Effetto stop

Sull’effetto Supercoppa, beata ingenuità, un po’ ci contavo. Vincere un trofeo piallando il Milan mi sembrava una di quelle cose che potevano farti solo bene. Piacere, fiducia, endorfina, sogni proibiti, una bottarella all’autostima dopo tanti alti e bassi. Se c’è stato un effetto, dev’essere però svanito già nel tragitto tra lo stadio e l’aeroporto di Riad, mentre sul prato gli addetti rastrellavano coriandoli e brandelli di milanisti. Al ritorno alla normalità – Milano, San Siro, campionato, Empoli (sbadiglio) – abbiamo sfoderato l’atteggiamento migliore per prendersi una tranvata che non ha niente di salutare, ma fotografa purtroppo quello che sa essere l’Inter: la spumeggiante trionfatrice di Supercoppa oppure, a stretto giro, una indistinta teoria di personaggi – giocatori, staff tecnico, società – da prendere a calci in culo, come avrebbe detto Lippi, non sapendo nemmeno da dove incominciare. Tutto nell’arco di cinque giorni. Non cinque settimane o cinque mesi: cinque giorni.

Non che una sconfitta in più o in meno, a questo punto, cambi più di tanto le cose, ma averne messe insieme in campionato 6 nel solo girone d’andata ci inchioda ormai – anche statisticamente – a una dimensione definitiva: dobbiamo giocarcela per un posto tra il secondo e il quarto, stop, e adesso che la Juve è (momentaneamente? chi può dirlo?) sparita dalle zone nobili ci accorgiamo che non sarà una passeggiata, perchè sono tutte lì ad aspettare che ne perdiamo altre sei nel ritorno per guadagnarsi la qualificazione in Champions più facile di sempre.

Gli ultimi cinque giorni ci dipingono alla perfezione, elencando tutto quello che sappiamo fare in meglio e in peggio: giocatori una volta scintillanti e vittime delle proprie paturnie la volta successiva (e va anche bene, perchè ne abbiamo di scarsi/impresentabili sempre), un allenatore che una volta le azzecca tutte e la volta dopo nemmeno una, una società che brilla per stile e lungimiranza salvo poi incartarsi nella gestione di casi singoli o di ordinarie strategie.

Tiriamo una riga a metà stagione. Supercoppa a parte, com’è andata? Una Champions da 8 e un campionato da 4. Un campionato dove in fondo ne hai vinte 12 su 19, neanche male, ma appunto ne hai perse 6, un’enormità irrimediabile. Un campionato dove hai fatto 24 punti in 10 partite in casa (saremmo secondi) e 13 in 9 partite in trasferta (saremmo ottavi) con l’incredibile cifra di 20 reti subite, un’altra evidenza che ci ridimensiona parecchio.

Fuori casa ne abbiamo presi tre dalla Lazio, dal Milan e dall’Udinese, ma anche dalla Fiorentina (qui, almeno, vincendo 4-3) e dal Barcellona (3-3). Ne abbiamo presi due dalla Juve, dal Monza (2-2), dall’Atalanta (anche qui, almeno, vincendo 3-2) e dal Bayern. Fanno nove partite stagionali, a metà del cammino, in cui siamo tornati da una trasferta con due o tre reti sul groppone. Nove trasferte sulle 12 disputate tra campionato e Champions. Solo una volta su 12 non abbiamo subito gol, a Plzeň. E dove vogliamo andare con una squadra diventata così vulnerabile?

La Supercoppa ci ha fatto trascorrere qualche giornata tranquilla. Poi una sera accendiamo la tv e vediamo un mezzo sfacelo: il capitano Skriniar che fa due falli alla Chuck Norris e viene espulso al 40′ (può essere spensierato uno che non sa dove giocherà tra una settimana?), Dumfries che da titolare fisso è passato a diciottesima scelta, Inzaghi che ha Dumfries e Gosens in panca e fa entrare Bellanova (condannandolo al classico massacro del laterale, nella miglior tradizione di San Siro), Lukaku che ha la forma di uno tornato il giorno prima dalle vacanze estive (solo che siamo quasi a febbraio), Barella con i nervi a fior di pelle, Correa con gli occhi da cerbiatto (vabbe’, i soliti), eccetera eccetera, e una squadra in balìa dei contropiedi dell’Empoli.

Tempo di resettare, va da sè, non ne abbiamo. Giocheremo tre partite in otto giorni (Cremonese, Atalanta in Coppa Italia, Milan) per le quali sarebbe necessaria l’Inter di Supercoppa, non la sua versione Wish di ieri sera. Spero che una brutta nottata l’abbiano passata anche i milanisti: “Ma se l’Inter ci ha asfaltati in Arabia e l’Empoli ha asfaltato l’Inter, quanto potremmo perdere con l’Empoli? Diciassette a zero?”

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Salvate il soldato Sinner

Sconfitte che valgono come vittorie, va da sè, non ne esistono. Sono concepibili solo se la sproporzione tra i contendenti è tale (chessò, un 512esimo di Coppa Italia Vogherese-Inter) che il perdente può considerare una vittoria l’aver venduto cara la pelle o l’aver fatto un figurone. Altrimenti, a parità di condizioni, sono formulette consolatorie per partite giocate bene e finite male, per insuccessi immeritati, per match condizionati da una botta di sfortuna, per un irrimediabile gol preso al 95′ quando il pareggio ti stava anche un po’ strettino.

Tutto quello che vogliamo, certo, però il risultato è sempre uno solo: zero punti. Tra una “sconfitta che vale una vittoria” e una vittoria magari ottenuta giocando da fare schifo, o per un pallone che incoccia uno stinco e va dalla parte opposta, o con un unico tiro quando magari gli avversari ne hanno fatti 15 e colpito tre pali, c’è un mondo di differenze (quando si decide di accantonare l’epica e la poesia e si dà un’occhiata alla classifica aggiornata) e un’unica drastica sentenza: la tua “sconfitta che vale come una vittoria” vale niente, hanno vinto gli altri, non ci sono cazzi, ed è anche dura autoconvincersi che la sconfitta in questione voglia dire altro che non averlo preso sonoramente in quel posto.

Parlando di tennis, il concetto di sconfitta che vale come una vittoria è stato ripescato ieri pomeriggio da Repubblica.it pochi minuti dopo che Sinner, agli ottavi dell’Australian Open, aveva perso al quinto set con Tsitsipas. Una sconfitta che vale una vittoria? Sicuri?

A proposito di autoconvincimenti, è dal 2018-2019 che nello sport italiano si è scatenata la Sinner-mania alimentata da uno storytelling mai riservato a nessuno. L’allora minorenne e precocissimo Sinner, che viaggiava oltre la 100esima posizione Atp, veniva pronosticato come il sicuro campionissimo del decennio successivo, sicuro numero 1, sicuro vincitore di Slam. Una tesi tanto convinta e tanto corale che nel tennis italiano si è verificato un fenomeno stranissimo: prima Fognini e pochi mesi dopo Berrettini entravano nei primi 10 della classifica, roba che non succedeva dai tempi di Panatta. Eppure, gli addetti al lavori già parlavano di Sinner. C’erano Fognini numero 9 e Berrettini numero 8, ma il fenomeno era Sinner. Era già Sinner, era comunque Sinner.

Faccio un inciso prima che sia troppo tardi: io non ce l’ho con Sinner, tutt’altro. E’ un ragazzo serio, forse anche troppo. Tifo per lui perchè conquisti davvero un decimo dei trofei che gli hanno pronosticato. Metterò la sveglia la notte in cui sarà in finale agli Us Open sul suo amato cemento. Non ce l’ho con lui, ce l’ho con gli storyteller.

A Sinner è stata fatta un’apertura di credito pazzesca rispetto alla media. Non gli si è genericamente pronosticato un futuro roseo, ma un futuro da numero 1, in uno sport in cui l’Italia un numero 1 non l’ha mai avuto. Non avevo mai visto un ragazzo così giovane – e così schivo rispetto a certi sboroni – diventare per “elezione” una specie di gallina dalle uova d’oro. Copincollo da Wikipedia: da juniores firma il contratto con la Head, nel 2019 con Nike, nel 2020 firma ulteriori contratti con Rolex, Lavazza, Technogym, Alfa Romeo, Parmigiano Reggiano e Fastweb. Il 19 maggio 2022 firma un contratto di 10 anni con la Nike per 150 milioni di dollari totali. Siamo già ai conteggi a 8 zeri, e Sinner da professionista non ha ancora vinto niente. Di importante, intendo: sei torneini (un 500 e cinque 250) e stop, niente Slam, niente numero 1, come da storytelling ripetuto fino all’ossessione.

Chi ha il bouquet Sport di Sky o chi ogni tanto finisce su Supertennis sa di cosa parlo: nella programmazione ci si imbatte spessissimo in una replica di una partita di Sinner, manco fosse McEnroe o Federer. Perché? Per dire: non ho mai visto la replica di Fognini-Nadal agli Us Open (partitone pazzesco con Fogna che sotto di due set rimonta e vince con Nadal, Nadal!, l’equivalente di una vittoria solitaria sul Mont Ventoux o di una maratona di New York), ma ogni tanto finisco su una partita di Sinner contro (nome di pallettaro a caso). Perché?

Sinner, prima del Covid (che poi ha fermato tutto, lui compreso: è stato sfortunato, sì, ma come tutti), ha battuto una lunga serie di record di precocità del tennis italiano, e dopo il Covid è arrivato velocemente nei primi 10 del mondo (9 la sua miglior classifica, oggi è 16esimo). E lì si è fermato. Grazie al cazzo, direte voi, perchè non vai tu a giocare al posto suo? No, certo, non ci vado. Ma non pretendo nemmeno – come fanno gli storyteller del tennis e dello sport italiano da quattro anni – di issarlo a forza dove non può ancora arrivare, nè di ripetere allo sfinimento lo stesso mantra in attesa che qualcosa si avveri.

Oggi Sinner ha 21 anni e 4 mesi, è nell’anno dei 22. E’ ancora ampiamente in tempo per vincere tutto quello che vorrà e potrà. E’ giovanissimo, ma non il più giovane. Il numero 1 della classifica (Alcaraz) ha due anni meno di lui, e anche il numero 9 (Rune). Il numero 6 (Auger-Aliassime) ha un anno di più, ma è nei primi dieci da un pezzo. Sinner, mentre lo storytelling continua senza sosta, è un signor giocatore che continua a sbattere sullo stesso muro, quello dei Top 5: contro i primi cinque della classifica ha perso 16 match su 17 in carriera, e per diventare numero 1 Atp o vincere uno Slam è proprio quello che dovrà fare: battere i primi 5 con una discreta regolarità. Altri metodi non ce ne sono.

Lo storytelling del super-Sinner ha finito col nuocere per primo a Sinner, temo. E forse sarebbe più sano e più produttivo ogni tanto parlare dei problemi di Sinner, oltre che raccontare quanto è bravo. Per fortuna è lo stesso Sinner nelle interviste a dire che la sconfitta col cazzo che vale come una vittoria: “È sicuramente una sconfitta dura questa con Tsitsipas. Ora dovrò ripensare a tutto e tornare ad allenarmi. In questo tipo di partite, al quinto set può andare in un modo o nell’altro. Ho avuto lo slancio. Poi ho fatto un po’ di casino”. E intanto si vede che sta lavorando a un futuro ancora migliore rispetto a questo pur luminoso presente: mette su muscoli, serve più forte. Si prepara a rimanere al vertice, a vincere altri tornei, a inseguire lo Slam che a un italiano in singolare manca dal 1976.

Lo storytelling ce lo racconta come un superatleta. Che però è fragile, si ferma spesso. Lo storytelling imperterrito racconta che mentalmente è il migliore di tutti. Ah, davvero? E com’è che perde sempre con i più forti? Non sarà che invece gli manca qualcosa proprio mentalmente? E cioè quell’ultimo stadio di sicurezza che uno storytelling diverso, che lo raccontasse forte sì ma anche un po’ più umano, potrebbe dargli?

Forza Jannik: tappati le orecchie e picchia. Lo Slam arriverà senza bisogno che lo raccontino in anticipo, a te e a noi.

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Superpagelle di Supercoppa

Onana 10. E’ l’evoluzione della parata laser di Handa: attira i palloni – quei pochi che arrivano – verso di sè. Una sicurezza.

Škriniar 10. Col cazzo che lo diamo agli sceicchi francesi. O almeno, ce lo paghino il giusto: 150 milioni più Messi, Verratti e Hakimi.

Acerbi 10. A fine stagione, con il metodo del Carbonio 14, sarà accertata la sua vera età: sembrava il nipote forte di Tomori.

Bastoni 10. E’ alto come Lebron James e ha il piede sinistro di Mariolino Corso. Potrebbe passare al Psg, sì, ma per Mbappè, Nizza, l’Alta Savoia e la Corsica. (dal 84’ De Vrij 10. Bravissimo).

Darmian 10. Con quella pettinatura può fare ciò che vuole: in un mare di sfumature alte, i suoi boccoli fluttuano eterei nel deserto.

Barella 10. Corre 37,5 km, serve 18 assist, recupera 37 palloni, nell’intervallo serve il tè caldo, fa un massaggio a Dzeko e mette via la roba per la lavanderia. Monumentale (dal 71’ Gagliardini 10, che classe, rinnovatelo fino al 2038, vi prego, è necessario)

Çalhanoğlu 10. Quando vede il Milan diventa pure stronzo. E quando un0 bravo è pure stronzo, diventa un fattore (dal 84’ Asllani 10. Praticamente perfetto)

Mkhitaryan 10. Abbiamo un sacco di giocatori vecchiotti, tutti bravi, specialmente lui che dove lo metti sta e dove non lo metti ci va. Ma perchè non lo abbiamo preso 10 anni fa? Boh. Se vanno in pensione tutti insieme, sono cazzi

Dimarco 10. Difende male? E diciamolo: ma chi se ne frega. Attacca e sgroppa da dio, ha un sinistro più che sopraffino e una tamarraggine che non stona (dal 63’ Gosens 10, uno scintillante dodicesimo uomo, o tredicesimo, o quattordicesimo, e sticazzi?)

Džeko 11. Tra due mesi compie 37 anni, nel frattempo insegna calcio in Italia e in Arabia, una doppia cattedra che si riconosce ai cervelloni (dal 71’ Correa 10. Un genio incompreso)

Lautaro Martínez 11. Lautarooooooo, Lautaroooooo, che ce frega de Mbappè noi ciabbiamo Lautarò. Lautarooooo Lautarooooo (ecc. ecc.)

Brazão 10. E’ la prima volta che lo vedo dal vivo, col quarto portiere siamo messi bene

Cordaz 10. Esperienza

Handanović 10. Non giocare, alzare la Supercoppa: king

Bellanova 10. Bravo

D’Ambrosio 10. Sempre un bel ragazzo.

Dumfries 10. L’uomo che non sorride mai, figuriamoci quando non gioca

Zanotti 10. Giuro, avevo letto Zanetti. Minchia, mi sono detto, vabbe’ che abbiamo qualche assenza. Poi ho letto meglio

Brozović 10. Il migliore

Carboni 10. Diligente

Lukaku 10. Un’altra prestazione impeccabile nel suo ormai consueto assetto stagionale, quello da seduto. In borghese o in divisa da gioco, è sempre rassicurante, sorride, fa gruppo. Un lusso

Inzaghi 11. Ci sono i Nessun dorma di Pavarotti, le veroniche di Panatta, le trivele di Quaresma, le uova di Cracco, le barzellette di Berlusconi, i covi di Messina Denaro. E le Supercoppe di Inzaghi

Arabia Saudita 10. E’ il più grande Stato arabo dell’Asia occidentale per superficie e il più grande del mondo arabo dopo l’Algeria, si sta impegnando molto sui diritti umani e la sera fa fresco. Un paradiso

Messina Denaro 10. Il nostro nuovo tifoso: gli abbiamo allietato la seconda notte al gabbio con una partita della madonna. Si era ridotto a mandare messaggi alle sciure della chemio, gli abbiamo aperto un mondo

Milan 10. Grazie di tutto, davvero

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L’Arabia in corpo

Dopo i Mondiali in Qatar ci mancava giusto una Supercoppa a Riad. E chissà per quanto ne avremo ancora di queste pagliacciate, se è vero che l’Arabia Saudita sarebbe in trattativa con la Lega di Serie A per organizzare la partita – anzi, LE partite, perchè vorrebbero fare una final four, massì, crepi l’avarizia – anche nei prossimi sei anni in cambio di una somma astronomica. Eticamente una finale a Riad è un gradino sotto Teheran e Kabul, ma chi se ne frega dell’etica quando le cifre hanno otto zeri? Ok, eticamente lasciamo stare. E tecnicamente?

Diciamo che Inter e Milan hanno attraversato momenti migliori. Restando alle ultime tre partite (la quartultima era Inter-Napoli, il 3 gennaio, ma sembra un mese fa), l’Inter ha affrontato Monza, Parma e Verona senza – diciamo così – brillare. Il Milan ha fatto anche peggio, perchè non ha mai vinto: due pareggi in campionato (Roma e Lecce) e sconfitta in casa in Coppa Italia con il Toro, un po’ poco per la squadra più scintillante del mondo.

Ma del Milan mi frega il giusto. Dall’Inter, invece, avrei voluto vedere un po’ di più dopo la vittoria con il Napoli, che sembrava averci dato una svolta. Per essere quelli che hanno riaperto il campionato (poi subito richiuso) mi aspettavo altro rispetto al mezzo disastro di Monza, al netto del furto arbitrale, e alle due partite da morte civile con Parma e Verona, i cui highlights durano circa 40 secondi compreso un breve inserto pubblicitario.

Un sommario esame della classifica di Serie A mi ha provocato un brivido sinistro. Era da qualche giornata che guardavo solo avanti (al Napoli lontanissimo, al Milan da raggiungere, alla Juve con cui giocarcela) e mi sono accorto che dietro c’è un certo fermento. Tre squadre inaffidabili e discontinue sono lì a soli tre punti, che sono pochini considerando che un po’ inaffidabili e discontinui lo siamo anche noi. E non so, ma le ultime partite dell’Inter mi hanno dato un’impressione strana, come se attualmente non ci sia abbastanza garra per credere allo scudetto (embè, sotto di 10…) e allora si punti a una linea di galleggiamento in campionato (restare entro le prime quattro) e nella stessa Coppa Italia (vediamo come va, senza perdere il sonno) in attesa di vedere come andrà in Champions (che magari ci scappa un quarto di finale, hai visto mai). E così squadre che alternano imprese a catastrofi sono lì a un passo, pronte a risucchiarti verso l’inferno del quinto posto.

Dietro il Napoli è tutto un ciapanò, che può essere un giochetto divertente ma solo se non ci partecipi. Forse il discorso è prematuro, a “sole” 20 giornate dalla fine. O forse è il momento stesso della stagione (giochiamo ogni tre giorni in tre competizioni diverse) a provocare qualche distrazione. Ma mi piacerebbe vedere un’altra Inter, un pochino più solida mentalmente. Non una squadra che non chiude la partita con il Monza, che va ai supplementari con il Parma, che soffre nel finale con il Verona.

Insomma, spero nella scossa da Supercoppa. Spero che, superato lo choc della ghirlanda al collo appena messo piede in un Paese poco civile, ci si concentri sul colore delle maglie della squadra avversaria, anche se intorno ci sono sabbia e cammelli e non nebbia e madunine. Spero nello choc positivo di una partita in cui si gioca un trofeo ma anche un po’ di reputazione e un po’ di onore. Spero, e aspetto.

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Inter-Parma (l’avessi vista)

La mia ultima Inter experience è andata così. Intanto, ero convinto che la Coppa Italia ce l’avesse ancora la Rai. E quindi dopo il Tg1 lascio scorrere il tempo, inizia I Soliti ignoti, Amadeus continua imperterrito e a un certo punto mi chiedo: ma come? Non è su Rai1, dunque. Cambio canale. Su Rai2 non c’è, su Rai3 non c’è, su Rete4 non c’è, arrivo a Canale 5 dove la partita sta per iniziare e noto che Correa e Gagliardini sono contemporaneamente in campo nell’undici titolare. Un ottavo di finale di Coppa Italia contro il Parma un martedì sera con Correa e Gagliardini titolari.

Mi appare subito chiaro che non ce la posso fare.

Quindi, con serenità, faccio zapping. Mi imbatto nell’Eurolega di basket, Alba Berlino-Olimpia Milano, ultimo quarto. La guardo. Dal momento in cui inizio la visione Milano, che già era sotto, fa tipo 3 su 200 al tiro e perde di 20. Tristezza. Torno su Canale 5, in tempo per vedere il replay del gol del Parma.

Non ce la posso fare.

Ri-zapping. Trovo altra Eurolega. Virtus Bologna-Zalgiris Kaunas, ottimo. Stanno 60 pari, inizia l’ultimo quarto. Bella partita. Se la giocano, Teodosic fa qualche numero, poi lo Zalgiris prende il largo e vince di 10. Inizio ad avere brutti pensieri. Nel giro di un’oretta e mezza scarsa mi sono occupato di tre partite e sono andate tutte male. Boh, mi dico, aspetta, adesso giro su Canale 5 e magari stiamo 4-1.

No, sempre 0-1.

Mancano 20 minuti. Mi armo di coraggio e la guardo fino in fondo. Vedo Buffon fare una parata come avesse 20 anni di meno e penso che non c’è più niente da fare. Poi un mezzo autogol di faccia ci rimette in pista. Fine dei tempi regolamentari.

Mi sembra ovvio che cambio canale.

Premo + e passo su Italia 1, dove alle Iene (programma che normalmente mi fa lo stesso effetto del combo Correa-Gagliardini) è in corso un’intervista surreale. Apprendo che il Ken umano (sì, quel fotomodello che aveva fatto chessò, 50 operazioni per assomigliare a Ken, il fidanzato di Barbie) con un’altra novantina di operazioni ha cambiato sesso ed è diventato donna.

E’ chiaro che a questo punto Inter-Parma passa completamente in secondo piano. Anzi no, in secondo piano c’era già. In terzo piano.

Il Ken umano adesso si chiama Jessica ed è un incrocio tra una Barbie venuta male, una Jessica Rabbit venuta male, una bambola gonfiabile venuta male e una Kim Kardashian venuta malissimo. L’intervista alterni momenti di finta divulgazione (come un pene viene trasformato in una vagina, ci sono vari metodi per tutte le tasche) ad altri di una volgarità imbarazzante. Finchè alla domanda “Jessica, ma l’amore?”, lei risponde “L’amore fa male, fa male, purtroppo la famiglia di lui non mi accettava”, al che mi sono alzato dal divano e ho detto

“Jessica, amica mia, non offenderti, ma temo dovrai farci il callo alle non accettazioni, nemmeno io da genitore sarei pronto, abbi pazienza”

cambiando canale e tornando alla partita dove scorreva il replay del gol di Acerbi. C’è ancora parecchio da giocare, succede poco, torno ogni tanto sulle Iene dove è iniziato un servizio sulla concia delle pelli in India e sul conseguente inquinamento del Gange. La concia delle pelli e la partita finiscono praticamente all’unisono. Attendo l’intervista di Inzaghi. Poi vado a dormire.

La morale è questa: ogni tanto non guardare l’Inter fa bene.

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Confusione (fallo di)

Sul fallo di confusione, come direbbe Elio, c’è chi ci ha costruito su un impero. Il fischio di De Santis il 7 maggio 2000 in Juve-Parma – azione da calcio d’angolo all’89esimo minuto della penultima giornata di campionato – è passato alla storia del nostro calcio: un fischio deciso per interrompere gratuitamente un’azione, così, essenzialmente per evitare imprevisti, contando che nel casino qualcosa succeda a giustificare la chiamata. Cannavaro segnò per il Parma un gol regolarissimo, con un’incornata però contemporanea al fischio di un fallo che non c’era, un fallo eventuale – figuriamoci se non viene commesso un fallo in un’area strapiena di gente che attende gli sviluppi di un calcio piazzato – che invece non si verificò. Comunque sticazzi, il fischio stese un velo su cose vere o presunte (peccato solo che ci siano dieci telecamere a documentare il non-fallo, ma vabbe’) e via. Sette giorni dopo l’uragano di Perugia sistemò le cose, ma quel fischio passò alla storia lo stesso, nel girone delle pessime cose e dei pessimi individui. Non spianò la strada allo scudetto della Juve perchè sette giorni più tardi accadde un fatto altrettanto straordinario e storico. Ma, per dire, costò la Champions al Parma (ci andammo noi dopo lo spareggio proprio con il Parma. Mors tua, ecc.).

Ventidue anni e mezzo dopo, e cinque anni e mezzo dopo l’introduzione del Var, il fischio alla De Santis di questo Juan Luca Sacchi in Monza-Inter ci riporta a vecchie atmosfere arbitrali, quella dei fischi alla cazzo irrimediabili, proprio ora che il Var ci aveva fatto entrare nella dimensione dei fischi rimediabili. Sacchi ha fischiato male e con troppo anticipo, ancora prima che Acerbi segnasse. Il difensore del Monza era stato effettivamente sgambettato, ma da un suo compagno. Gol valido, Var neutralizzato. Insomma, una gran bella merda.

Non si può parlare di Monza-Inter senza fare questa lunga premessa. Sul 3-1 la partita sarebbe probabilmente finita e ora saremmo tutti qui a bere birre e a darci pacche sulle spalle. E invece no.

Tocca quindi parlare male dell’Inter, due volte in vantaggio e due volte rimontata, altre due pere in trasferta (e fanno 20 a nemmeno metà dal campionato, una vergogna), altre falle nell’atteggiamento (ok, ci hanno rubato la partita, ma potevamo/dovevamo risolverla comunque, eravamo a Monza, mica a Manchester) tre giorni dopo aver battuto il Napoli e aver rilasciato dichiarazioni paracule in fotocopia “sì, ma ora dobbiamo dimostrare già a Monza che…”.

Ecco.

L’Inter i disastri veri li ha fatti nei primi due mesi. Nelle ultime 9 partite ne ha vinte 7, pareggiata 1 e persa 1, e francamente firmerei per una serie così nelle prossime nove. Però, accidenti, non ci possiamo più permettere di buttare via punti. Non a Monza. Non riuscendo a gestire una partita già vinta. Prendendo due gol ancora una volta a difesa schierata e immobile, come se in trasferta ci andasse in pappa il cervello.

E quindi a due domande profondamente diverse – vi hanno rubato la partita? siete una squadra di coglioni? – ci tocca rispondere sì.

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Vedi (il) Napoli

L’esperienza dei 51 giorni di pausa del campionato in pieno inverno, con in mezzo un campionato mondiale nel deserto di cui sostanzialmente non mi fregava un cazzo (nè nel mondiale nè del deserto), mi ha calcisticamente disorientato. Tanto che al momento di rituffarmi nel normale scorrere del calcio mi sono accorto di essere impreparato. Molto impreparato. Avevo perso completamente il filo.

Per dire: qualche giorno fa faccio zapping e mi imbatto in una partita del Tottenham. Un tizio apre sulla sinistra e la palla finisce a Perisic. Uh, Perisic, quanti ricordi, quanto tempo. L’avevo già visto con la maglia del Tottenham, poi con quella della Croazia in mezzo al deserto, che nostalgia per quei doppi passi a liberare i cross. Bei tempi, quando sarà stato che era ancora all’Inter?

Sette mesi.

Sette mesi fa ne metteva due alla Juve nell’extra time e vincevamo la Coppa Italia. La Coppa Italia? Parevano trascorsi anni, invece erano sette mesi. Quando avevamo vinto in trasferta A Bergamo? Il 13 novembre, ok, ma di che anno? Venti Ventidue? Ah, 51 giorni fa?

Così ieri mi sono trovato 10 partite di serie A in un giorno solo (non so, non accadeva pare da 170 anni) e mi è venuto una specie di attacco di panico. Non ricordavo niente. Chi gioca dove. Chi allena chi. Risultati, classifica, marcatori. Niente.

Vabbe’, ovvio, qualcosa dell’Inter ricordavo. Tipo che abbiamo la maglia a strisce nerazzurre, che il nostro allenatore ha fatto un figlio con la Marcuzzi e che dovevamo giocare con il Napoli capolista che ci precedeva di (sono andato a controllare) undici punti, un’enormità di cui non mi capacitavo finchè sono andato a vedere i risultati delle partite precedenti, scoprendo che ne avevamo perse 5 su 15, in effetti un’enormità all’origine di quell’altra enormità.

Comunque bene, mi sono di nuovo ambientato. Non saprei dire con precisione dove si ponga la linea di confine tra una certamente buona partita nostra e una non buonissima partita del Napoli, ok, ma non starei troppo a sottilizzare. Battiamo la capolista, molto bene!, ma rimaniamo lontani di 8 (otto) punti. E siamo sempre quarti. Cioè, ecco, non mi perderei in eccessivi festeggiamenti. Siamo indietro come le balle dei cani (detto popolare pavese) e sarà meglio restare concentrati, parecchio concentrati. Diciamo che nelle ultime due partite (giocatesi a distanza di quasi due mesi) abbiamo vinto due scontri diretti dopo aver perso tutti i precedenti. Bene, che dire?, avanti così.

Tra le cose che mi ero dimenticato e che mi appaiono tuttora poco spiegabili c’è che la Juve è davanti a noi. No, cioè, non dovevano essere in crisi, umiliati e vilipesi? Non dovevano essere morti e sepolti? Non dovevano essere stati retrocessi, radiati, polverizzati per ragioni sportivo-penali, avendone fatte di ogni negli ultimi 100-110 anni? (Ora che mi ricordo, il caso-Juve era stata la lettura più interessante durante i mondiali. Cioè, voi leggevate la cronaca di Lapponia-Ecuador e Prussia-Australia?)

Apprendo, andando a ritroso, che la Juve ha vinto le ultime sette partite senza subire un gol. Di queste sette, quattro erano in trasferta, tutte vinte 1-0. E’ un po’ come gli 11 (ora 8) punti di svtantaggio dal Napoli, è un po’ come il Milan che ci resta ampiamente sopra. Sono tutti alert: la vita non ce la può rendere facile nessuno. Tranne noi stessi, tipo ieri sera.

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No Goat

Ci ho messo un po’ – giusto qualche decennio – ma quest’anno alfin mi sono arreso. Il giochetto del “più grande di tutti i tempi” ci piacerà anche un sacco ma non ha alcun senso, basta, diciamolo. E’ un simpatico espediente per parlare ore di un argomento che ti stuzzica, ma appunto resta un giochetto. Simpatico e inutile, come tutti i giochetti. E dopo essermici immerso più volte anche in questo 2022 – da Federer a Messi a Pelè, passando per qualche anniversario, qualche serie tv e qualche suggestione – finalmente ho capito che nello sport il più grande di tutti i tempi non esiste. E che il tempo va nessariamente diviso in epoche, e per ogni epoca si può trovare il più grande (o non trovarlo, perchè le generazioni non sono tutte uguali). E fermarsi lì.

Come si possono paragonare i tennisti che usavano le racchette di legno a quelli che usano le racchette in carbonio/titanio/plutonio/antimonio? Come si posso paragonare gli sciatori di 60 o 30 anni di fa a quelli di oggi (e gli sci, e le piste)? Come si possono paragonare Fangio, Lauda, Schumacher e Verstappen tra le bare volanti di un tempo e le macchine che oggi vanno quasi da sole? Come si possono paragonare, in generale e in qualsiasi sport, gli atleti di 100 o 50 anni fa a quelli di oggi per stuttura fisica, metodologie di allenamento, materali/tempo/soldi a disposizione?

Arrivato a Pelè, insoma, mi sono messo il cuore in pace. Pelè è il più grande di ogni epoca? Maradona è megli’e Pelè o viceversa? E Messi, vuoi mettere Messi?

La morte di Pelè chiude per sempre la storia di un calcio che non esiste più e di cui Pelè era volto, anima, tutto. Pelè è un mito del calcio, senza dubbio, ma di un calcio prevalentemente in bianco e nero, un calcio poco documentato (a parte Italia-Brasile di Mexico ’70, quante partite avete visto di Pelè?), un calcio più immaginato che vissuto. Pelè ha vinto tre mondiali e questo basterà per sempre a farne una leggenda. Fu vera gloria, certo, tra i millemila gol e le millemila veroniche, stella di tre Brasili pieni di talento e solidità (no saltimbanchi), personaggio positivo, semidio del pallone, front-man di un movimento, il sorriso a 320 denti, Pelè, Pelè! eccetera.

Ma il modello-Pelè oggi non sarebbe riproducibile. Oggi una leggenda del calcio non potrebbe non giocare nemmeno una partita di club in Europa. Oggi non potrebbe esistere un Pelè che se ne sta tutta la carriera nel Santos e poi da monumento vivente va a vivere un crepuscolo durato nei Cosmos, in un calcio che praticamente non esiste. Oggi non sarebbe concepibile un campione che non si vede, un campione con statistiche incerte, un campione che vedi apparire ogni 4 anni. E sì, ok, sono apparizioni abbacinanti. Ma oggi se non vedi partite per due giorni di fila vai in astinenza, figuriamoci ci fosse un Pelè che vedi un mese sì e 4 anni no. Oggi sarebbe inaccettabile non diffondere la bellezza di un Pelè. Oggi un Pelè non se ne starebbe mai rintanato in un altro emisfero senza diffondere la sua bellezza (e incassare il giusto). Ma oggi è oggi, e Pelè è – inequivocalbilmente – un campione di ieri.

Quindi: Pelè è stato il migliore della sua epoca (una quindicina di anni da primadonna assoluta dello sport più amato del mondo, per assurgere alla gloria eterna), Maradona della sua (una rock star con una cazzimma calcistica mai più raggiunta da nessun uomo), Messi della sua (giocatorone simbolo di uno sport sempre più ricco, sempre più frenetico, sempre meno affascinante).

Poi, siccome non puoi recintare nè la nostalgia nè le pulsioni calcistiche, ognuno decida chi è stato il più grande. Ma per sè, non per l’umanità intera. Certe classifiche non esistono, sono solo giochetti utili a riempire pagine e tabelle. Diffidate delle classifiche “ogni tempo”. Di Pelè restano la tecnica e la leggerezza, quella proprietà che hanno avuto in pochi di attraversare il campo su un cuscino d’aria prima di scegliere se segnare di tocco o di potenza o liberare il compagno al tiro, sempre comunicando una certa superiorità rispetto a un mondo di gente normale. Palè era Pelè, il re, che trasformava in oro ogni pallone, che veniva bene anche nelle foto. Resta il gol dell’1-0 di Italia-Brasile, un colpo di testa incastonato in una carriera di colpi di piede, eppure un colpo di testa maestoso, fluttuando nell’area e poi schiacciando con una potenza inumana, ed è un peccato che questa impresa fisica e tecnica non sia stato oggetto di studio come ogni singola mossa di CR7, scoregge comprese.

Ecco. Avrò più cose da ricordare di Pelè che di Messi, questo è sicuro, pur avendo visto una sola partita di Pelè e almeno cento di Messi. Maradona non so, è un’altra categoria di uomo e di campione, nel bene e nel male e anche nel malissimo: di lui ricorderò più cose di Pelè e Messi messi (ops) insieme.

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Me disculpo, Leo

E così, dopo il Covid, la guerra, la siccità, un campionato regalato al Milan, il caldo tropicale, il centrosinistra scherzato alle elezioni, la crisi energetica, un Mondiale in Qatar e non so più quale altra calamità, mi tocca chiudere questo anno di merda dovendo porgere le mie scuse a Messi per la mia dannata fretta a considerarlo – ormai ultra 35enne – non più abile a nessuna grande impresa. E vabbe’, lui del resto è Messi e io un pirla qualunque. Però ci tengo a scusarmi.

Dunque, la questione per me era questa: fino a un anno e mezzo fa Messi non aveva vinto nulla con la sua nazionale (a parte un oro olimpico, boh, per quanto possa contare). E questo, per me, ne faceva un campione dimezzato. Un anno e mezzo fa, prima di giocare la finale di Coppa America 2021, Messi (no dico, Messi) aveva giocato 150 partite (no dico, 150) dell’Argentina (no dico, l’Argentina! Mica le Samoa o il Togo, l’Argentina!) e tutto questo bendiddio calcistico – 150 partite di Messi nell’Argentina – non aveva prodotto niente di niente. Questo lo teneva irrimediabilmente lontano dai due giocatori con cui è stato perennemente paragonato: non solo Maradona per il passato, ma anche CR7 per il presente, lui sì molto decisivo per il suo Portogallo, una nazionale qualche categoria sotto quella argentina eppure, in tempi recenti, più vincente (Europei e Nations League negli ultimi 6 anni, contro due ori olimpici dell’Argentina negli ultimi 28).

Un anno e mezzo fa Messi e l’Argentina vincono la Coppa America, in Brasile, in finale con il Brasile. Un modo piuttosto spettacolare di interrompere un digiuno che durava dal 1993. Messi finalmente alza una coppa in nazionale, dopo 150 partite, a 34 anni. Una toppa messa in extremis, non certo la più prestigiosa possibile. La statistica è salva. Ma la reputazione?

Intendiamoci, si sta parlando di un giocatore clamoroso. Ma anche privilegiato. Rimanendo alle sue cifre cristallizzate a un anno e mezzo fa, uno che ha giocato 750 partite nel Barcellona e 150 nell’Argentina non ha calcisticamente le pezze al culo. E’ uno che può vincere col minimo sforzo (mica come Maradona a Napoli). E se nel club ha messo insieme l’inverosimile, in nazionale per 16 anni e 150 partite non ha quasi lasciato un segno. Un segno vero, una coppa, una coppa vera. Una di quelle cose per cui ti ricorderanno nei secoli dei secoli.

Messi è così forte che lo premiano a caso. Almeno due dei suoi sette Palloni d’oro sono senza senso, se non quello di aver dato un premio a uno bravo – ma non il più bravo di quella stagione lì. Messi è così forte che resta il più forte anche se le sue ultime due stagioni a Parigi, con una maglia che gli sta addosso in maniera innaturale, sono state tristi (o intristite, fate voi). Messi è così forte che anche le sue ultime due stagioni al Barcellona erano state piuttosto tristi: 31 e 38 gol l’anno, che tristezza, vero?

Ecco, ho frettolosamente dato Messi per finito, depresso dalle mollezze parigine, appagato dalla statistica sistemata in nazionale. L’ho dato per finito in un perfido parallelo con Cr7, perchè prima o poi il viale del tramonto lo imboccano tutti e sembrava la volta buona anche per loro. L’ho dato per finito dopo Argentina-Arabia Saudita, una partita che sembrava allontanarlo crudelmente dall’unica emozione che gli mancava in carriera, un’emozione che meritava, un’emozione che però soltanto lui – un campione in mezzo a una banda di vandali – poteva procurarsi.

Lo ha fatto.

Maradona aveva dimostrato che si poteva vincere un Mondiale più o meno da soli, Messi lo ha confermato. Perciò gli chiedo scusa. Ha vinto sei partite più o meno da solo, sempre una spanna sopra gli altri, spesso anche due o tre, come si addice ai campioni. Anche ai campioni tardivi, che aspettano i 35 anni e mezzo per mettere la ciliegina sulla torta.

E’ nell’Olimpo, ora non ci sono più dubbi. Non sarà mai Maradona, non avendone la caratura, lo spessore, la follia, la maledizione. Resta un anti-personaggio, ha avuto spesso vita facile, gli hanno steso tappeti rossi. Ma adesso ha vinto un Mondiale da solo, e quindi lui è lui, e noi non siamo un cazzo.

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Quattro cose

Quattro cose che non mi sono piaciute dei Mondiali in Qatar.

4. I recuperi.

Secondo me, le novità regolamentari andrebbero testate qualche mese e poi proposte sulle grandi ribalte, non il contrario. All’improvviso, ai Mondiali, mica al Birra Moretti, ci siamo trovati a sperimentare partite che durano tipo 10 minuti in più, e non invano (nel senso che qualche gol al centesimo minuto c’è pure stato). Tralasciando gli aspetti interpretativi – arbitri che recuperano fino all’inverosimile, altri meno – cambia un po’ la prospettiva delle partite. Quando arrivi all’80’ di solito sale ansia, adesso non sai più di che morte devi morire. Ma cambiano anche le prospettive di vita vissuta. Quando c’era la partita alle 11 del mattino, non sapevi mai in quale momento buttare la pasta: se la butto all’85esimo sarà pronta al quinto di recupero, ma se quello recupera 12 minuti? No, non si può vivere così.

3. I Mondiali in Qatar.

Ora, a me starà anche sul culo il Qatar, d’accordo, ma non sopporto qualsiasi narrazione minimamente positiva di questo Mondiale. Uh ma che bello, uh ma che bravi, uh ma che gol. Uh. Non mi interessano le tesi buoniste, benaltriste, assoluzioniste e terzomondiste su questo Mondiale contronatura e ceduto al miglior offerente, una vergogna eterna, in un calar di mutande e aprire di portafogli. La cosa più suggestiva di questo Mondiale è che proprio in questi giorni, sui giornali, qualche pagina prima di quelle sportive, si parla di gente cui trovano in casa sacchi di soldi (dai tempi di Paperon de’ Paperoni non sentivo niente del genere) marchiati Qatar. Già, chissà cosa sarà mai successo qualche anno fa, quando si decise di giocare un Mondiale in mezzo al deserto, in un Paese di cui si parla male anche nelle fiction, figuriamoci nei consessi che contano, eppure indifferenti ai rumors e alle questioni morali e a quelle climatiche. Poi basta vedere un prato verde e qualche bel gol per dimenticare tutto, ma è un errore concettuale. Io condannerei l’intera filiera decisionale alle pene più infernali: chessò, tipo legarli e una poltrona e costringerli a due mesi di pausa del campionato.

2. Il Brasile.

Fossi un appassionato di calcio brasiliano, avrei smesso di seguire il calcio da almeno dieci anni. Oggi sarei un appassionato brasiliano di basket, Formula 1, pallavolo, samba, curling, bob a quattro, bridge, zumba, forse addirittura padel. Qualsiasi cosa, pur di non vedere più questi saltimbanchi che si beano degli ooohhhhhh degli stolti come noi e si convincono che andare in porta con il pallone sia un sistema di calcio ancora sostenibile. Il Brasile ha rotto i coglioni. O meglio, li ha rotti questo Brasile del Terzo millennio dove ci si ossigenano i capelli, si fanno quattro mossette e poi si esce in lacrime tra i lazzi del mondo intero. Il Brasile che piange e i brasiliani che piangono in tribuna, dopo aver ballato 120 minuti A-E-I-O-U-Yplilòn, santiddio, hanno rotto i coglioni. Ha rotto i coglioni questo modello di Brasile in cui si mettono in campo tre-quattro giocatori che si fanno il culo per tutti gli altri, quelli da copertina, tesi a promuovere se stessi e a cercare la ribalta personale senza mai passare un pallone. Piccoli Neymar crescono e proliferano. Pensavo che Vinicius fosse un po’ diverso, e invece no, è quasi come lui (beh, Neymar è inarrivabile). Ma è ancora giovane, può tornare alla tinta naturale e provare ad allargare i suoi orizzonti. Ai brasiliani, con il loro tasso tecnico medio, basterebbe poco. Ma niente, non ce la fanno, preferiscono la giocoleria, lo sberleffo, il merletto, bailare il futbol. Poi gli sfiorano le caviglie e si rotolano mezz’ora. Poi li rimontano e perdono ai rigori. Poi piangono in favore di telecamera, increduli di fronte a un destino barbaro lasciato in mano a quattro ossigenati. Alla prossima, amisci.

1 . Adani.

X Factor era in origine una gara tra aspiranti cantanti, poi è diventata una gara tra giudici. Così come Amici, così come Masterchef, così come ogni altro talent: lo spettacolo si è spostato, i concorrenti sono un semplice pretesto. Nel calcio non è ancora successo che si guardi una partita in tv proprio perché c’è il tal telecronista o la tal seconda voce (“Stasera c’è l’Inter!”, “No, io guardo Cuiopelli-Pergolettese, c’è Sebino Nela”), e spero che non succeda mai. Ma c’è chi ci vuole convincere che le telecronache con Adani siano migliori delle altre, molto migliori. Per me no. Ma proprio no. Quando c’è Adani, conto fino a cento e proseguo a fatica la visione di quello che avviene in campo cercando di trarne impressioni personali. Se in campo c’è una sudamericana, devo invece prepararmi a una continua lezione di vita tipo Do Nascimiento da uno che cerca di dimostrarmi che il calcio è questo, solo questo, e il resto è una merda inaccettabile. Se in campo poi c’è addirittura Messi, devo prepararmi a un’idolatria a 120 decibel (e nani manco fosse Disneyland) nei confronti di un giocatore che – ma come potete pensare il contrario? – c’è solo Lui, il Secondo Messia, e gli altri sono delle merde insignificanti, piccoli punti luminosi nell’universo del Pallone dove c’è una sola stella che brilla e gli altri sono dei led che li compri a strisce all’Esselunga. Che poi, porco cane, che tesi rivoluzionaria sarà mai l’esaltazione del calcio sudamericano e dei suoi migliori interpreti? Non sono luoghi comuni agghindati a festa con frasi sconnesse, che la prima volta fanno tanto folklore e la seconda hai l’impulso di chiamare il 118? Le telecronache tifose, correttamente, una volta erano confinate su un secondo canale audio. Se voglio Pizzul, sento Pizzul. Se voglio Scarpini, premo l’apposito tasto e mi perfondo di è gol, è gol, ègolègolègol. Io non voglio Adani ma non ho un cazzo di niente da premere per escludere dalle mie partite questo pittoresco invasato autoreferenziale che un tempo vestì la maglia per cui spasimo. Però io non dimentico: nel 2003, portai le mie figlie a vedere un allenamento infrasettimanale ad Appiano, quando ancora la tribunetta era aperta al pubblico e potevi vedere i giocatori a qualche metro. Poi, dopo l’allenamento, tutti alla porta carraia: ci sistemammo ai lati della strada a vedere sfilare i giocatori che se ne tornavano a casa. Guarda Zanetti! Guarda Toldo! Guarda (aspetta, chi cazzo è, ah sì) Brechet! Tutti salutavano, qualcuno addirittura si fermava a fare una foto. Poi arrivò un macchinone nero che sgommò manco avesse visto un posto di blocco della Finanza, passando in mezzo alla piccola ala di folla di tifosotti, da cui si levò qualche timido vaffanculo. Il passeggero era Vieri, guidava Adani. Mi sta sul culo da allora, poi ditemi che non vi avevo avvertito.

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