
Per tutta la settimana – è una scaramanzia talmente farlocca che posso tranquillamente spoilerarla – dopo pranzo mi sono fatto un Istanbul. Quelli che come me fanno uso del Nespresso, anzi, fanno parte del Nespresso – una specie di massoneria alimentare – sanno di cosa parlo. Capsulina giallo ocra istoriata, intensità 8, un caffè eclettico e allo stesso tempo armonioso – sto copincollando lo spiegone – come l’atmosfera frenetica delle prime caffetterie, nate in questa città cosmopolita dell’antico Impero Ottomano (sospiro). Dinamico come la storia del caffè in questa città, storico crocevia delle antiche rotte commerciali.
Che copy, che poesia. Uhm, questa settimana insomma mi sono fatto quasi una stecca di Istanbul. Avverto, schioccando le labbra, che l’unione di due diverse varietà – l’Arabica dell’Etiopia e il Robusta dell’India, e torno a copincollare – offre un profilo splendidamente complesso, con note tostate e di frutti selvatici e un gusto amaro e una spiccata acidità. Secondo Nespresso, nel minuto circa della mescita potevo legittimamente sentirmi un po’ a Istanbul, e così ho fatto.
(un giorno mi occuperò della questione Nespresso. Dall’inizio nutro il sospetto che dentro le 25 diverse capsule ci sia lo stesso caffè e che le note tostate e la spiccata acidità siano un’esperienza indotta da una specie di autosuggestione, l’effetto dell’appartenere a questa casta che aspetta l’uscita delle nuove fragranze come fossero un disco di Battisti e che, dovunque ci si trovi nel mondo, entra nel negozio Nespresso come fosse il Prado)
A parte il caffè, che per qualche istante mi faceva sentire a Istanbul prima di affacciarmi alla finestra e di rendermi conto con un’indicibile tristezza di essere a Pavia – poi dicono che il caffè ti tira su – di Istanbul mi sono occupato poco. Calcisticamente, intendo. Ho letto pochissimo, quasi niente. Non ho letto nulla del City. Mi ricordo che 13 anni fa mi successe la stessa cosa con il Bayern: dopo tutto quello che ci era successo nelle settimane e nei mesi precedenti, non c’era nulla che mi interessasse dei nostri avversari. Quando qualcuno mi disse che non avrebbe giocato Ribery, il mio commento tecnico fu:
“Ah”.
Non me ne frega niente di chi gioca e di chi non gioca. Di questo City, come di quel Bayern. Lo scoprirò quando si schiereranno a centrocampo con i bambini davanti. Del City abbiamo tutti ben fisse quelle tre o quattro nozioni: in sintesi, sono fortissimi, hanno un sacco di alternative, saranno cazzi. Ma non mi interessa, lo sappiamo tutti e basta, stop. Tantomeno, mi interessano le questioni tecniche. Fossi io l’allenatore dell’Inter, darei sommarie indicazioni ai giocatori:
“Lo vedete quello spilungone biondo? Ecco, qualcuno gli dia un’occhiata. Anche all’altro biondo, quello un po’ meno grosso, visto, sì? E’ uno che ci sa fare a centrocampo. State all’occhio, divertitevi, domani giorno libero! Mucha Mierda!”
Non mi interessa se pioverà o ci sarà il sole, se l’arbitro è neonazista o castrista, non mi interessa più niente. Mi interessa solo che si giochi.
Il City è un gradino sopra, ci può ingoiare in un sol boccone, vincere il match di un due/tre semplici mosse, concedersi una goleada per il suo triplete in grande stile. In teoria non c’è partita. Ma a me interessa la pratica, voglio sentire la musichetta, il fischio dell’arbitro, l’urlo della folla. Voglio vedere rotolare il pallone. In teoria non c’è partita, ma nella pratica?
Nella pratica, abbiamo conosciuto quest’anno un’Inter di coppa che non ha avuto niente da spartire con una certa Inter di campionato. Un’Inter che in Europa ha giocato partite di grande sofferenza portando a casa il risultato. Un’Inter che in Italia ha giocato quattro finali in due stagioni e le ha vinte. Se tutto questo avrà un peso, boh, io non lo saprei dire. In questi giorni mi sono molto concentrato sul distinguere le note tostate nel contesto di un gusto amaro che mi ha fatto dire:
“Ma se io adesso mi bevo un Milano, un Palermo, un Napoli (rumore di tuoni) sentirò le stesse cose? Le note tostate le sta elaborando il mio cervello per farmi sentire in pace con me stesso ed evitare una spiacevole class action?”
Ma oggi è diverso, oggi tocca concentrarsi e aspettare le nove di sera. Se la Nespresso avesse un Madrid, me lo berrei un’oretta prima e chiuderei gli occhi per sentirmi come mi ero sentito al Bernabeu. “Entra, respira, guarda dove ti hanno portato i ragazzi”. Ecco, questo pensiero lo replicherò di sicuro. Non perchè porta bene, ma perchè è vero.