finale di Champions 2010. Di merda? No, tutt’altro. L’addio di Mourinho era l’ennesimo capitolo epico di una stagione epica, vissuta sempre in trincea, soli contro tutti dall’inizio alla fine, rischiando di perdere tutto e riacciuffandolo più di una volta. Mourinho fu sempre in prima fila in quella eterna battaglia contro il mondo intero: avversari, arbitri, circostanze, anche qualche mulino a vento. Decidendo di andarsene dopo due stagioni vissute pericolosamente, Mourinho faceva la cosa giusta per lui. Per fare la cosa giusta per noi, invece, gli mancava ancora un tassello. Gli addii anticipati (o almeno dati per certi, per quanto non ancora ufficializzati) di solito portano le squadre allo sbando. Non fu il caso di quell’Inter, che era un tutt’uno con il suo allenatore: bastò l’inerzia dell’incidibile tensione di quei mesi del 2012 per andarsi a prendere tutto anche al Bernabeu.

Non c’è forse niente che, sportivamente e storicamente parlando, possa essere paragonato tra l’Inter del 2010 e quella del 2023. Forse nemmeno l’attesa di noi tifosotti, se non per quella infantile e genuina percentuale di aspettativa che precede una finale, 90 cazzo di minuti in cui può succedere di tutto, e quindi perché non sperare?

Nel 2010, la nostra ansia era condita da una voglia feroce. Mancavamo da una finale di Champions da 38 anni – 7 anni prima ce l’aveva negata lo stinco di un milanista -, non la vincevamo da 45. In più, c’era aria di Triplete, un filotto clamoroso e mai riuscito a nessuna italiana. Arrivavamo da cinque scudetti di fila, era il momento di riprendersi l’Europa. Sotto la guida dell’allenatore più decisivo del mondo e di un presidente tanto munifico, tanto innamorato, tanto milanese da meritarsi la migliore ricompensa dopo 15 anni di presidenza faticosa, drammatica, a volte tragica. Arrivammo a Madrid tutti – giocatori e tifosi – stravolti eppure carichi a palla. Mentre vagavo per Madrid aspettando la partita, vedevo gli sguardi degli altri specchiarsi nel mio: non potevamo dircelo, ma eravamo sicuri che avremmo vinto. Quell’Inter non poteva perdere.

Nel 2023, stiamo inventando uno stato d’animo nuovo, a cui forse, se ne avranno voglia, psicoterapeuti e patologi della criminalità daranno un nome: un mood in cui albergano contemporaneamente la serenità, l’incredulità, la speranza, l’orgoglio e il panico. Il nostro allenatore è Simone Inzaghi, caratterialmente l’antitesi di Mourinho, uno che regala un campionato al Milan, in quello successivo cerca di battere il record di sconfitte ma in due anni fa percorso netto nelle coppe nazionali e ci riporta ai piani altissimi in Europa. La società ha un’altra veste, il presidente non parla sul marciapiede e, se anche lo facesse, lo farebbe in inglese. La squadra non ha quel peso specifico, non regge il ritmo-triplete ma è occasionalmente capace di tutto: la pazzia del resto è la nostra comfort zone.

La serenità, l’incredulità, la speranza, l’orgoglio e il panico: in attesa di studi più approfonditi, questa gnagnagnanza ci terrà per le palle ancora per quattro giorni. Ma va bene così: sono sensazioni rare e bisogna goderne. La gnagnagnanza provoca insonnia, nervosismo, pressione alta, amnesie temporanee? E chi se ne frega. Il messaggio del mio amico Michele – lui già sugli spalti del Bernabeu, io in coda ai tornelli – torna di moda 13 anni dopo: “Entra, respira, guarda dove ti hanno portato i ragazzi”. Già, comunque vada.

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Meno cinque

Magari ci mettono un po’, le cose, ad assumere un significato preciso. Ci mettono un po’, fanno giri immensi e poi ritornano – cioè, ritornano alla mente sotto una nuova luce. Prendi Inter-Monza e prendi me, che una sera acquisto on line quattro biglietti del secondo blu convinto di aver fatto una grandissima figata e sottopongo invece me stesso e la mia famiglia a un crudele spettacolo, lo sfacelo della mia squadra del cuore contro un club artificiale, al culmine di una crisi che sembra senza uscita e alla vigilia di una serie micidiale di partite con due competizioni ancora aperte – il campionato no, quello è chiuso, e mentre smanetto sul telefono tornando al parcheggio mi accorgo che siamo virtualmente sesti (poi lo saremo davvero).

Beh, chi lo avrebbe mai detto che dopo Inter-Monza avremmo vinto 11 partite su 12? E che ci saremmo guadagnati la possibilità di giocarne ancora un’altra, sabato 10 giugno, una data in cui di solito la squadra è ormai sparsa tra Sardegna, Maldive e Formentera?

Ecco, quindi quel centone per Inter-Monza direi che è stato ben speso. Posso raccontare di esserci stato e posso certificare di essermi goduto quello che è successo dopo, slurp, con una crescente entusiastica incredulità. Essendo rimasto settato su Inter-Monza, tutte le successive partite sono state belle, bellissime, straordinarie, clamorose. A parte Napoli, vabbe’, dove è chiaro che se avessimo schierato chiunque al posto dell’amico Gaglia in versione Fil Rouge di Jeux sans Frontières (“atterra quanti più avversari in un minuto usando solo le gambe”) l’avremmo sfangata e forse, chissà, avremmo pure vinto e sarebbero state 12 su 12. Forse fin troppo, meglio restare sottotraccia: e quindi grazie Gaglia per questo bagno di umiltà.

Nelle ultime 12, vincendo come noi la Coppa nazionale, il Manchester City ne ha vinte solo 9 (due pareggi, una sconfitta). Quindi, cazzo, loro saranno anche la squadra più forte del mondo, ma noi non siamo mica degli straccioni pervenuti alla finale a colpi di botte di culo. Arriviamo a Istanbul avendo vinto 11 delle ultime 12 partite, affrontando tutte le prime otto del nostro campionato. Quegli sfigati invece hanno perso con il Brentford, dai. Che essendo una squadra di un distretto di Londra ed essendo una quasi neopromossa è a tutti gli effetti una specie di Monza. Solo che noi con il Monza abbiamo perso 13 partite fa, in un’altra era, l’A.M. (avanti Monza). Nel D.M. (dopo Monza) siamo un’altra cosa. Questo è giusto che il City lo sappia. E’ onesto farglielo sapere. Si chiama fair play.

Mancano cinque giorni e saranno lunghi. Ma se posso darvi un consiglio, non pensate troppo ad Haaland o De Bruyne o Foden o (seguono altri dieci nomi). Pensate a noi che dopo Inter-Monza (a parte Napoli, dove abbiamo schierato Hulk Hogan a centrocampo) non abbiamo più sbagliato un colpo. Pensate a Torino-Inter, una partita che sembrava dovessimo devolvere in nome di un turnover selvaggio (circolavano i nomi più disparati, qualcuno mai sentito prima) e invece no.

Quando ho visto entrare in campo un’Inter quasi titolare, ho avuto un brivido. Ho pensato all’Nba e a Denver, che si è riposata 9 giorni più degli avversari costretti a giocare 7 partite in semifinale. Un periodo talmente lungo, parametrato ai ritmi dell’Nba, che molti temevano facesse più male che bene. Temevano che, più dei benefici del riposo, pesasse la ruggine dell’inattività. Rust, ruggine. Per “soli” 9 giorni senza giocare.

Ecco, aver vinto a Torino mettendo tutti in campo è stata una mossa intelligente. Niente ruggine in testa. Meglio giocare. E meglio vincere. Ehi City, noi ne abbiamo vinte 11 delle ultime 12. Tu hai perso col Brentford, vergognati. Sappiamo che vi state cagando addosso. Beh, fate bene.

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Vent’anni

Questo blog ha compiuto in questi giorni 20 anni. Si, li ha già compiuti e non l’ho detto a nessuno. Anche perché tra cambi di piattaforme, disordine fisiologico e idiosincrasia per le celebrazioni, una data precisa così su due piedi non ce l’ho. Di sicuro è dopo il 13 maggio 2003 (Inter-Milan, ritorno della semifinale di Champions) e prima del 28 maggio 2003 (finale di Manchester, ricordo che scrissi qualcosa di quella partita che avrebbe potuto essere un’Inter-Juve e invece era un Milan-Juve, e di quei drammatici rigori – cinque errori su dieci – che diedero un senso a 120′ minuti orribili che mi ero sorbito sospirando per ciò che non era stato). Dev’essere stato lì nel mezzo, tipo il 18, il 19, il 20, giù di lì. Non ricordo la data ma il mood sì.

Lo spunto emotivo per aprirlo fu proprio la struggente piega presa dalla storia di quell’Inter moratto-cuperiana. Qualche giorno dopo l’incrocio malefico tra il tiro di Kallon e lo stinco di Abbiati, pigiai il tasto invio sulla piattaforma Splinder. Il nome l’avevo scelto complicato e inequivocabile: il mio biglietto del 5 maggio 2002, stadio Olimpico in Roma. Non ricordo la data, ma il mood sì, altroché. E nello scimmiottare le denominazioni e gli header dei siti “veri”, mi inventati la formuletta – sito non ufficiale dell’interismo moderno – che spiegava tutto in una quarantina di battute: niente severgninismi, basta barzellette, a nessuno qui piace perdere e soffrire, prima o poi ne usciremo.

Ne sono seguiti vent’anni di Inter piuttosto mossi, diciamo così. Per sommi capi: la pura frustrazione, lo scandalone che ha rimesso le cose a posto, la Juve in B, cinque scudetti di fila, Mourinho, la Champions, il Triplete, il Mondiale per club, Moratti figlio che replica il Moratti padre, il declino (eufemismo), due cambi di proprietà, la rinascita, lo scudetto, il ritorno nella crema d’Europa, la finale di Champions più inattesa della nostra lunga storia. E’ stato tutto un riannodare di fili e una chiusura di cerchi. Il blog ha cambiato veste, nome (il biglietto di Madrid), logo (semplificato, tanto tutti mi chiamano Settore), umore, focus, frequenza (la vecchia / è stanca / e non ce la fa più). Resiste alle mode (il blog è totalmente fuori moda, diciamolo) perché ci sono affezionato. Resiste alle pressioni (scrivi poco / scrivi troppo / hai rotto i coglioni / ma scrivi solo di Inter? / e questo che cazzo è? Scrivi di Inter, va’ / non hai più voglia / ma quanto ti pagano? / cartonato, prescritto, gnegnegne) perché ci sono affezionato. Ecco, sì: ci sono affezionato, gli sono grato, sono stati vent’anni piuttosto mossi anche per me. Con il blog, per il blog. Grazie al blog.

Ho evitato l’argomento dei vent’anni perché la coincidenza si prestava a scaramanzie clamorose. Mi sono chiesto: posso dire che questo blog compie vent’anni nei giorni del derby 2023 di Champions e che l’avevo aperto nel 2003 per eleborare il lutto di una semifinale di Champions persa (senza perdere) proprio con il Milan. No, meglio che non lo dica. Poi ho pensato anche al colpo di teatro, tipo la Pennetta che vince lo Us Open e si ritira: se passiamo il turno, a compimento di vent’anni di accidentato percorso, scrivo un post, poi premo il tasto dell’autodistruzione e mi perdo nell’etere.

Ma poi ho anche pensato che la storia continua, e dal mio cantuccio estremamente periferico la voglio ancora raccontare, comunque vada, finché ne avrò voglia, finché l’affetto preverrà sulla stanchezza e sul semplice gesto di scendere e lasciare andare il blog alla deriva, ultimo post tot di giorni fa, che fine avrà fatto Settore?, boh, si sarà stufato, sarà diventato juventino, sarà morto, vabbe’, omnia transit.

In fondo, sarei qui oggi se Kallon avesse tirato un pochino meglio, o se Abbiati fosse stato piazzato un pochino peggio? Cosa sarebbe successo all’Inter, e cosa a me? Ho come l’impressione che la storia sarebbe stata un po’ diversa, chissà, forse più brutta. E che la mia – il blog e tutto quello che ha comportato – forse nemmeno ci sarebbe stata.

Le nostre vite di povera sottospecie umana – i tifosotti di calcio, gentaglia borderline – sono da sempre scandite dalle partite. Ragioniamo per campionati, non per anni solari. Per domeniche, gironi, calendari assortiti, quadrienni mondiali. Abbiamo una parte del cervello che bascula tra San Siro e Appiano Gentile, non possiamo farci niente. Anzi, non vogliamo farci niente. E’ così e basta, ci è toccata in sorte ed è – mi piace sottolinearlo – un discreta fortuna. Prendete me, per dire: dopo vent’anni, fiumi di parole, migliaia di post, miliardi di battute, sono qui ad aspettare ancora una finale di Champions, un’eventualità che davo per quasi impossibile dopo il magico e irripetibile 2010. Siamo qui ad aspettare, come sempre. Aspettiamo la partita che arriva, come sempre. Tifosotti dentro, irrimediabilmente.

Non volevo scrivere una riga per celebrare: sarà il caso? porterà sfiga? ma chi ti credi di essere? a chi cazzo fregherà qualcosa? Però questa cosa dei vent’anni ha un suo perchè. Sono un interista tra gli interisti, un puntino nella marea nerazzurra che si sta prendendo il lusso di vivere un’avventura che pensavamo fosse roba destinata ad altri. Sono giorni che un giorno racconteremo, comunque vada. Perchè rinunciare a farlo in diretta, prima che i blog si estinguano come i dinosauri e i mangiacassette?

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Il Toro, gli Imboscati e il Grande bluffatore

La Coppa Italia ha due firme. Quella di Lautaro, che quatto quatto ha superato i 100 gol in nerazzurro (segnandone due da centravanti superlusso) e ha messo il sigillo esclusivo su un trofeo nell’anno migliore della sua carriera (in cui ogni anno è meglio del precedente). E quella di Simone Inzaghi, specialista delle coppe se ce n’è uno, settima da allenatore, la quarta all’Inter in due stagioni con una finale ancora da giocare (e volendo fare i puntigliosi dovresti aggiungere tre da allenatore della Primavera della Lazio, e altre sei da giocatore. E in fondo ha solo 47 anni).

Una Coppa sudata, perchè la Fiorentina ha dato l’anima, ci ha pressato, aggredito, le ha tentate tutte. L’ha persa essenzialmente perché è più scarsa di noi, ci ha offerto molte opportunità ma se n’è anche procurate parecchie. Un paio di chiusure difensive e una paratona di Handa valgono quanto i gol del Toro. L’abbiamo alzata con merito, dopo esserci calati in una partita senza sconti sul piano dell’agonismo e del sacrificio. E’ stata in questo senso una buona prova generale in vista di Istanbul: le finali sono queste, sporche e ansimanti, ed è evidente che dovremo alzare il livello – insomma, togli Castrovilli e metti De Bruyne, togli Cabral e metti Haaland, togli questi e metti quelli là, insomma, ci siamo capiti.

E a proposito di togli e metti, chissà se anche a Istanbul, nel momento più caldo della partita, Inzaghi farà la mossa che a lui viene naturale e che ogni volta getta nel panico – un panico profondo, rabbioso, ricco di interrogativi – qualche milione di interisti:

togli i due migliori, metti Correa e Gagliardini.

Perché lo fa? Se fosse Mourinho, penseresti alla pura provocazione o al messaggio (poco) trasversale: le vinco anche con questi due, li metto apposta per farvi incazzare. Ma Inzaghi non è Mourinho. E’ un buono. E a meno che un giorno non si scoprirà che è totalmente bipolare, non resta che pensare che lui a questa mossa creda profondamente. Per il 75% è obbligata (Correa entra per forza nelle rotazioni d’attacco, non è che ne abbiamo dieci), ma nel 25% ci deve essere un’architettura di pensiero che andrebbe analizzata.

Perchè il punto non è tanto: metto Correa e poi forse Gagliardini, o viceversa, o magari anche no. Il punto è che, in un determinato momento e con ancora tanto (a volte troppo) da giocare, lui mette Correa e Gagliardini. Insieme, together, ensemble, juntos, zusammen.

Nella finale di Coppa Italia, con la Fiorentina che premeva, con la squadra già sufficentemente in difficoltà, con 8 minuti più 5 di recupero da giocare, lui toglie i due migliori in campo e li sostituisce con Correa e Gagliardini. Nella finale di Coppa Italia, con il risultato ancora in bilico e gli avversari in pieno forcing (quindi, voglio dire, un golletto lo potevano anche fare), tu togli i due migliori in campo che sono anche due dei tuoi tre migliori rigoristi e metti Correa e Gagliardini.

E’ stato in pura teoria uno dei doppi cambi più peggiorativi della storia del calcio. L’Ifssh riporta rari esempi di situazioni del genere. Pare che nel 1998 in Uruguay, in un match di serie C, l’allenatore inserì nel finale due giocatori che si erano ubriacati durante l’intervallo bevendo del mate corretto con la sgnappa, mentre in Lettonia nel 2003 per un errore nella compilazione della distinta una squadra di serie B schierò nel finale il magazziniere e l’autista del pullman per sostituire due infortunati.

Incredulo – no, lo ha fatto ancora! Perché? – ho smesso di seguire la partita vera per guardare quei due, solo loro. In pratica, mi è partita inconciamente la Correa-cam e la Gaglia-cam.

E’ stata un’esperienza orribile.

Correa, vabbe’, ha avuto il solito impatto sulla partita: mi ricorda quelli che a militare si imboscavano. Gagliardini, invece, si è superato. E’ l’Arturo Brachetti del calcio. A Napoli entrava a corpo morto su ogni pallone e ogni avversario gli capitassero a tiro, che Bruce Lee al confronto era Ironside. A Roma ha accuratamente evitato ogni contatto con il pallone e con i giocatori viola. A un certo punto la palla gli ha sbattuto contro: non so se avete notato, ma prima ha avuto un principio di svenimento, poi è andato dall’arbitro a discolparsi: giuro, non ho fatto niente.

Cioè, per 13 interminabili minuti abbiamo giocato in nove.

E forse adesso, a mente fredda, il disegno di Inzaghi mi appare in tutta la sua ambiziosa grandiosità. Battere la Fiorentina così, tout court, poteva avere un significato relativo. Batterla in nove, è un’impresa. Ed è un messaggio preciso al City. Mi sembra di vederlo, Guardiola, che tutto sudato assiste al finale di Inter-Fiorentina e si accorge che l’Inter aumenta le difficoltà, non si accontenta di vincere facile ma la vince difficile, sembra uno di quei giocolieri che partono con tre arance e finiscono che fanno roteare i cerchi a polsi, caviglie, collo e pisello. Al che chiama uno a uno i suoi e revoca i giorni di riposo: “Cazzo, questi ci fanno un culo così, domani doppia seduta e 700 giri di campo”.

Io Inzaghi lo stimo. Sembra un chierichetto, in realtà è un bluffatore patologico. A Istanbul farà scaldare Correa e Gagliardini dal primo minuto, Guardiola andrà in paranoia e per noi si apriranno scenari inimmaginabili.

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