Per distrarmi un pochettino mi piace pensare che il 15 maggio, cioè oggi, sia il primo mesiversario di Inter-Monza, che si giuocò il 15 aprile. E il 15 aprile fu (uso il passato remoto perchè in effetti, benchè sia roba di appena 30 giorni fa, sembra effettivamente un passato remoto) il momento di peggior sprofondo stagionale: l’undicesima sconfitta (su 30 partite) e il quinto posto in campionato destinato poco dopo a diventare sesto per la penalizzazione tolta alla Juve, i ritorni dei quarti di Champions e della semifinale di Coppa Italia da giocare nel giro di qualche giorno, lo sbando totale non tanto loro – allenatore più giocatori – quanto nostro.
Lo sbando di noi tifosotti, intendo: sbalorditi di fronte alle cifre negative, sbalorditissimi di fronte all’ancora apertissimo futuro extra-campionato da affrontare a breve, ultrasbalorditissimissimi nel considerare che a precipitare in campionato ma a potersi giocare l’ingresso in finale di Coppa Italia e (ancora di più) a essere con un piede e un paio di dita già in semifinale di Champions era la stessa squadra che si faceva scherzare da Caldirola sotto i miei occhi e il mio culo appoggiato a un seggiolino del secondo blu.
Ecco, volendo andare al cuore della questione odierna, il problema è che il 15 maggio è anche la vigilia del 16 maggio, e il 16 maggio si gioca il ritorno di una semifinale di Champions di cui abbiamo vinto l’andata 2-0 in trasferta. E qui c’è poco da essere scaramantici: è come giocare un match point sul tuo servizio con l’avversario che ha un principio di lombalgia. Noi tutti vorremmo vedere risolvere la cosa nel più breve tempo possibile, chessò, un servizio a 220 km/h che lascia di stucco l’avversario e rimbalza fino alla prima fila delle tribune dove porta via il cappello alla duchessa di Kent, ma la palla è rotonda e come nel tennis c’è il braccino nel calcio c’è il gambino. Non è questione di scaramanzia, ma di anima, cuore, piedi e testicoli. Vedremo domani sera. Adesso siamo qui ad andare avanti e indietro nei nostri corridoi mentali, come fossimo tutti davanti a una sala parto.
Però, ragazzi/e, non è bellissimo? Io credo che nemmeno un interista che avesse scambiato (e bevuto) un bicchiere di assenzio scambiandolo per acqua e menta avrebbe mai immaginato una roba del genere. E non parlo solo di inizio stagione, ma anche solo di un paio di mesi fa, diciamo fino alla mattina del 17 marzo, sorteggio Uefa, quando il riallineamento degli astri calcistici (leggasi gigantesca botta di culo) ci ha aperto un’inattesa via teorica verso la finale di Champions. Certo, c’era da eliminare il Benfica e poi la vincente di Napoli-Milan, ma ci pensate che nel frattempo abbiamo già fatto tre passi su quattro e il quarto dipende soprattutto da noi?
E quindi grazie, grazie per questo nervosismo che ci avviluppa i cervelli e le palle, grazie per questa attesa che ci divora, grazie per questa ansia che stanotte ci farà sognare Calabria e Saelemaekers. E’ sempre meglio esserci, in queste occasioni, che fare da spettatori alle vigilie degli altri. E’ la nostra vigilia. Viviamola con serenità: sono quelle cose che capitano una volta ogni tot, e oggi è quella volta. Forza Inter.
Sarà stato tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio: una sera pigio il tasto Invio e prenoto una vacanza di cinque giorni agli inizi di maggio, sciccosamente fuori stagione. Nei cinque giorni era compreso un fine settimana: guardo il calendario, Roma-Inter, vabbe’, me ne farò un ragione. All’epoca della prenotazione l’Inter era serenamente seconda in campionato a tremila punti di distacco dal Napoli e fissare quei giorni di vacanza mi era sembrato quasi doveroso, una specie di pausa ritempratrice prima del finale di stagione. La Champions nemmeno la consideravo, ovviamente. La Champions a maggio, tzè.
Poi succede che l’Inter passa gli ottavi e poi anche i quarti. A quel punto, l’evidenza che quella vacanza iniziasse un sabato 6 maggio e finisse un mercoledì 10 maggio aveva assunto un risvolto sinistro. Ho sudato freddo fino all’ufficializzazione delle date. E il fatto che l’andata dell’Inter sia stata fissata il mercoledì (giorno del rientro dalla vacanza) l’ho considerato il primo segno positivo.
Il secondo segno positivo è stata l’elongazione di Leao.
Restava un enorme punto interrogativo sul ritorno a casa di mercoledì, giorno della partita. Perchè il problema è che non ero in vacanza, chessò, a Rapallo ma in Giordania, e il volo Amman-Milano era sì schedulato per un comodo arrivo a metà pomeriggio a Malpensa, ma vatti a fidare dei mediorientali, figuriamoci, chissà quando cazzo arriverò davvero, ammesso che mi facciano partire. Già mi vedevo coricato sul tapis roulant dei bagagli mentre cerco di aprire Prime sul telefonino. E invece, toh!, l’aereo è atterrato con 35 minuti di anticipo, una roba epocale, una specie di salto in lungo di Bob Beamon. E questo, come potevo non considerarlo come un gigantesco terzo segnale positivo?
Cioè, praticamente i due gol nei primi undici minuti li ho serenamente incassati come il normale corso delle cose, bene instradato dai tre segnali positivi di cui sopra. Vabbe’, serenamente è un ingenuo eufemismo. Al 2-0 (palla conquistata, ripartenza, cross, velo, inserimento centrale, tiro, gol: no, fate voi) ho iniziato a zompare intorno al divano come Peter Gabriel quando cantava “Shock the monkey”, per poi abbracciare lo schermo in cui comparivano i nostri tutti abbracciati, leccandolo anche per brevi ma significativi momenti.
Dalla sciagurata partita col Monza del 15 aprile ne abbiamo giocate sette (4 in campionato, 2 in Champions e 1 in Coppa Italia) vincendone sei e pareggiandone una (già vinta), segnando 20 gol e prendendone 4 (3 dal Benfica, ininfluenti). Il poderoso primo tempo col Milan certifica che, in maniera e in dimensioni totalmente inaspettate – dopo Inter-Monza, non avrei giocato sui nostri prodi neanche un euro alla Snai -, l’Inter sta attraversando il suo miglior momento stagionale nel momento del massimo bisogno e quando tutto sembrava orrendamente in bilico. Ha rimontato in campionato, guadagnato una finale di Coppa Italia e vinto in trasferta la semifinale d’andata di Champions subito dopo aver toccato il fondo, e questa è una cosa clamorosamente eccitante.
Il derby d’andata di Champions, con un Milan allo sbando per una mezz’ora meravigliosa, sarebbe stato perfetto se l’avessimo vinto 4-0, come potevamo. O almeno 3-0, con il meraviglioso non-gol di Calhanoglu, la sua vendetta definitiva. E quando il Var ci ha tolto il rigore, il turco era già là sul dischetto a posizionare il pallone e io a quel gol – avrebbe segnato di sicuro, sfondando la rete – mi sarei rotolato in soggiorno come Don Lurio (o come Peter Gabriel in “Shock the monkey”, mi pare di ricordare che oltre a zompare a un certo punto rotolasse, sennò niente, vada per Don Lurio).
La storia di questo derby di Champions è scritta solo per metà. A scrivere di gioie epiche o di irrimediabili apocalissi ci penseremo tra sei giorni. Prima no, è tutto molto prematuro. Peccato, con il 3-0 o il 4-0 saremmo stati un pelo più tranquilli. E ci saremmo risparmiati anche il pianto di Pioli: “Fino al settimo minuto l’Inter non era mai entrata nella nostra area”. Certo, glissa pure sui restanti 83 più recupero, in cui ci siamo entrati in modalità “questa casa non è un albergo”. E poi: “L’arbitro ha avuto una gestione da due pesi e due misure nelle situazioni metà e metà, ma non entro nello specifico”. Ecco, bravo, non entrare nello specifico. Ci si vede martedì, quando spero che nello specifico ci entreremo noi.
Secondo una recente ricerca di una équipe di scienziati dell’Università “C. Norris” del Nebraska, vincere un tot di volte aumenta le probabilità di guadagnare punti sui competitor, così come perdere un tot di volte aumenta le probabilità di farsi staccare. Mentre leggevo di questo studio sull’ultimo numero di Farlock Human Nature, pensavo alle alterne vicende della squadra che seguiamo con una discreta passione – l’Inter – e a quanto la sua storia recente si attagli a questa così illuminante ricerca. Fare un punto in cinque partite ci aveva fatti precipitare dal secondo al sesto posto, con tendenza sprofondo; farne nove in tre partite (una semplice serie di tre vittorie di fila che può capitare anche alle squadre più scrause) ci ha riportato più o meno dove eravamo – certo, se non avessero nel frattempo restituito tipo 15 punti a una società di dubbia moralità.
Gli scienziati del Nebraska avranno senz’altro preso nota di quante cose possono capitare nel giro di tre partite, 10 giorni appena. Intanto, la squadra – sempre l’Inter – che sembrava non segnare più nemmeno a porta vuota in queste tre partite ne ha messi 12. E poi, appunto, con 9 punti in tre partite (solo l’Atalanta, mannaggia a lei, ha tenuto lo stesso passo), quindi in soli 10 giorni, ha recuperato 4 punti al Milan, 5 alla Juve, 6 alla Lazio e 7 alla Roma.
Curiosamente, nella sarabanda di partite e scontri diretti per la Champions 2024 (in attesa, savasandìr, di giocarci la Champions 2023 mercoledì) (no, dico, siamo ancora qui a parlare di Champions – proprio oggi che è il 5 maggio), ci tocca quella che tra le competitor è la più in crisi, due pareggini nelle ultime tre, qualche segnale di sfaldamento da prendere con le pinze (parliamo della squadra più ciclotimica del campionato), Mourinho sulla loro panchina (una robetta a cui abbiamo fatto l’abitudine).
Gli studiosi del Nebraska, in un altro interessante studio, avvertono che per continuare la scalata in classifica è meglio non perdere e, possibilmente, vincere. Tra l’altro, in una ricerca di qualche anno fa, avevano esaminato anche il tema “Semifinali di coppa calcistica: che fare (soccer cup semifinals best practice)”, giungendo alla conclusione che è meglio non perdere in trasferta e poi vincere in casa. Ho mandato una mail a info@norrisnebraska.edu ponendo la questione che quest’anno in Champions League giocano due squadre della stessa città nello stesso stadio. Pare che all’équipe di scienziati gli si sia fuso il pc.
La grafica delle statistiche finali di Inter-Lazio sembra un copincolla di quelle di Spezia-Inter e di tutte le altre partite del genere “Spezia-Inter”, quelle dei 25 tiri tuoi, dei 50 cross tuoi, del 60% di possesso tuo e delle vittorie loro. E invece stavolta abbiamo vinto noi. Con tre gol su azione. Tornando a segnare a San Siro in campionato dopo quasi due mesi. Contro la seconda in classifica, la miglior difesa del campionato (insieme al Napoli) e soprattutto la squadra che nelle ultime 9 partite aveva fatto 22 punti contro i nostri 10, uscendo dal nostro orizzonte domenica dopo domenica fino a diventare apparentemente irraggiungibile dopo averla lungamente tenuta dietro. La Lazio, nel corso del nostro blackout, era stata la squadra ad avere corso di più.
E insomma, la vittoria è fortemente simbolica. Una vittoria in rimonta, contro la Lazio e contro la sfiga, quella di aver pagato all’istante il primo errore della partita e di vedere sfumare una a una le occasioni che ti stavi procurando. E non erano occasioni generiche, tiri ad minchiam, cross alla cazzo, utili solo a ingrassare le statistiche (e i nostri fegati). Erano il frutto dell’ottima partita che stavamo facendo.
Inter-Monza l’abbiamo giocata 15 giorni fa, sembrano due mesi. Dopo Inter-Monza – da lì in poi potevamo solo iniziare a scavare – abbiamo giocato e “quasi vinto” (Inter-Benfica la considero vinta) 4 partite in 12 giorni, conquistando la semifinale di Champions, la finale di Coppa Italia (contro la Gobba, andata poi in crisi di nervi) e dando una sistemata alle cose in campionato, dove sembravamo destinati a giocarci tuttalpiù la Conference.
Questa è l’Inter che preferiamo. Detta così sembra una cazzata: a Setto’, e grazie ar cazzo! Però, parlando dell’Inter di quest’anno, non c’è niente di scontato, neanche una considerazione come questa. Oggi un’altra Inter, una delle varie che abbiamo conosciuto durante la stagione, sotto di un gol dopo averle provate tutte (e, lo risottolineo, averle provate bene: il gol annullato non era frutto di un’azione meravigliosa?), poteva andare in depressione e involversi a vista d’occhio. Anzi, a un certo punto ha rischiato lo 0-2, che sarebbe stata una beffa oltre ogni limite.
E se fosse stato proprio quel goffo scivolone di Acerbi (uno dei nostri inattesi uomini-simbolo, incappato in un primo tempo da incubo) il gesto che dà una svolta alla stagione? Evitato grazie a un po’ di culo quello 0-2 che avrebbe ucciso un toro, l’abbiamo ribaltata e stravinta, come giusto che fosse. Oggi tutti festeggiamo Lautaro, un ritrovato Brozo, un Lukaku tornato lui giocando 90′, un Barella ovunque, un Gosens tipo Enrico Toti, eccetera. Ma oggi siamo anche tutti un po’ Acerbi: scivolati e rialzati, siamo andati a vincere alla faccia di tutti, anche delle zolle flosce e dei gufi multicolor.
Questa stagione sembra un videogioco: tra una vita e l’altra che perdi (in campionato), ogni tanto superi un livello e in quello successivo ti si presenta qualche nuova difficoltà inserita in uno scenario spaventoso. E la soddisfazione per il livello superato dura il tempo che ti si carichi la nuova schermata: ti aspettano nuove prove, sempre più complicate, hai finito i bonus e, insomma, sono cazzi.
Tipo che al fischio finale di Inter-Benfica, invece di fare un carosello intorno al divano cantando un pezzo di Amalia Rodrigues, ho avuto una crisi isterica e mi sono messo a pigiare F5 sul nostro calendario al ritmo di 120 pigiate al minuto, in attesa – breve – che venissero inserite le due partite col Milan, semifinale di Champions, una roba pazzesca, 20 anni dopo quella clamorosa enculada che non ho mai digerito del tutto. Risultato: la serie delle partite ogni tre giorni, iniziata l’1 aprile, si protrarrà fino al 21 maggio. Nei prossimi 30 giorni ne giocheremo 9, di cui 2 con il Milan e 1 con Juve, Lazio, Roma e Napoli (e altre sono Empoli, Verona e Sassuolo). Roba da andare giù di testa, pum!, e desiderare che tutto questo finisca al più presto o che magari non finisca più, questo ce lo dirà la Storia.
Si riduce al minimo il tempo dei festeggiamenti per la qualificazione, per i tre gol segnati su azione, per l’ennesima bella partita di coppa in contrasto con le ciofeche di partite che da mesi inanelliamo in campionato. C’è da pensare al Milan, ma prima anche a Empoli, Juve, Lazio, Verona e Roma, perchè questo calendario da paura ci costringe a giocare cinque partite prima del derby e ad affrontare questioni assai serie, cioè la sfida di Coppa Italia e la tregenda del campionato dove siamo in caduta libera.
Ecco, dovremmo stare tutti qui a berci delle birre per festeggiare un traguardo che nemmeno il più lisergico tra noi avrebbe immaginato, e invece incombono ben altri pensieri. Da qui in poi sono tutte semifinali, a cominciare da Empoli. Vere o presunte, reali o immaginarie, abbiamo un mese di semifinali da giocare. Ed è un pensiero così pesante che quasi faccio fatica a ricordarmi gli highlights di Inter-Benfica. Giurerei di aver visto Correa saltare un uomo e segnare con un tiro a giro, ma sarà stata una di quelle allucinazioni che ti possono prendere quandi fai F5 sul calendario e ti appare l’apocalisse. Forza Inter, verso l’infinito e oltre.
Una delle mie figlie, la più giovane, uscendo dallo stadio a un certo punto mi dice due cose: che non aveva mai visto una partita così brutta e che non aveva mai visto perdere l’Inter dal vivo. Su entrambe le affermazioni avrei qualcosa da ridire (soprattutto mi sembra strana la seconda: secondo me semplicemente non si ricorda, anche se alla sorella maggiore – spesso le ho portate a turno, alternate – è sicuramente andata peggio, mi ricordo ai tempi di Zaccheroni sconfitte orripilanti tipo Brescia, Udinese, robe così, poverina), ma di certo di Inter-Monza 0-1 conserverà l’imperituro ricordo che si tributa ugualmente alle imprese o alle contro-imprese, “Inter-Monza, io c’ero”, lo racconterà ad amici, parenti, colleghi, figli, nipoti, bis-nipoti, “pensa che una volta ho visto il Monza vincere a San Siro” e i nipoti le diranno “sì, occhei, nonna, vabbe’, certo”, ammesso che tra qualche decennio questo sport sia ancora di moda o si giochi solo in qualche enclave in giro per il mondo – chessò, il Brasile, la Catalogna, l’Inghilterra, Monza.
Dopo Inter-Monza, e dopo l’undicesima sconfitta in 30 partite di campionato (un punto nelle ultime cinque), parlare delle due Inter di quest’anno, quella della serie A e quella delle coppe, ormai è quasi banale. Andando allora alla ricerca di un argomento più sfizioso, e peraltro assolutamente oggettivo, possiamo invece iniziare a chiederci com’è possibile che la stessa Inter di Inter-Monza sia una squadra che oggi (dopo una larga vittoria in trasferta nell’andata dei quarti, e con uno scontro tutt’altro che impossibile nell’eventuale semifinale) ha un fottuto 50 per cento di probabilità di giocare la finale di Champions. Nemmeno l’Inter di Mourinho, tra l’andata e il ritorno dei quarti del 2010, poteva vantare aspettative così elevate, sapendo che tra il dire e il fare c’era di mezzo il Barcellona – quel Barcellona, you know, Messi, Iniesta, Xavi, Ibra ecc. ecc.
Sembra impossibile, eppure è così. Del resto sembra impossibile aver visto giocare l’Inter in un certo modo a Lisbona il martedì e averla vista giocare poi a Milano con il Monza il sabato. Averla vista imporsi in trasferta e averla vista vivacchiare in casa in attesa di un gol che poteva arrivare più che altro per caso, e infatti non è arrivato.
Per trovare due Inter così drammaticamente diverse bisogna tornare alla stagione 1993/94 in cui vincemmo la Coppa Uefa rischiando di retrocedere. Quella Coppa Uefa (niente gironi, era ancora la magica era degli scontri diretti dall’inizio alla fine) non è paragonabile alla Champions di oggi. Alle porte della semifinale quest’anno ce la siamo già vista con Bayern, Barcellona, Porto e Benfica, mentre in quella Coppa Uefa vinta con il doppio confronto in finale con il Salisburgo (no dico, Salisburgo) passammo i vari turni con Rapid Bucarest, Apollonia Limassol (soffrendo a Cipro e anche un po’ in casa), Norwich, Borussia Dortmund (vincendo là e perdendo a San Siro) e Cagliari in semifinale (perdendo in Sardegna). Tutt’altro calcio, certo, ma diciamo che non fu un cammino immacolato. Alzammo la coppa dopo una tormentatissima partita a San Siro in cui Jonk segnò il gol decisivo e Zenga, alla sua ultima con noi, fece i miracoli.
A guardare la classifica di quel campionato, invece, ancora vengono i brividi. Fu il peggiore dell’Inter dall’introduzione del girone unico. La serie A era a 18 squadre e la vittoria valeva ancora 2 punti. In 34 partite l’Inter fece 31 punti (11 vittorie, 9 pareggi, 14 sconfitte), perdendo 9 delle ultime 13, una serie nerissima iniziata con la sconfitta in casa con la Lazio che costò l’esonero a Bagnoli (eravamo quinti, zona Uefa, e quella domenica la Lazio ci superò). Squadra affidata a Marini, che può dunque vantare il record di aver chiuso il campionato con 8 sconfitte su 12 partite ma di avere vinto la Coppa Uefa. Ci salvammo matematicamente un venerdì sera, in un anticipo a San Siro con il Lecce vinto 4-1. Seguirono altre sconfitte: finimmo quintultimi con 31 punti, il Piacenza retrocesse con 30.
Non so se riusciremo a fare peggio di quell’anno. Questa Inter, per fortuna, ha vinto parecchio e pareggiato poco, ed è l’unica spiegazione matematica al fatto che nonostante questo sfacelo siamo ancora lì a giocarci un posto per la Champions. Sul fatto che nelle 8 partite che restano dovremo affrontare Lazio, Roma, Napoli e Atalanta vabbe’, dai, un problema per volta. Parliamo del presente. Parliamo di Inter-Monza e di Inter-Benfica.
Oggi, un servizio tv su Inter-Monza mi ha regalato un particolare che ovviamente allo stadio non potevo cogliere: le facce dei nostri mentre entrano in campo con i bambini per mano. Fossi stato a casa, penso avrei girato per vedere Sinner o il Cantante mascherato. Purtroppo allo stadio la faccia-cam non ce l’avevo e sono rimasto sul pezzo, sperando che prima o poi – chessò, la spizzata di uno stinco di Izzo – un golletto lo avremmo fatto. Oddio, quell’ossessionante sotto-ritmo con cui abbiamo giocato, e quella sistematica rinuncia a provare un contropiede quelle rare che ci era aperto il campo davanti un sospetto me lo avevano fatto venire. Tipo che sarebbe finita 0-0. Sono un tipo ottimista.
La domanda è quindi: perché? Abbiamo rinunciato al campionato per guadagnarci l’accesso alla prossima Champions vincendo questa? Oh, il progetto è affascinante, anzi, mi piacerebbe proprio un casino, ma lo vedo un pochino più rischioso che battere Spezia, Salernitana e Monza e mettere del sano fieno in cascina. E chi decide questa mosceria in campionato? Escludendo che sia l’allenatore (“Oh ragazzi, oggi fate cagare, mi raccomando!”), quindi sono i giocatori. E perché? Stanchi, forse. Stressati, forse. Concentrati su cosette più eccitanti di Inter-Monza, ci sta. Stufi di stare a Milano, beh, può darsi. Però lo stipendio lo incassano con regolarità e potrebbero prendere con un po’ più di serietà l’impegno di portare avanti tre competizioni, circostanza che a metà di aprile possono concedersi in pochi in tutta Europa.
Non so se all’Inter oggi ci sia un’autogestione tecnica, come ogni volta in cui l’allenatore per una ragione o un’altra inizia ad assumere le sembianze del morto che cammina. Di sicuro, c’è un’autogestione emozionale, per non dire morale. Gente che attacca o stacca la spina a seconda del momento o del palcoscenico o del bioritmo. Risultato: in campionato, un punto nelle ultime cinque. Ed erano cinque partite in cui si potevano fare 13 punti, non 1.
C’è poi il problemino che non segniamo più, e purtroppo le attuali regole del gioco del calcio, sia pure stoltamente, continuano a premiare chi fa i gol invece che chi tira tantissimo, crossa tantissimo o fa tantissimo possesso palla con tantissimi passaggi laterali o all’indietro – lì sì che saremmo campioni del mondo. Dal 23 gennaio (Inter-Empoli) al 15 aprile (Inter-Monza), compresa Chanpions e Coppa Italia, abbiamo giocato 18 partite e segnato 17 gol, che è già allucinante di suo per un club che da anni ha il miglior attacco o il vice-miglior attacco della serie A. In queste 18 partite, per 7 volte non abbiamo nemmeno segnato. Evito di ricordare da quanto tempo non segnano su azione (nell’ordine) Lukaku, Correa, Dzeko e Lautaro, perchè non voglio rassegnarmi a considerarla solo una sfortunata congiunzione astrale che chissà quando mai ricapiterà.
Siamo in queste pietose condizioni (con un campionato da salvare e una semifinale drammatica di Coppa Italia contro i gobbi) e abbiamo il 50 per cento delle probabilità di giocare la finale di Champions. Un giorno parleranno di noi i libri. Se di storia del calcio o (temo) di psicopatologia criminale, lo vedremo nel prossimo mese e mezzo. Con serenità (faccino ironico).
Su che base parlare dell’Inter senza timore di essere smentiti tra una partita e l’altra, di giorno in giorno, forse anche di ora in ora? Qui siamo oltre il concetto di pazza Inter, anzi, siamo su un altro piano. Cioè siamo noi tifosotti che rischiamo di uscire pazzi, costretti a pensare tutto e il contrario di tutto a stretto giro, a dare per finiti o per ammutinati giocatori che risorgono la volta dopo, a prostrarci riconoscenti davanti all’allenatore che abbiamo appena giubilato a colpi di hashtag e che invece sta progettando davanti ai nostri occhi e al mondo intero il più immaginifico percorso mai concepito per qualificarci alla Champions 2023/24: cioè da detentori, visto che in campionato faticheremo a conquistare un posto in Conference, o forse retrocederemo in B dopo uno spareggio con la Cremonese sul neutro di Fiorenzuola a metà giugno.
Ci eravamo lasciati a Salerno sull’orlo di una sommossa, di un suicidio collettivo, di un’abiura, di una disdetta di abbonamenti e canoni tv, di un appendimento definitivo di gagliardetti al chiodo. Quattro giorni più tardi siamo qui a riempirci gli occhi di grandeur futballistica, misurando il calibro dei testicoli dei nostri prodi e raccogliendo firme on line per il Pallone d’Oro a Bastoni, Barella, Onana, Acerbi, Mkhitaryan, Correa, forse anche per Cordaz. Anche un povero blogghe cosa cavolo si può mai inventare? Dovrebbe chiudere, cancellare la login e poi anche la password, ingoiare il bigliettino dove se le era appuntate, resettare il pc, formattarlo, venderlo su Subito.it, lanciarlo in strada come un frisbee, fonderlo nel microonde.
Potremmo catalogare tutto ciò come estremamente divertente, se solo potessimo congelare il momento e godercelo, invece che dover tornare alla realtà nel giro di qualche giorno e chissà quali procelle dovere ancora affrontare? Io, per esempio, ho comprato quattro biglietti per Inter-Monza. Ma perchè l’ho fatto, perchè? Che cazzo sto facendo? E soprattutto: che cazzo sta facendo l’Inter?
E di questa partita con il Benfica, alla fine, che dobbiamo mai dire? Che non vincevamo a Lisbona da mille anni? Che non abbiamo ancora preso un gol nella fase a eliminazione diretta, proprio noi che in campionato subiamo gol da chiunque – under 20, over 35, esordienti, sconosciuti, mezze calzette, crossatori falliti, chiunque? Che in Champions ci mettiamo miracolosamente tutta la concentrazione, la lucidità, la voglia, la garra che in campionato abbiamo rinunciato a usare come se improvvisamente non sapessimo di averle, o ci facessero schifo?
Se non fosse che questa vittoria a Lisbona apre scenari che nemmeno voglio immaginare, ci sarebbe quasi da incazzarsi. L’Inter di Lisbona applicata al campionato non avrebbe alitato sul collo del Napoli, invece di vederlo col binocolo? Non avrebbe scherzato con Juve, Lazio, Milan e Roma, invece che subirne i lazzi? Perchè debbo contemporaneamente soffrire per questa squadraccia di senza palle e bearmi per questo squadrone coraggioso e generoso, sapendo benissimo che sto parlando delle stesse persone e quindi non capendoci più una sega?
Siamo a un passo dalla semifinale di Champions e siamo a un passo dall’apocalisse in campionato. Ah, dimenticavo: siamo anche a un passo dallo scontro definitivo con la Juve in Coppa Italia, nel senso che ce la giocheremo tipo Orazi e Curiazi, a morsi e sputi e coltellate, fino a quando ne resterà uno solo. Siamo a un passo dalla neurodeliri. E’ spaventoso e bellissimo, probabilmente poco sano ma chi se ne frega, si vive una volta sola e bisogna approfittare di questa meravigliosa opportunità: essere interisti.
Se Edward Murphy e Antonio Candreva fossero stati contemporanei, oggi saremmo qui a parlare di un’altra legge (ormai tendo a esprimermi anche nella vita comune come Simone Inzaghi, e questo potrebbe portarmi verso uno sprofondo i cui confini faccio fatica a definire). A Salerno, dopo i soliti gol sbagliati nelle maniere più creative, era chiaro – lo era dall’inizio – che lo avremmo preso in quel posto. E fra tutti i modi possibili di prenderlo in quel posto, ce n’era uno, uno soltanto, che avrebbe potuto ferirci, danneggiarci e punirci più di ogni altro: un gol su cross sbagliato di Antonio Candreva.
Il cross sbagliato di Antonio Candreva è come il movimento Cassina di Igor Cassina: è una cosa ben precisa, codificata, unica. Candreva, come un miliardo di crossatori prima di lui, fa cross giusti e cross sbagliati. Ma è all’Inter che Candreva ha messo a punto il suo movimento Cassina, cioè il cross sbagliato di Antonio Candreva, il suo brand, ripetendolo quel tanto che bastava (sottolineo l’aggettivo, pronome, congiunzione e avverbio tanto) per dargli quella che a suo modo può essere definita una certa perfezione.
Quindi, quando un cross sbagliato di Antonio Candreva – oggi tesserato per un’altra squadra – si è andato a infilare nella nostra porta, mentre tutti guardavamo quella parabola pensando all’unisono “ma porca di quella puttana, non mi dire che”, hanno clamorosamente preso sostanza due leggi che ci affliggono da settimane, forse mesi: 1) se non chiudi la partita, essa sarà riaperta, e 2) se qualcosa può andare storto, esso lo farà.
Ci sarebbe poi una terza legge, che non ha ancora un nome, e che se andiamo avanti così ne avrà uno legato ai nostri colori: 3) cazzo, se non segni quei gol lì che li farei anch’io, ma vattene affanculo.
Ora, data per scontata la sussistenza di queste tre leggi, come la mettiamo con Lisbona?
La legge n. 1 e la legge n. 3 sono fortemente legate. Sarebbe una gran cosa – non so come, ma potrebbe accadere – se a Lisbona ci trovassimo in condizione di dover chiudere la partita, perchè vorrebbe dire che siamo andati in vantaggio. Mentre sarebbe una tortura vedere la squadra arrivare più volte a dare il colpo di grazia e non darlo mai, come ormai è diventata la regola in campionato. Ma qui, appunto, siamo nel campo della realtà, del tecnico, delle situazioni abituali.
La legge n. 2 ci pone su un altro piano, quello del paranormale.
Perchè tutti noi sappiamo che la Salernitana aveva un Candreva e Candreva aveva un suo movimento Cassina e – ma tu guarda che rogna – Candreva ha fatto il suo movimento Cassina alla perfezione contro di noi dopo averlo perfezionato con noi (insomma, mi sono spiegato). E tutti noi sappiamo che il Benfica ha un suo Candreva, che con noi ha perfezionato il suo movimento (il suo non-movimento) e che domani potrebbe fare il suo numero migliore contro la squadra più adatta per fare incazzare sette milioni di persone in un colpo solo.
(faccio un inciso. Qui mi sto dibattendo nel campo minato della scaramanzia. Meglio fare finta di nulla o meglio dire le cose come stanno con il rischio che poi ti dicano che hai menato una sfiga poderosa?) (scelgo la seconda, è più divertente).
Joao Mario è il David Copperfield del manto erboso. La differenza con Candreva è sostanzialmente una: Candreva ha messo a punto il suo numero a Milano, mentre Joao Mario lo ha studiato a Milano e completato a Lisbona. Da noi, Joao Mario spariva, ma poi non riappariva, gettando sconcerto tra di noi. Al Benfica, Joao Mario scompare e poi riappare al momento giusto, gettando sconcerto tra gli avversari.
In questo, a Candreva possiamo rimproverare l’ingratitudine ma non l’onestà intellettuale: lui una cosa la sa fare bene e l’ha fatta per la sua nuova squadra. Joao Mario invece si pone su un piano più subdolo: ci aveva fatto vedere metà del suo numero, la più sciapa, e adesso potrebbe farci vedere l’altra metà, quella che gli riesce bene dopo anni e anni di studio. Ce la potrebbe far vedere contro di noi.
Vabbe’, ho voluto disegnare questo scenario spaventoso per non pensare a un altro scenario ancora più spaventoso: quello di una squadra alla deriva, in caduta libera in campionato, con qualcuno che quasi gioca contro, con la Juve che quasi ci raggiunge senza che nemmeno gli serva la revoca della penalizzazione. In questo quadro, la prospettiva che dopo il movimento Candreva ci aspetti il movimento Joao Mario (una zampata dal nulla) la trovo a sua modo stuzzicante. Perversamente, soavemente stuzzicante.
Ma la scena di Lukaku che tira un rigore sotto la curva ospite e si becca del negro e della scimmia a ritmo di uh-uh-uh non l’avevamo già vista? Aspetta che guardo. Ah, sì.
Cagliari, 1 settembre 2019. Mancavano sei mesi alla pandemia ed eravamo tutti più felici. Poi noi interisti eravamo felicissimi perchè ci avevano appena comprato Lukaku. E Lukaku, alla seconda giornata di campionato, segnava un rigore decisivo. E la curva del Cagliari si era occupata di dargli il benvenuto alla prima trasferta in suolo italico.
Benchè questa roba facesse vomitare di suo, la cosa grave doveva ancora accadere. Due giorni dopo, il 3 settembre 2019, questo post fu post pubblicato sulla pagina Facebook “L’urlo della Nord” (me ne occupai qui, ma lo riporto integralmente perchè è bello rileggerlo insieme. Alla parola Cagliari – città – sostituite con Torino. Alla parola Cagliari – società sportiva – sostituite con Juventus):
Ciao Romelu
Ti scriviamo a nome della Curva Nord, si i ragazzi che ti han dato il benvenuto appena arrivato a Milano.
Ci spiace molto che tu abbia pensato che quanto accaduto a Cagliari sia stato razzismo.
Devi capire che l’Italia non è come molti altri paesi europei dove il razzismo è un VERO problema.
Capiamo che ciò è quello che possa esserti sembrato ma non è così.
In Italia usiamo certi “modi” solo per “aiutare la squadra” e cercare di rendere nervosi gli avversari non per razzismo ma per farli sbagliare.
Noi siamo una tifoseria multietnica ed abbiamo sempre accolto i giocatori provenienti da ogni dove sebbene anche noi abbiamo usato certi modi contro i giocatori avversari in passato e probabilmente lo faremo in futuro.
Non siamo razzisti allo stesso modo in cui non lo sono i tifosi del Cagliari.
Devi capire che in tutti gli stadi italiani la gente tifa per le proprie squadre ma allo stesso tempo la gente è abituata a tifare contro gli avversari non per razzismo ma per “aiutare le proprie squadre”.
Ti preghiamo di vivere questo atteggiamento dei tifosi italiani come una forma di rispetto per il fatto che temono i gol che potresti fargli non perché ti odiano o son razzisti.
Il razzismo è una cosa completamente differente e tutti i tifosi italiani lo sanno bene.
Quando dichiari che il razzismo è un problema che va combattuto in Italia, non fai altro che incentivare la repressione di tutti i tifosi inclusi i tuoi e contribuisci a sollevare un problema che qui non c’è o quantomeno non viene percepito come in altri stati.
Noi siamo molto sensibili ed inclusivi con tutti. Possiamo garantirti che tra noi ci son frequentatori di diverse razze e provenienze che condividono questo modo di provocare i giocatori avversari dell’Inter persino quando questi ultimi sono della loro stessa razza o provenienza geografica.
Ti preghiamo di aiutare a chiarire quello che realmente è il razzismo e che i tifosi italiani non sono razzisti.
La lotta al VERO razzismo deve cominciare nelle scuole non negli stadi, i tifosi son solo tifosi e agiscono in modo differente allo stadio e nella vita reale.
Stai certo che quello che dicono o fanno a un giocatore di colore avversario non è quello che direbbero o farebbero nella vita reale.
I tifosi italiani non saranno perfetti ma sebbene comprendiamo la frustrazione che ti possono creare certe espressioni, queste non sono utilizzate a fini discriminatori.
Ancora una volta …
BENVENUTO ROMELU
Essendo personalmente convinto che i problemi vadano risolti avvicinandosi quanto più possibile alla radice, è chiaro che ogni volta che si parla di razzismo negli stadi mi viene in mente questo post e vengo preso dallo sconforto. Questo post ci dice una cosa: che noi possiamo prendercela con un gruppetto di tifosi decebrati della Juve per quello che è avvenuto martedì sera nel finale della partita di Coppa Italia, ma dobbiamo anche sapere che la nostra curva – se c’è un minimo di coerenza di pensiero – darebbe ragione a loro e non a noi e a Lukaku. E allora niente, perchè parlarne?
Già, perchè? Beh, proviamo a parlarne in relazione agli arbitri. Lukaku ha ricevuto la seconda ammonizione per la sua esultanza dopo la trasformazione del rigore. A termini di regolamento, l’ammonizione ci sta: se un arbitro ritiene che l’esultanza sia provocatoria, deve ammonire. E io dico che un centravanti dell’Inter che si ferma sotto la curva della Juve a dire a tutti di stare muti, beh, un po’ provocatorio lo è. Ma un arbitro, anche (anzi, forse soprattutto) tramite i collaboratori, deve saper valutare il caso specifico. Se io a freddo trasformo un rigore e mando tutti affanculo, sono un provocatore. Ma se io trasformo un rigore tra gli ululati e dopo un quarto d’ora di scimmia di qua e negro di là, forse il provocato sono io. O no?
E proviamo a parlarne in relazione alla televisione. La Coppa Italia ci ha fatto ripiombare nel magico mondo di Mediaset, dove nessuno si è sognato per tutto il dopopartita di porsi il problema del perché dell’incazzatura di Lukaku, lasciando intendere (anzi no, dicendolo espressamente) che era nervoso per problemi personali e di squadra. Mentre scorrevano le immagini di Cuadrado che tira un pugno ad Handanovic (che nessuno faceva notare), dicevano di guardare bene perchè sembrava che Dumfries tirasse un calcio a qualcuno nella mischia. E’ un buon servizio alla verità? E’ normale tutto questo?
E proviamo a parlarne anche alla nostra comunicazione. Inzaghi che a domanda precisa parla d’altro no, non va bene. Inzaghi non va lasciato solo. A Inzaghi bisogna parlare prima che vada davanti ai microfoni. Inzaghi deve riordinare un secondo le idee e avere ben chiare le cose da dire. Bastava che usasse la parola vergogna, o condannasse l’accaduto. In generale, al di là della Juve, perché non è mica una cosa che avviene solo a Torino, per carità. Però tre parole dell’allenatore a partita appena finita avrebbero funzionato di più di un comunicato (giusto, doveroso) 12 ore dopo.
E poi, razzismo a parte (su cui non bisognerebbe nemmeno discutere, e invece ogni volta sembra di ripartire da zero), vorrei che l’Inter si occupasse di sistemare le cose con la Juve. La questione Lukaku e la questione Handanovic vanno affrontate forti di testimonianze audio e video. Non mi interessa quante giornate daranno a Cuadrado: mi interesserebbe vedere l’Inter che cerca di farsi rispettare. Tanto più se la controparte è la Juve, che con noi non deve abituarsi nè a giocare a volley nè a fare le risse tipo “Altrimenti ci arrabbiamo”. Ecco, sì: arrabbiamoci e basta. Con classe, eleganza, rispetto. Ma arrabbiamoci.
Il giorno che aboliranno la Juve sarà sempre troppo tardi. Nel mentre, potremmo iniziare a dare un senso alla nostra stagione abolendoli almeno dalla Coppa Italia 2022/23: un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’interistità. Voglio cogliere dal finale di Juve-Inter i primi segnali veramente positivi da Porto-Inter in poi: stavamo perdendo a Torino, con un gol di Cuadrado (il sesto gol che ci fa questo essere fastidioso) la terza partita stagionale su tre con i gobbi, una circostanza che poteva farci sprofondare nella depressione più assoluta. E non è successo. Perchè il giocatore che ci hanno fottuto sul mercato barando sui conti – il karma – ha fatto un fallo di mano ridicolo all’ultima azione della partita e toh!, in un attimo è cambiato tutto.
Così è finita in rissa, come l’altra volta, Cuadrado come Paredes, provocatori di bassa lega che in effetti sì, bisognerebbe menare se solo il regolamento lo consentisse. L’espulsione di Lukaku è tecnicamente giusta, segnare e dire alla curva avversaria di stare muti vale l’ammonizione. Meno tecnicamente giusto è dare della scimmia di merda e fare uh-uh-uh a un giocatore non caucasico: non sarebbe male se saltasse fuori anche questo, invece di farsi tante domande sul perchè Lukaku fosse così nervoso.
Così come andrebbe indagato cosa abbia fatto uscire di testa il nostro Handanovic, uno che nella scala della litigiosità è nello stesso girone di Padre Pio, Gandhi e Paperoga. Sarebbe stato bello vedere Samir lanciarsi a peso morto tipo John Cena sul guappo colombiano (il cui pugno destro guantato di nero sembra viaggiare verso la faccia del nostro capitano wrestler), ma il calcio ha delle regole che lo rendono un po’ noioso, a volte.
Anche noi, a proposito, un po’ lo siamo. Noiosi, dico. Il 61% di possesso palla a Torino contro la Juve è lodevole, ma la ragnatela di passaggi scontati non produce altro, appunto, che possesso. I guizzi arrivano ogni tot. Forse un giorno, quando la ruota girerà, i guizzi random basteranno e avanzeranno. Oggi no. E sono 500 minuti che non facciamo un gol su azione.
Segnare ci servirebbe assai, visto che la ruota non gira anche per la difesa, punita oltre i suoi demeriti per una cazzata che ogni tanto può scappare (oggi a Gosens) e che puntualmente si trasforma in un gol preso. Per il resto, al netto di quello che comporta un momento no, a Torino si è vista grinta, attenzione, consapevolezza. Il giorno che ne metteremo uno – e prima o poi capiterà – potremmo dare una svolta. Tardiva, ma vera.
Ma rimanendo alla Coppa Italia, dove con la gestione Inzaghi proseguiamo imbattuti, adesso abbiamo una missione precisa: eliminarli. Basta, hanno rotto i coglioni, non meritano altro. Il fair play non si applica con la Juve. In attesa del 41 bis, a Milano dobbiamo concludere l’opera iniziata al minuto 95 a Torino (appena in tempo, ma con grande piacere): cacciarli fuori, perché ce lo chiede il mondo dei giusti.