Aria nuova

Nella provvisorietà di un mercato ancora aperto (aperto stabilmente, come l’home banking di ‘sti arabi sempre pronti a fare mostruosi click verso chiunque) e dei bermuda indossati da nove decimi degli spettatori maschi (lo stadio d’estate non sembra una cosa seria, un tempo ormai lontano il 19 agosto si giocava al massimo la Coppa Italia con la Sambenedettese), iniziare con una vittoria e, più ancora, con una simpatica operazione-sorriso non è male per tornare al nostro normale mode, cioè occuparci della squadra per cui spasimiamo fin da quando eravamo bambini (tipo Lukaku con 17 squadre diverse) (era un bambino molto appassionato, come lo siamo stati noi, anche se meno ecumenici).

Il sorriso non dipende solo dal fatto di avere vinto (beh, oddio, fosse finita 0-1 come qualche mese fa ci sarebbero stati suicidi collettivi che le sette giapponesi manco si sognano), ma dal come. E cioè giocando una partita senza ansie, positiva, mai fuori controllo, alla ricerca di un gol che prima o poi sarebbe arrivato. Partite che capitano spesso, ma non sempre.

In attesa di vedere davvero all’opera i nuovi (intendo quelli subentrati), i vecchi non sono affatto dispiaciuti. Bellissimo che Lautaro abbia iniziato così, da condottiero. Ma anche, per esempio, che i due olandesi abbiano mostrato una voglia e una forma mentale che l’anno scorso andava un po’ a sbalzi (specialmente in un De Vrij che sembrava imbolsito), e in generale che tutti sia andati al di là dell’ostacolo che poteva essere quello di non far sentire la mancanza di nessuno (tipo Brozo), una robetta da ansia da prestazione che però, appunto, non s’è vista.

Per Sommer si attendono serate un po’ più significative (ieri avrei fatto clean sheet anch’io, credo) e forse anche per Thuram, cui di certo non mancano nè fisico nè qualità. Sulla sua propensione al gol, boh, non si sa, non è chiaro. Ma proprio questo è un tema molto centrale per la nuova Inter, perchè se Inzaghi dice che i problemi della rosa sono altri e che il reparto punte va bene così – e cioè, Lautaro a parte: con uno che non garantisce reti a palate, con uno di 34 anni (che ne compirà 35 prima che finisca il campionato) e con uno che si chiama Correa – allora vuol dire che l’obiettivo di fare dei gol non sarà tutto a carico loro. E questa potrebbe essere un’evoluzione interessante (un Sensi che si regga in piedi, per esempio, potrebbe essere l’arma in più).

A proposito di quello di 34 anni: beh, ottimo approccio. Io penso che abbiamo bisogno di gente così, che abbia voglia. Che ci piaccia a no, abbiamo già girato pagina. Ci sarà qualcuno che, occasionalmente, ci mancherà. Ma l’aria nuova è più importante. E di teste che ciondolano sul collo e di palloni che rimbalzano su stinchi enormi, diciamolo, eravamo anche un po’ stufi. Adesso non resta che resistere ancora 11 giorni. Qui al Nord ci sono 40 gradi e il 120% di umidità. Gli arabi vogliono Çalhanoğlu. 11 giorni passano in fretta*.

* non è vero, ma bisogna crederci.

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Coming soon

Nel sito dell’Inter, il cassetto “Squadre” è vuoto. C’è solo un avviso – “Presto online tutti i team della stagione 2023/2024” – che un po’ ti attizza (presto? Presto??? Davvero? Wow!), un po’ ti rincuora (presto o tardi non importa, ma anche quest’anno troveremo on-line la rosa della squadra, la nostra squadra) (sospiro) e un po’ ti inquieta: presto quando? No, perchè è il 4 agosto e se non erro (controllo) (no, non erro) il 19 parte il campionato e non abbiamo niente da metterci.

(ok, ora sto esagerando, d’altronde tutti noi tifosotti abbiamo un sottofondo uterino. Non è che non abbiamo proprio niente da metterci. Ecco, diciamo che l’outfit è un po’ incompleto. Abbiamo i pantaloni ma non le mutande, un calzino sì e uno no, alla giacca – che era da imbastire – manca una manica. Ok, possiamo sempre dire che è la moda, “quest’anno va la monomanica, non lo sapevi? Tzè, boomer”. Ma dopo un po’ se ne accorgerebbero tutti)

E poi: le rose saranno on line il 19 agosto o il 2 settembre? Inizieremo il campionato un po’ provvisori ma abbastanza completi (tipo, chessò, con un portiere professionista), oppure per la vera Inter dovremo attendere la terza giornata, a mercato concluso? Vabbe’, io mi accontenterei di fare clic su “squadre” dopo pranzo il 19 e, mentre mi sorseggio un Istanbul (ne avevo comprate sei o sette stecche, maledette scaramanzie di merda), vedere apparire l’Inter 2023-24. Magari non definitiva ma già definita. La giacca con due maniche. Calzini spaiati? Calmi, è la moda (forse).

Il tempo che stringe ci riporta alle ansie normali. Peccato, perché sarebbe stato bello continuare con le questioni etico-morali che hanno finora colorato il mercato. Il tradimento (ordinario, squallido) di Skriniar, poi quello (clamoroso, imperdonabile, psicopatologico) di Lukaku. Il breve commiato a Brozo, nemmeno il tempo di organizzare una bicchierata. Il non-rinnovo a gente come Handa e D’Ambrosio, consunti ma fedeli. La dolorosa rinuncia a Onana sul solito altare del vorrei ma non posso. L’ingaggio di Cuadrado, uno dei tre-quattro giocatori più odiati nell’universo conosciuto. Un mercato romanzesco. E mica solo il nostro, con tutto questo fuggi-fuggi verso l’Arabia e con Mbappè che si sta modellando addosso l’affare del millennio.

In tutto questo, tra calzini fallati e giacche smanicate, io continuo a essere pervaso da un innaturale ma inequivocabile senso di curiosità. Come se fossi intimamente sicuro di un lieto fine che, nella realtà, non è per nulla assicurato. Comunque vada, sarà un’Inter molto rinnovata. E se anche fosse un’Inter imperfetta, sarei curioso di vedere come intenderà cavarsela nel gestire le imperfezioni. Anche se oggi, 4 agosto, a 15 giorni dall’inizio del campionato, ci mancano due portieri e Correa è la terza punta: in bilico sul precipizio sono qui che fischietto, e un po’ mi piace. Del resto, con Lukaku che vuole andare alla Juve e Cuadrado che solca la fascia destra con la nostra maglia, non mi vorrete mica dire che il calcio è una cosa così seria?

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Portiere (non avere manco un)

A soli tre giorni dalla prima amichevole ufficiale, e a soli 27 dalla prima partita di campionato, l’Inter non ha i portieri. Ora, la cosa fa abbastanza ridere. Non so, tipo che uno invita gli amici all’inaugurazione della sua nuova casa: “Oh, complimenti, ma che figata questo enorme terrazzo con i muri attorno”, “Ehm, questo è il soggiorno”, “Cioè, scusa, non hai il tetto?” “Ehm, no”.

“Ehm, no” è la risposta che immagino riceverei, chessò, da Marotta se lo incontrassi in giro per Pavia. “Scusa Beppe, ma non abbiamo ancora preso i portieri?” “Ehm, no”. “E poi, scusa, cosa ci fai qui a Pavia? Non vai in Giappone?”. Vabbe’, ma questi non sono cazzi miei. Dei cazzi miei, intendo dire nostri, di tifosotti medi, fa invece parte il monitoraggio della situazione della squadra per cui stoltamente trepidiamo. E la situazione farebbe abbastanza ridere se invece non fosse terribilmente preoccupante. Cioè, non è che ci manca un quinto centrale o un settimo centrocampista per aumentare le rotazioni. No, ci mancano due portieri su tre. E abbiamo solo il terzo, oltretutto.

E’ spaventoso: 40 giorni fa eravamo in finale di Champions e ora non abbiamo i portieri. E’ come se Spielberg prendesse l’Oscar e 40 giorni dopo non avesse manco una Super 8. So già che presto, molto presto, potrei alzarmi di scatto tutto sudato in piena notte urlando:

“Ahhhh! Attaccano! ATTACCANO! Chi va in porta?”

Ma tutti mi dicono di stare calmo, che è questione di giorni, forse di ore. Ne stiamo trattando un casino, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Boh, sarà vero? Mi sono documentato. Ecco, in breve, la situazione.

Yann Sommer. Svizzero, portiere di talento ed esperienza, 35 anni a dicembre, non costa nemmeno tanto e verrebbe volentieri all’Inter per rinverdire i fasti di Ciriaco Sforza. La storia dell’incasinata clausola con il Bayern e dei relativi problemi burocratici è una colossale palla: in realtà, Marotta aveva scritto male il suo nome su un pizzino e Ausilio ha trattato per venti giorni con Andy Summers, il chitarrista dei Police.

Anatolij Volodymyrovyč Trubin. Compie 22 anni tra pochi giorni ed è fortissimo. Lui verrebbe all’Inter facendosi a piedi il percorso tra Donetsk e Appiano Gentile. Beh, e quindi? C’è purtroppo qualche problema nelle trattative: lo Shakhtar vuole 32 milioni più bonus, l’Inter offre la nuda proprietà di Correa, un abbonamento al secondo arancio e un buono spesa all’Auchan di Cesano Boscone.

David De Gea. Sembrerebbe la soluzione più naturale. 32 anni, quasi 33, in uscita dal Manchester United per fare posto a Onana (sospiro), grande esperienza internazionale, parametro zero. Wow. Peccato per quei 127 gol subiti nelle ultime due stagioni e per i 12 milioni di stipendio netto, due difettucci che lo rendono appetibile come una stufa a pellet nel deserto del Wadi Rum.

Keylor Navas. A dicembre fa 37 anni, un ragazzino. E’ sembrato molto interessato all’offerta dell’Inter corredata da un sontuoso bouquet di benefits, tra cui l’abbonamento Extra Gold a Dazn per poter vedere le partite su 17 dispositivi diversi. Ha dato l’ok al procuratore, con un’unica postilla: “La roba di Dazn è veramente una figata, ma non la posso scalare dai 9 milioni”.

Paul Henry Goodfellows. Profilo interessante, carriera immacolata, rendimento ottimo, doti naturali, pretese basse, massima disponibilità, totale correttezza, grande simpatia. Stavano già per mandargli una mail, quando in sede si sono accorti dell’inghippo: per un banale errore, la ricerca “portiere molto buono poco costoso libero subito” Ausilio non l’aveva fatta su Google, ma su Chat Gpt.

Walter Zenga. A 63 anni, in perfetta forma, molto interista, gradito dall’ambiente, carismatico, disinvolto con i media, ambizioso al limite dell’incoscienza, praticamente un pazzo, rappresenta il profilo perfetto nonostante un’età non più verdissima. Lui in realtà l’Inter vorrebbe allenarla, ma questa soluzione potrebbe essere il primo passo per fare in un prossimo futuro l’allenatore-giocatore, il suo sogno definitivo. A suo sfavore c’è il fatto che non gioca una partita da 24 anni, ma rispetto a tutti gli altri candidati ha un vantaggio innegabile: non gli devono cercare casa a Milano.

Paolo Mengoli. Compie 73 anni ad agosto, ve bene, non è di primissimo pelo, ma porta in dote con sè una grande esperienza (440 presenze con la Nazionale cantanti, più di Morandi e Sandro Giacobbe, mica cazzi) e quelle caratteristiche canore e di intrattenimento che potrebbero farne il naturale protagonista delle grigliate nerazzurre. Non ha grandi pretese di ingaggio, ma la trattativa si è incagliata quando ha chiesto che “Ahi! Che male che mi fai!” diventi subito il nuovo inno del club.

Lamberto Boranga. A ottobre farà 81 anni, ma si è ritirato solo nel 2020 (era tesserato nella Marottese, tra l’altro: un segno del destino) dopo aver battuto tutti i record di longevità. Quando ha iniziato a giocare non solo non era nato Steven Zhang, ma nemmeno suo padre. Essendo anche medico, potrebbe ricoprire un altro ruolo in società a costo zero. E’ detentore di vari record master nell’atletica leggera, quindi le visite mediche le passerebbe più velocemente di Lukaku. E’ l’ipotesi più affascinante, anche se si temono ricorsi dall’Inps e da Amnesty. Rintracciato dai giornalisti, ha detto: “Mi avessero preso due anni fa al posto di Radu, adesso avrebbero la seconda stella. Ma meglio tardi che mai”.

Ricardo Zamora. Portiere sicuro dei propri mezzi, elegante e spettacolare negli interventi, qualità che gli valgono il soprannome El Divino, Zamora è dotato di grandi riflessi e notevole temperamento. Innovativo rispetto ai canoni del ruolo, è stato l’ideatore di un insolito tipo di parata, detta appunto La Zamorana, eseguita avvalendosi dei gomiti o degli avambracci, ed è solito estendere in proprio raggio d’azione fuori dalla propria area, essendo abile anche con i piedi. Quello che fa per noi. Unico punto a sfavore: è morto nel 1978.

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Erano anni

Scusate se mi autocito, ma proprio nei giorni in cui confesso la mia irreversibile insofferenza verso il calciomercato in tutte le sue possibili estensioni – cioè che preferirei farmi ibernare il primo giugno e scongelare il primo settembre – esso, il calciomercato, mi regala un tale susseguirsi di emozioni che, scusate se cito Salvatores, erano anni che non mi divertivo così. E se ci fate caso, anche i più spinosi, anzi, apocalittici accadimenti di questi giorni – il tradimento di Lukaku e l’ingaggio di (rumore di tuoni) Cuadrado – sono transitati col passare delle ore da un’atmosfera cupa da “moriremo tutti” a un più giocoso “ma come diavolo ve le siete inventati ‘ste cose?”. A cui io ora aggiungo una postilla finale. Una parolina semplice e preziosa. Una chiosa con il sorriso.

Grazie.

Sì, grazie. Grazie. Grazie per la vostra fantasia, per la vostra inventiva, per la vostra faccia da culo (intesa nella sua accezione più positiva, quasi ammirata, un rozzo sinonimo di “coraggiosa sfrontatezza”, ecco). Grazie.

Sì, va bene, amici tifosotti, regalate pure il vostro abbonamento al primo che passa, disdicete Dazn, prendetevi i vostri periodi sabbatici, seguite per un anno il/la (segue il nome di squadra italiana o estera di ogni ordine e grado) oppure il/lo (segue il nome di un altro sport che non sia il calcio). Fate il cazzo che volete, siamo in democrazia, no problem. Peccato, però: rischiate di perdervi un periodo storico parecchio divertente. Perché, volendo essere seri o seriosi, adesso dovremmo stare qui a parlare d’altro. Per esempio, di arabi che vengono a fare la spesa da noi e cercano di spostare il baricentro del football in mezzo alle dune. E quindi dovremmo parlare del nostro movimento, delle pezze al culo generalizzate, dei bilanci da sprofondo, di un’autorevolezza che va e che viene e che adesso se ne va, uh, sì, se ne sta andando lontano, trattati da quattro beduini parvenu come il discount del pallone, gli scaffali che si svuotano a vista d’occhio, robe così.

Ecco, pensate se non ci fossero stati Lukaku e Cuadrado. Altro che farsi ibernare. C’era da prendere un’astronave verso Marte e fare consapevolmente la fine di Matt Damon: da soli in un pianeta inospitale, senza Sky, senza Dazn, senza la Gazza, addirittura senz’acqua. Tutto meglio che sorbirsi il calciomercato e poi otto mesi di Serie A, una sbobba totale, la morte civile. E invece no. Siamo qui, vivi e vegeti, e ci divertiamo pure. Perché, scusate se cito Flaiano, la situazione sarà anche grave ma per fortuna non è seria .

Anzi, è divertente. Molto, moltissimo.

Ieri mi sono sganasciato a guardare il video dei primi momenti di Cuadrado in nerazzurro (Cuadrado in nerazzurro: ma vi rendete conto? Non è meraviglioso?). Lui che si ferma sulla soglia della porta, come se avesse paura di un gavettone o di una bomba a grappolo. Un fotografo che gli dice: vieni avanti, non ti facciamo niente. Lui – lui, un poeta del piede a martello! – che finalmente vince la timidezza fa due passi fuori, dove lo attende uno striscione minaccioso di soli 570 metri, che sarà mai. E finalmente si distende, fa il selfie con un tifoso altrettanto coraggioso, che per lui in quel momento è un approdo sicuro ma anche una specie di scudo umano, e mentre sorride davanti al telefonino un altro tifoso, dalle retrovie, lo manda a cagare. Ho rivisto il video trenta volte. E ogni volte ridevo, come mi capita solo con Hollywood Party e i Blues Brothers.

Grazie. Grazie per tutto questo. Ci sono 60 gradi e il 164% di umidità, ma è un’estate bellissima, intrigante, davvero top. Grazie.

Lukaku è già il passato, vada a giocare sulla sabbia o alla Continassa, who cares? Cuadrado, invece, è il presente e il futuro. Un presente e un futuro che non ci potevamo immaginare così straordinariamente vivace e ricco di spunti. E’ fantastico. Sono andati via giocatori con centinaia di presenze: puff, il lutto è già elaborato. Sono arrivati Frattesi e Thuram: manco più una riga sui giornali. C’è solo Cuadrado. Cioè, io sono avvinto da questa cosa, totalmente avvinto. Come quando sei sul divano e guardi un b-movie o un programma sgangherato e niente, rimani lì incollato perchè vuoi vedere come va avanti, come va a finire. Ecco, così, esattamente così. Con una divertita leggerezza che mai mi sarei aspettato di questi tempi in cui, calcisticamente parlando, mi annoio a morte.

Noi, ragazzi, invece dobbiamo solo divertirci. Perchè, scusate se cito Elio e Graziano Romani, c’è solo l’Inter. E io lo so cosa state pensando tutti, anche quelli dell’anno sabbatico o dell’abbonamento regalato al cognato della cugina del vicino di casa: state pensando a Cuadrado che entra dritto sulla caviglia di Chiesa, l’arbitro dice che va bene, lo stadio sobbalza e allora lui scende sulla fascia, incredulo, perché 80mila persone che di solito lo mandavano affanculo ora sono lì che trepidano per lui, e lui allora triangola con Barella, entra in area, tira, la palla passa sotto le gambe di Szczęsny, gol. Voi state pensando esattamente a questo. Perché apparteniamo tutti a questa sottospecie subumana dei tifosi di calcio – rifiuti della società, in sintesi – e le nostre questioni di principio, oltre che ridicole e marginali, sono anche di breve durata. E siete lì, come me, sui vostri divani a sorbirvi il b-movie di questi giorni perché volete vedere come va a finire.

Che poi i b-movie hanno sempre il loro perché. Ci sono battute che vi faranno sempre ridere. O immagini a loro modo indimenticabili. Poteva essere Maradona con la bandiera dell’Inghilterra, il generale Custer vestito da indiano, Diabolik alla festa della polizia, Orban con la T-shirt del Che. Invece è Juan Cuadrado con la maglia dell’Inter. Se tutto questo accade – anzi, se tutto questo accade come se fosse una cosa normale – a noi tocca solo di alzarci in piedi e dire grazie, grazie, grazie! O preferivate passare l’inverno a vedere Sassuolo-Empoli o Frosinone-Lecce? No, ditelo.

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D. C. (dopo Cuadrado)

Torniamo un attimo indietro, ma proprio un attimo. Torniamo a ieri pomeriggio. Era una domenica d’estate, 45 gradi percepiti, la finale di Wimbledon, evitate di fare attività fisica all’aperto, mangiate frutta e verdura, quelle robe lì. Torniamo insomma all’epoca A. C. (avanti Cuadrado). Ci siamo? Ok.

Partiamo dal numero 23, 20 giocatori di movimento e 3 portieri. Tra cessioni e mancati rinnovi, l’Inter aveva già pianificato di cambiare 9 giocatori della scorsa stagione (Onana, Handanovic, Cordaz, Bellanova, D’Ambrosio, Skriniar, Gagliardini, Brozovic, Dzeko), cioè il 39% della rosa. Cui nelle ultime ore si è aggiunto Lukaku, portando il totale a 10 e la percentuale di rinnovamento al 43% (e almeno un paio restano nel limbo, il mercato è ancora lungo, potremmo sfondare quota 50%). E io tutto questo, calcisticamente, al netto di qualche scelta dolorosa, lo trovavo terribilmente eccitante. Tanto eccitante che ho metabolizzato nel giro di mezz’ora l’affaire Lukaku (pronuncia: affèr Lukakù), partendo da uno stupefatto “ma no, dai, non ci credo” a un consapevole “ma se ne vada affanculo”. Perché, nel mio nuovo ruolo di osservatore eccitato del mercato (lo so che era meglio farsi ibernare, ma patisco il freddo), mi metteva una certa tristezza la prospettiva di cedere uno dei pezzi migliori, un portiere 27enne cazzuto con margini di miglioramento, per un attaccante 30enne forte finché si vuole ma con qualche tara fisica e senza margini di miglioramento, oltre che vittima di una orribile pratica feticista – respingere i tiri a colpo sicuro dei compagni nelle finali di coppa.

Insomma, fino al tardo pomeriggio di ieri, mentre la temperatura planava verso i 30° con il 175% di umidità e Alcaraz alzava il trofeo on the grass, ero un interista sereno. Ma non sapevo che si stava per chiudere così l’era A. C.

Cuadrado.

Allora. Se tutto questo (io spero ancora che non sia vero) dipendesse solo da un’improvvisa e irrefrenabile voglia di metterla in rissa con la Juve, se incontrassi Marotta e C. al bar gli darei una pacca sulla spalla e gli direi: “Sì, ok, bello, ma porca troia!”. Che poi è la stessa cosa che gli direi a commento di qualsiasi altra ipotesi, comprese quelle tecniche, tattiche, macroeconomiche e politiche, comprese quelle teoricamente ineccepibili (tipo che prendere un jolly della fascia destra svincolato che gioca in serie A da 15 anni e fa ancora la sua porca figura quando le metti dentro è un affare). Perchè mentre ordino un caffè a Marotta, Ausilio, Antonello, Zanetti

(no, pensa alla scena. Io a Pavia che vado al banco e faccio lo splendido e ordino “un bel cafferino per i miei amici!” e Zanetti dice “amici nerassurri!”)

e lascio che il barista posi sul tavolino le cinque tazzine, dopo un attimo di silenzio direi solo “Sì, ok, bello, ma porca troia!”

Al che Antonello, il più british dei quattro, finendo di sorseggiare il caffè, e posando con leziosità la tazzina sul piattino, mi guarderebbe negli occhi e mi direbbe: “Sì, ok, ma tu sai soltanto dire sì ok bello ma porca troia? E poi – mentre nel bar cala all’improvviso il silenzio e tutti in quel momento sembrano guardare Antonello – ma tu, precisamente, chi cazzo sei?”

Al che io, mentre anche Marotta, Zanetti e Ausilio mi guardano e si chiedono la stessa cosa ma senza dirlo (in fondo gli ho appena offerto un caffè), mi alzo nel silenzio più totale e mentre tutti adesso guardano me e dico:

“Io sono un blogghe, ma voi che cazzo ne sapete? A me mi ha capito soltanto Cassano, forza Inter, Juve merda!”, e me ne andrei posando dieci euro sul banco dicendo “tieni il resto, gringo! Amala!” e il gringo mi direbbe “Oh, barbone, al tavolo sono 2 euro e venti!” e io gli direi, già sull’altro marciapiede: “Gobbo! Ladro! Viva la libertà!”

Vabbe’, ma tutto questo non c’entra con questa orribile questione che forse (cioè, non me ne faccio una ragione) prendiamo Cuadrado. Perché, ecco, in questo mondo del calcio clamorosamente sopra le righe e insopportabilmente privo di morale, ogni tanto bisognerebbe tirare una riga. Una società, un giocatore, un dirigente, un presidente, un allenatore (un procuratore no, figuriamoci) ogni tanto dovrebbero un attimo fermarsi, tirare una riga e dire: “No, vabbe’, dai, questo no”.

Cuadrado è la faccia della Juve degli ultimi otto anni, è l’incarnazione della juventinità più deteriore, quasi macchiettistica. Se dovessimo descrivere la Juve dell’ultimo decennio attraverso un volto, un fallo, un tuffo, una protesta, un pugno, una provocazione, un’arroganza, un gol preso, ecco, sono sicuro che tra le prime tre opzioni a chiunque verrebbe in mente Cuadrado.

Che poi uno potrebbe dirmi: “Sì, ok, bello, ma porca troia! Ti sei fatto andare bene pure Conte!”

E io gli risponderei:

“Ehi amico, a parte che sì, ok, bello, ma porca troia lo dico solo io. A parte questo. La questione Conte è per certi versi sovrapponibile ma per molti altri no. Conte era una scelta top destinata a inseguire un obiettivo top, se n’era andato sbattendo la porta, non ci aveva presi a pugni fino a due giorni prima. Conte era una scelta estrema per toglierci da una situazione estrema (cioè che non vincevamo un cazzo da anni, my friend). Con Cuadrado – solo l’aver pensato a un’ipotesi Cuadrado – ci poniamo in uno scenario apocalittico in cui i confini morali vengono calpestati nel nome di un parametro zero qualunque”.

“Scusa, puoi spiegarti meglio?”.

Ma sento queste parole sfumare nel mio povero cervello mentre quelli dell’Asl spuntano le domande del questionario:

“Scusi, ma lei non aveva appena rinunciato all’ibernazione?”

“Ci ho ripensato, fate presto, fa un caldo boia”.

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Al-qualcosa

Mettiamo il caso che uno lavori in un bel posto (boh, facciamo Parigi), in un’azienda importante, con una mansione di rilievo e con un ottimo stipendio (boh, facciamo 100mila euro netti l’anno). Ecco, se a questo qua un giorno si palesasse uno che gli offre venti volte tanto (sì, tipo due milioni l’anno) per un analogo o superiore incarico in un’azienda meno importante ma moooolto solida in un posto oggettivamente di merda (boh, facciamo Rozzano, per dire), offrendogli una casa di mille metri quadri con piscina, eliporto e rubinetteria d’oro (sì, a Rozzano, embè?) questo cosa fa?

Ci va, a piedi.

Quindi, basta con queste litanie sui campioni che vanno in Arabia. Avranno le loro ragioni e non c’è bisogno di spiegarle. Adesso che anche Milinkovic-Savic (uno tutt’altro che vecchio, o bollito, o entrambe le cose) ha deciso di andare a prendere pacchi di soldi nel deserto, passando direttamente da “giocatore che piace da anni a 200 squadre europee e nessuno però se lo piglia” a “vado in Arabia e andatevene tutti affanculo, lavoratori? Prrrrrrrrrrrrrrr”, ecco che ormai sarà meglio rassegnarsi a questa nuova situazione: l’Arabia entra a far parte del Primo mondo calcistico, che ci piaccia o no (è chiaro che non ci piace, ma quanto pensate che gliene fotta a Ronaldo, Benzema, Firmino e ai nostri amici Brozo e Milinkovic-Savic?) (Ve lo dico io: un cazzo).

Piuttosto, vediamo di conoscere meglio questo campionato. Per motivi di mercato sentiamo solo parlare di Al Nassr, Al-Hilal, Al-Ahli, Al-Ettifaq e Al-Ittihad. Ma le altre? Ecco qualche info.

Al-Caraz. Club di recente fondazione, fino a qualche anno fa si occupava prevalentemente di tennis e di padel, prima che i soci si rompessero i coglioni di sudare come bestie in mezzo alle dune. La nuova moda del calcio ha così imposto una provvidenziale riconversione al football. Per un paio di stagioni ha giocato in uno stadio ricavato dai vecchi campi in mateco: da qui il simpatico nomignolo con cui sono conosciuti i giocatori dell’Al-Caraz, gli “Escoriati”.

Al-Ban. Lo sceicco proprietario della squadra è un appassionato del bel canto e grazie all’impegno nel calcio si sta togliendo qualche sfizio personale. La squadra va ogni anno in ritiro precampionato in Puglia e l’inno del club è un remix arabeggiante di Felicità. L’Al-Ban non gioca mai durante il Festival di Sanremo: la partita viene di solito rinviata il lunedì, nel match che viene ormai tradizionalmente chiamato Nostalgia Canaglia Monday.

Al-Gorythm. E’ un club rivoluzionario nei suoi assetti: nel cda siedono uno sceicco e un computer. I giocatori vengono scelti da un software che li seleziona per ruolo, efficienza fisica e attitudini. Le trattative di mercato vengono condotte da Chat Gpt. Di una di queste è stata protagonista l’Inter, che ha offerto Correa per 50 milioni. Il computer ha esaminato la proposta e mandato questa mail: “Costa troppo poco, di sicuro è una sòla. Tenetevelo, barbùn”.

Al-Capon. E’ il club più chiacchierato e torbido, non a caso soprannominato “la Juventus saudita”. Già negli anni Settanta era sospettata di ingraziarsi gli arbitri offrendo loro barili di petrolio greggio. Poi, dopo uno scandalo doping negli anni Novanta (parecchi giocatori furono trovati positivi al cherosene, prima che tutto venisse insabbiato), la clamorosa condanna nel 2006 per Beduinopoli, con due petro-scudetti revocati.

Al-Miranth. E’ il club più schierato politicamente. Il proprietario, lo sceicco Al-Alà, ha dichiarato in una recente intervista di collocarsi nel solco della destra moderata europea, tra Marine Le Pen ed Hermann Göring. Dopo le polemiche suscitate da una recente vicenda – la squadra è entrata in campo con il fez al posto della kefiah -, l’Al-Miranth sta cercando di ripulire la propria immagine aderendo con convinzione al progetto di Fratelli d’Arabia.

Al-Legrhi. Il club è da sempre riconosciuto come simbolo dell’anti-calcio saudita. Per tradizione, la squadra si schiera in campo con lo schema 8-1-1, evoluzione di un antico 9-1-0 che ora l’Al-Leghri ritiene con orgoglio di aver superato con il nuovo spregiudicato assetto. I tifosi però non sono soddisfatti e ogni anno gli abbonamenti sono in calo: l’allenatore ha annunciato novità (“passerò al 7-1-2”), ma senza per ora aver sortito alcun effetto.

Al-Gidah. E’ l’unico club controllato non da uno sceicco petroliere, ma da uno sceicco gelataio monopolista dopo l’accordo con l’industriale arabo-americano Sam Montahn ancora al vaglio dell’Antitrust saudita. Simbolo della squadra è il Kornet, un tradizionale prodotto dolciario arabo: una cialda a forma di cono riempita di gelato alla vaniglia e cioccolato. Il Kornet viene servito semi-sciolto, proprio come a San Siro: “Il calcio italiano è il nostro riferimento”.

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Luisito, io, noi

Sono tanto vecchio da aver visto giocare Luis Suarez, ma non abbastanza vecchio da averlo visto giocare nell’Inter. Avevo otto anni e lui aveva la maglia della Sampdoria, fu una partita assurda – assurda lo dico oggi, all’epoca non avevo i mezzi per catalogare le partite se non attraverso gli umori scomposti e genuini dei miei zii – che fini 4-4 e lui, Suarez, un arzillo vecchietto (aveva ben 36 anni, quasi 37, poco meno dei miei zii già stravecchi, cioè era pronto per la fossa nel mio immaginario di ottenne), segnò nel finale il rigore del 4-4, non pago di avere servito poco prima a Marcello Lippi l’assist per il 4-3 (vincevamo 4-2, tripletta di Bonimba: non bastò).

Chi fosse – anzi, chi fosse stato per noi e per il mondo intero – Luisito Suarez l’avrei pian piano imparato nel tempo. Le mie primissime Inter vedevano in campo Facchetti, Mazzola, Burgnich, Jair, Corso, una roba superlusso e al contempo un po’ malinconica, la Grande Inter che invecchiava e vinceva sempre meno e perdeva i pezzi poco a poco, com’è normale che sia, c’est la vie. Tra i miti viventi mancava giusto lui, che ho intravisto quel pomeriggio con una maglia nemica ma poi avrei incrociato negli anni mille altre volte in un nerazzurro velocemente e finalmente ritrovato: allenatore, osservatore, uomo immagine, ambasciatore, commentatore, leggenda vivente, eccetera eccetera. Nell’imprinting del mio interismo c’è anche Luisito Suarez, senza averlo mai visto giocare ma avendolo sentito nominare un milione di volte, “eh, Suarez”, “ma ti ricordi Suarez?”, “ci vorrebbe uno come Suarez”, “uno come Suarez lo vedi ogni cent’anni”, e citato alla riga numero 10 della filastrocca sartiburgnichfacchetti che è poesia pura, una delle nostre preghiere laiche, la formuletta del nostro giuramento nerazzurro.

La Grande Inter è per me il parametro della Memoria e del tempo che passa. Nella mia traumatica prima volta a San Siro (8 novembre 1970, Milan-Inter 3-0) quella della Grande Inter era un’epopea ancora freschissima: l’ultimo titolo 4 anni prima, l’ultima finale di Coppa Campioni 3 anni prima, molti dei protagonisti ancora in campo, ancora giovani (Facchetti e Mazzola, per dire, avevano 28 anni). Non era solo storia recente, era storia ancora in corso, i racconti erano precisi, in fondo quasi non necessari, tanto gli avvenimenti erano vicini. Ecco, sono così vecchio che la Grande Inter non l’ho vista, ma non me l’hanno nemmeno raccontata abbastanza perchè era ancora lì, latente, una favola che nessuno voleva che finisse, e forse raccontarla significava archiviarla, e nessuno – tipo mia mamma e i miei zii – voleva farlo.

Poi il compito della Memoria – eh, ti tocca – piano piano te lo devi accollare tu. Passa il tempo e ti trovi a dover spiegare non solo chi erano i Beatles e Battisti, ma ormai anche Pino Daniele e Lucio Dalla. Non solo chi erano Suarez e Facchetti, ma anche Bonimba, Spillo, Lothar e ormai Ronaldo (perché non tutti sanno bene la storia del Ronaldo vero), Vieri, Baggio, per non dire di Zenga e Bergomi che a qualcuno devi raccontare che un tempo facevano un altro mestiere, altroché. Passa il tempo e cresce il numero delle cose che devi spiegare, perchè i ragazzi mica le sanno, o non le sanno tutte, o non le sanno bene. Anche il mito va un po’ alimentato. E siccome a me non hanno spiegato abbastanza cos’era stata la Grande Inter, mi tengo stretta la vaghezza di certi ricordi e di certe informazioni, per fortuna confermate dagli almanacchi. Mi tengo stretti i contorni sfumati di una leggenda che si costruiva mentre io era nella culla, del tutto ignaro del destino calcistico che mi attendeva mentre là fuori undici ragazzi con la maglia più bella del mondo scrivevano la Storia.

Luis Suarez non è solo quel centrocampista – il primo vero regista, dicunt – di cui si tramanda qualche vecchio filmato in bianco e nero, un giocatore elegante, abbagliante, affidabile, carismatico, decisivo. E non è solo quella cifra abnorme (300 milioni, era il 1961, un pacco di soldi con cui – dicunt – il Barcellona ristrutturò il Camp Nou) che Moratti padre spese per accontentare Helenio Herrera e mettere le solide basi a una squadra che infatti dominerà la scena mondiale per cinque anni, quasi sei. Luis Suarez è la Grande Inter, come gli altri nomi della nostra filastrocca preferita, e della Grande Inter è stato uno dei più grandi, forse il più grande, ma non starei qui a fare graduatorie perchè a) faremmo notte e soprattutto b) sarebbero parziali, ingenerose, probabilmente sbagliate. Inutili, ecco.

La Grande Inter è per me il parametro della Memoria e del tempo che passa. Oggi, che se ne perde un altro pezzo, mi sento un pelino più vecchio. E siccome mi accorgo ora che volevo scrivere un post su Luisito Suarez e invece l’ho scritto su di me, credo di aver capito il succo della questione odierna: Luis Suarez è l’Inter, noi siamo tutti Suarez, Luisito è tutti noi.

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Io e il calciomercato (un rapporto complicato)

Ho un rapporto sereno con il calciomercato. In estrema sintesi, posso tranquillamente dichiarare che mi farei ibernare ai primi di giugno per poi farmi scongelare il primo settembre direttamente davanti a un’edicola, al termine di una breve cerimonia alla presenza delle autorità civili, militari e sanitarie. Gocciolante e ancora mezzo rattrappito, andrei al chiosco e pronuncerei le mie prime tre parole da redivivo

“La Gazza, grazie”

e poi mi siederei al tavolino di un bar a leggere le due pagine di tabelle definitive, cominciando dall’unica che mi interessa veramente – Inter acquisti, Inter cessioni – per poi proseguire a scalare con le altre. Poi cercherei la classifica di serie A (perchè nel frattempo saranno state giocate almeno un paio di partite) (e se l’Inter avesse meno di 6 punti tirerei giù i primi santi da redivivo) e infine andrei dal medico di famiglia a farmi dare una controllatina a battito, pressione e quel paio di altre cosette che potrebbero interessargli del suo unico paziente che si fa ibernare due mesi e mezzo l’anno, quasi tre.

Certo, mi perderei l’estate, le vacanze, mondiali ed europei vari (compresi quelli di calcio, se giocati non nel deserto), le Olimpiadi, Wimbledon, le amichevoli precampionato (un giorno giochi con la rappresentativa della Val Trompia, il giorno dopo con il Paris St. Germain), e vabbe’, chi se ne frega. Ma mi leverei da cazzo il calciomercato, che sarebbe come dire che da un’estate-tipo mi leverei dal cazzo afa, zanzare, notti torride, ascelle pezzate, quelle robe lì.

Se il calciomercato fosse una sequela di annunci veri, sarebbe anche divertente. In fondo io da sempre guardo l’Eurofestival solo per le votazioni finali: cioè, roba concreta, numeri fatti e finiti, classifiche in rapido divenire, collegamento con l’Albania, i 12 punti vanno all’I-ta-liaaaaaa, figata. Invece no: prima di arrivare all’annuncio concreto – Tizio passa dalla squadra X alla squadra Y per Z euro e per tot anni di contratto – ci si deve sorbire una tale ridda di voci, illazioni, ipotesi incrociate e dichiarazioni di comodo che io di solito verso il 15 giugno ho già esaurito la pazienza.

Per inciso, il 15 giugno mancano ancora 15 giorni alla vera apertura del calciomercato.

Per cui dopodopomani, primo giorno ufficiale di calciomercato, io vorrei non-esserci da almeno due settimane. Se solo la commissione di bioetica approvasse questa mia proposta, io adesso sarei in un blister a -50 e starei già sognando quel tiepido mattino di settembre in cui, gocciolante, intorpidito ma sempre più lucido, scoprirei tutto dalla Gazza in un colpo solo. Tra “argh!” e “ma dai!”, tra “nooo!” e “sì!”, in pochi minuti (con Wikipedia a disposizione nel caso estremo del “ma chi cazzo è?”) verrei a sapere quello che voi, sì, voi, sarete costretti a elaborare in due mesi e mezzo di scoop e smentite, accordi e giravolte. Sarebbe bellissimo.

Sarebbe anche un modo un po’ estremo per saltare a piè pari la fase più complicata del calciomercato, quella sentimentale, tra giocatori che se ne vanno (perchè ci si affeziona a tutti) (quasi a tutti) e altri che vorrebbero arrivare e magari sono stritolati nell’effetto domino di affari che non si fanno. Zac!, una volta scongelato affonterei anche queste spossanti questioni a cuore più leggero, essendo già successe da settimane e quindi bòn.

Oppure, in subordine, vorrei che si tornasse al calciomercato antico, quello solo all’hotel Gallia, i box delle squadre, i trasferimenti conclusi al bar o nel garage. Pochi giorni di suk e via, verso la nuova stagione. Invece, alla diciassettesima ipotesi su un affare che “tarda a concretizzarsi” mentre si profila “l’inserimento della (nome di squadra che ti sta sui coglioni)”, vengo preso da pensieri di morte, terrore, distruzioni o disfattismo. Quella voglia di non occuparsi mai più di calcio e di Inter, una voglia insana che dura magari anche dieci minuti e poi passa. Ma sono dieci minuti bruttissimi, che non mi merito.

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Trattatello in laude di Acerbi

Mentre l’Inter viveva la stagione dei suoi successi a raffica (tra il 2006 e il 2012, da Mancini a Leonardo passando dallo Special One e Benitez, scudetti, Champions, triplete, coppe varie) (sospiro), a Pavia – 40 km da San Siro, controllate pure su Maps – transitavano giocatori che poi avremmo visto più o meno stabilmente in Serie A, o addiririttura in Nazionale. Il Pavia – che nel frattempo è fallito, sprofondato e rinato e oggi milita in Eccellenza, una specie di limbo tra il calcio che conta poco e il calcio che non conta un cazzo – in quegli anni così densi di interismo militava tra C2 e C1 (poi LegaPro): diciamo che avevo calcisticamente altro a cui pensare, ma che mi poteva capitare, in momenti di astinenza o di particolare afflato cittadino (o anche per lavoro, occasionalmente), di fare un salto allo stadio Fortunati e di guardare la partita di quella che, volendo essere precisi, potrei definire una delle mie seconde squadre, qualche gradino sotto la prima.

(la prima, non so se l’ho mai detto, è l’Inter. Poi, a livello di club, ci sono tre squadre di cui seguo passo passo i risultati e i rispettivi campionati: Vogherese, Pavia e Liverpool)

C’è stato un momento, diciamo a metà dello scorso decennio, che in Serie A giocavano contemporaneamente da titolari un calciatore di Pavia (Simone Verdi, che curiosamente non ha mai giocato nel Pavia) e quattro ex del Pavia: Giaccherini, Pavoletti, Falco e Acerbi. Una felice e rara coincidenza, per una città un po’ ai margini del calcio che conta. Giaccherini, Pavoletti e Falco hanno giocato un solo campionato a Pavia per poi andare altrove. Acerbi, invece, è stato a Pavia parecchio. Cinque stagioni, dalle giovanili alla prima squadra, inframmezzati da un paio di prestiti. Cinque stagioni. Potrei bullarmi a dire che io sì, l’avevo visto giocare da ragazzo e bla bla bla, si intuiva che bla bla bla, ma non me lo ricordo proprio. Probabilmente no, non l’ho mai visto.

A Pavia Francesco Acerbi ha esordito a 18 anni in prima squadra in C1, quindi nel calcio professionistico, domenica 23 aprile 2006 in Pavia-San Marino 4-0 (forse era un segno del destino, passato del tutto inosservato, ma nella corrispondente giornata di Serie A, anticipata a sabato 22, anche l’Inter vinceva 4-0 con la Reggina). Aprile 2006: da lì a un mesetto sarebbe successo il finimondo. Le ultime due stagioni le ha giocate da giovane titolare al centro della difesa. Poi il Pavia lo cedette in comproprietà proprio alla Reggina, che lo cedette al Genoa, che lo rimpallò in comproprietà prima al Chievo e poi al Milan (solo 10 presenze, ma due in Champions) e via così per qualche confuso passaggio di maglia e di cartellino fino a quello definitivo al Sassuolo. E da lì – è il 2013, dieci anni fa – la storia è nota.

Quando arriva al Sassuolo, Acerbi ha già 25 anni, e ne perderà uno abbondante per curarsi un tumore con recidiva. Quando a 26 anni e mezzo torna in campo, non più giovanissimo e una drammatica storia alle spalle, praticamente non ne uscirà più. Dopo un campionato di (ri)assaggio, seguiranno nove stagioni in cui le giocherà tutte o quasi. Quando parla della malattia lo fa con serenità e una punta di orgoglio: “Se non avessi avuto il tumore forse giocherei in B, o in C, o forse avrei già smesso”. Invece la sua rinascita personale si è realizzata sui campi di Serie A, dove per recuperare il tempo perduto (o forse, apprezzando la seconda chance che gli veniva data) è diventato un giocatore affidabile, generoso, puntuale, necessario. Lo ha fatto senza forzare, soprattutto nei toni, lasciando parlare i fatti. Punto di riferimento assoluto di Sassuolo e poi Lazio. E anche in azzurro, con la formula dell’usato sicuro: delle 31 presenze in Nazionale, 29 le colleziona dopo aver compiuto 30 anni.

Quando arriva all’Inter, anche a seguito di (oggi possiamo dire: grazie a) una spiacevole situazione creatasi con la tifoseria laziale, diamo tutti per scontato che sia il centrale di riserva, anzi, il sostituto di Ranocchia, non mancando di notare che Acerbi è addirittura 6 giorni più vecchio dell’ex capitano, alla faccia del ringiovanimento della rosa. Ma Ranocchia nel suo ultimo anno all’Inter aveva fatto 10 presenze, per lo più spezzoni, di cui 3 in Coppa Italia. Acerbi, nel suo primo anno all’Inter, farà 49 presenze di cui 12 in Champions League, compresa la finale, duellando in mondovisione con il miglior giovane centravanti dell’universo che toccherà tre palloni in 90 minuti.

Se l’aggettivo “sorprendente” è quello che forse più si adatta a descrivere la stagione 2022/23 dell’Inter, il giocatore simbolo non può che essere uno sorprendente come Francesco Acerbi. Che è meno patinato di Lautaro, meno frenetico di Barella, meno strabordante di Onana, meno pulito di Bastoni, ma ha dato a tutti una straordinaria lezione di calcio. La naturalezza con cui si è inserito nell’Inter, nel suo gruppo e nel suoi meccanismi difensivi è una delle chiavi dell’intera annata nerazzurra. Nella perenne ricerca del “giovane”, quasi non ti accorgi che il tuo colpo di mercato va per i 36. E quando te ne accorgi vieni colto da una piacevole sensazione: tipo che non c’è niente di scritto e che gli schemi possono essere stravolti anche da chi non ti aspetti. Un vecchio, o presunto tale.

Che poi varrebbe anche per Darmian, anche lui uno serio, senza effetti speciali, che magari ti distrai a guardare gli altri fino a quando non gli vedi fare una diagonale che Chuck Norris al confronto è Carla Fracci e ti alzi dal divano ad applaudire come avesse fatto un gol – che poi ogni tanto ne fa. E’ l’Inter italiana, diligente e un po’ operaia che ti regala una stagione con tre finali e tu che fai?, ringrazi e stop, la ami, li ami.

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Rimpianto & orgoglio

Cioè, qualcuno avrebbe davvero firmato per una buona sconfitta? Ovviamente no, in una finale di Champions esistono solo due risultati – hai vinto, hai perso – e tutte le possibili sfumature della sconfitta non cambiano il risultato. La Champions l’ha vinta il Manchester, il nome sull’albo d’oro sarà quello e non ci sarà nessun asterisco di fianco al risultato City-Inter 1-0*

* ma cagandosi addosso perché l’Inter ha fatto un partitone

No, purtroppo non funziona così. Non ci sarà nessun asterisco nemmeno riguardo la serenità, ancora più impalpabile della paura altrui. Però quella ce la possiamo godere, prendendo sonno con naturalezza: la serenità di avere giocato al 100%, di avere onorato l’impegno, di essere stati al livello di un’avversaria che gli algoritmi mettevano qualche gradino sopra. La malinconica serenità di accettare un sentimento che non era nella Top 10 delle previsioni della vigilia: il rimpianto. Il rimpianto di non aver prolungato la partita ai supplementari, forse addirittura di non averla vinta quando si poteva.

Ecco, l’Inter ci ha sorpreso anche stasera. Ancora non ci si credeva di vederla lì, a giocarsi la finale di Champions, e in fondo è andata oltre: ci ha fatto vivere una notte da leoni, una partita in cui non si capiva bene chi stava dominando chi, quando nei pronostici della vigilia era tutto molto chiaro. Il fatto di avere addirittura dimostrato di poterla vincere, beh, ci provoca un inatteso rimbalzo di umore: contenti proprio no, nemmeno così sereni, gne, umf.

Ci è mancata un po’ di lucidità e un po’ di culo, in una dose fisiologica, non clamorosa: sarebbe bastato. Aver concesso al City tre occasioni da gol in 95 minuti dà l’idea della razza di partita che abbiamo fatto in quella che è diventata quest’anno la nostra specialità di coppe, applicazione più sacrificio. Essere qui a mangiarsi i gomiti per essere arrivati anche noi tre volte vicini a segnare (anzi, più vicini di loro) è un altro indicatore di quanto l’Inter se la sia giocata, se la sia voluta tenacemente giocare.

Consoliamoci con l’orgoglio. Quello sì, poteva traballare di fronte a una partita anonima, passiva, rinunciataria. E invece gli abbiamo dato una bella lustrata: non ricorderemo questa serata per il risultato, ma per la bellezza di essere interisti sì. La sventolata di bandiere della nostra curva all’Ataturk, dopo il fischio finale, è stata una bella immagine di interismo.

E’ stata una stagione pazzesca, a tratti bellissima, qualche volta insensata, perché la pazzia una non la può eliminare del tutto. Abbiamo fatto tre finali, vincendone due. Inzaghi (anche lui non ha sfigurato davanti al presunto genio del calcio, anzi) e tutta la squadra vanno ringraziati per averci portato fin qui, ben oltre quanto potessimo immaginare. Abbiamo perso la Champions, arrivando a un millimetro dal mettere un gol che avrebbe cambiato le sorti della partita: è lo sport, è il calcio, le co-vittorie sono solo un’invenzione dei poveri di spirito. Forza Inter, siamo tornati nel club delle grandi: provare a restarci sarà il prossimo step, ma pensiamo pure tra un po’.

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