Meno tre

He did not say that because he knew that if you said a good thing it might not happen

(Non lo disse perché sapeva che se dicevi una cosa bella poteva non accadere)

(Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Ecco, già sento un brusio di ammirata approvazione: “Ma che cultura, ma che profondità, ma che blog, che blogger!, forza Inter, Juve merda!”. Amici, credo sia giusto spiegare: sono semplicemente andato alla pagina “Scaramanzia” di Wikipedia e ho fatto copincolla. Adoro le pagine di Wikipedia che sono brevi e vanno dritte al punto. Quindi, nello spirito più puro del blog di servizio e di divulgazione, copincollo la definizione:

La scaramanzia è una forma di superstizione secondo la quale alcune frasi o gesti attirerebbero o allontanerebbero la fortuna o la sfortuna. L’etimologia è incerta e potrebbe derivare dall’alterazione della parola “chiromanzia” (a sua volta di origine greca), quindi con un collegamento con l’ipotetica capacità di prevedere del futuro.

E fin qui ci siamo. Wikipedia parla di noi. In questi giorni è tutto un non dire (“No, non dire niente!”) tanto che se ci troviamo faccia a faccia con un altro interista, restiamo in silenzio. Magari siamo amici da trent’anni, ma siccome ogni frase potrebbe riservare un trabocchetto, non la diciamo. Il 95% degli argomenti nasconde insidie, doppi sensi, rimandi, link. “Come stai?”, per esempio, è una domanda crudele. Meglio stare zitti. Stiamo zitti come negli ascensori degli alberghi, quando facciamo qualche piano con degli sconosciuti a cui non sapremmo cosa cazzo dire – e perchè poi dovremmo mai dirgli qualcosa? – e poi dopo una lunga scena muta ci salutiamo, ciao ciao, perché in effetti un ciao non ha doppi sensi, mentre un “ci vediamo” potrebbe averne, e una qualsiasi scadenza (“ci vediamo la settimana prossima”) è una clamorosa badilata di rogna. La settimana prossima? Fanculo, chissà dove/come saremo la sett (frase tronca, mani sui coglioni, fuga).

Un tipico esempio di tale credenza è l’idea che dicendo qualcosa, questa non accadrà, o potrebbe accadere il contrario di ciò che si è detto. Per tale motivo, in particolare in Italia, si usa augurare il contrario di ciò che si desidera che accada. Per esempio, a un cacciatore non si dirà “Buona caccia”, ma “In bocca al lupo”, termine entrato anche nel linguaggio comune e utilizzato per augurare “buona fortuna”.

Quindi “Ho sempre ammirato il meraviglioso tiki-taka di quel genio di Guardiola” oppure “Haaland è il miglior attaccante mai apparso sul pianeta Terra” sono considerazioni che ogni interista dovrebbe far in questi giorni. Questa mattina ho aiutato ad attraversare la strada a una signora di 97 anni, lei mi ha detto “grazie mille” e io le ho risposto “Ma si figuri, tra l’altro Ederson è un portiere che mi è sempre piaciuto e sbaglia pochissimo”.

La scaramanzia non è limitata soltanto a frasi dette, ma anche a gesti e comportamenti. Per esempio, credere che se si esce senza ombrello pioverà, mentre invece portandolo con sé non pioverà (gesto apotropaico).

Io non ho comprato champagne, e quello che ho in casa non lo metto in frigo. Un mio amico voleva comprare una copia a grandezza naturale della Coppa dei Campioni, ma ha rinunciato. Sono giorni complicati. Io per sabato, a proposito, ho preparato un rito scaramantico clamoroso, che naturalmente non posso rivelare. Lo farò forse nei giorni successivi. Successivi a cosa? A sabato? Sabato non esiste. Il calcio non esiste. La tv non esiste. Il divano non esiste. No, non dire niente. Noi non ci conosciamo.

La figata della pagina di Wikipedia dedicata alla scaramanzia è che – per scaramanzia? – viene messa in dubbio da Wikipedia stessa:

Questa voce o sezione sull’argomento antropologia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Questa voce o sezione sull’argomento antropologia è ritenuta da controllare.
Motivo: voce un po’ raffazzonata

Non è meraviglioso? Quindi, fatemi capire: la scaramanzia è un po’ raffazzonata? Cioè, non ha basi di nessun tipo (stavo per dire scientifica, muahahaha)? Oh, lo dice Wikipedia. Quindi?

(disclaimer: da qui in avanti, non si fa uso di scaramanzia)

Il Manchester City è il grande favorito, è più forte dell’Inter, ci potrebbe mangiare in un sol boccone. Ha la grande occasione della sua storia, la prima Champions, il Triplete, tutto. Potrebbe caricarsi a palla, oppure sentire la pressione, questo è da vedere. Dipenderà anche da noi, se gli daremo l’impressione non solo che la partita se la dovranno sudare, ma che non staranno giocando proprio contro nessuno. Non facciamo finta di non avere visto le quote dele scommesse: sono la fotografia esatta della situazione. Senza offesa, partiamo da un gradino sotto. E’ una delle tre/quattro finali più sbilanciate dell’intera storia della Champions. Ma questo potrebbe essere un punto di forza. Le favorite ogni tanto si fanno la cacca addosso. Le underdog a volte fanno la partita della vita. La palla è rotonda. La partita è secca. Forza Inter.

(disclaimer: da qui in avanti si torna scaramantici)

Scusate, non ho scritto io. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. Mi hanno hackerato il sito. E’ stata Chat Gpt. Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!

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Meno quattro

Come stavamo il 18 maggio 2010, il martedì prima della finale? Sì, certo, eravamo di sicuro alle prese con l’ansia per il partitone, l’attesa che montava, eccetera eccetera, ovvio. Ma come stavamo davvero?

Ho fatto una cosa semplice, per quando riguarda me: sono andato a vedere cosa ho scritto sul blog il 18 maggio 2010. Beh, in effetti la cosa mi ha colpito parecchio: 13 giorni dopo aver vinto la Coppa Italia, due giorni dopo aver vinto lo scudetto, quattro giorni prima di giocare la finale di Champions, insomma nel bel mezzo di un crescendo pazzesco, alla vigilia di quella che poteva rappresentare – e lo rappresenterà, come ben sappiamo – la più clamorosa impresa di un club nella storia del calcio italiano, ecco, io scrivevo un post su Mourinho che se ne sarebbe andato.

Vigilia serena, eh? Il giorno prima, lunedì 17 maggio, non mi ricordo da quale giornale iniziò a diffondersi una notizia che doveva per forza essere vera. Perché non erano illazioni dei soliti tromboni del calciomercato o presunte superbombe dei gossipari del pallone. No: semplicemente, si venne a sapere che Mourinho non aveva rinnovato l’iscrizione dei figli alla Scuola americana del Canton Ticino. E tra i compagni – beata innocenza – non solo si confermava la cosa, ma qualcuno disse: sì sì, ci hanno detto che l’anno prossimo saranno a Madrid.

Ecco come stavamo il martedì prima della finale di Champions 2010. Di merda? No, tutt’altro. L’addio di Mourinho era l’ennesimo capitolo epico di una stagione epica, vissuta sempre in trincea, soli contro tutti dall’inizio alla fine, rischiando di perdere tutto e riacciuffandolo più di una volta. Mourinho fu sempre in prima fila in quella eterna battaglia contro il mondo intero: avversari, arbitri, circostanze, anche qualche mulino a vento. Decidendo di andarsene dopo due stagioni vissute pericolosamente, Mourinho faceva la cosa giusta per lui. Per fare la cosa giusta per noi, invece, gli mancava ancora un tassello. Gli addii anticipati (o almeno dati per certi, per quanto non ancora ufficializzati) di solito portano le squadre allo sbando. Non fu il caso di quell’Inter, che era un tutt’uno con il suo allenatore: bastò l’inerzia dell’incidibile tensione di quei mesi del 2012 per andarsi a prendere tutto anche al Bernabeu.

Non c’è forse niente che, sportivamente e storicamente parlando, possa essere paragonato tra l’Inter del 2010 e quella del 2023. Forse nemmeno l’attesa di noi tifosotti, se non per quella infantile e genuina percentuale di aspettativa che precede una finale, 90 cazzo di minuti in cui può succedere di tutto, e quindi perché non sperare?

Nel 2010, la nostra ansia era condita da una voglia feroce. Mancavamo da una finale di Champions da 38 anni – 7 anni prima ce l’aveva negata lo stinco di un milanista -, non la vincevamo da 45. In più, c’era aria di Triplete, un filotto clamoroso e mai riuscito a nessuna italiana. Arrivavamo da cinque scudetti di fila, era il momento di riprendersi l’Europa. Sotto la guida dell’allenatore più decisivo del mondo e di un presidente tanto munifico, tanto innamorato, tanto milanese da meritarsi la migliore ricompensa dopo 15 anni di presidenza faticosa, drammatica, a volte tragica. Arrivammo a Madrid tutti – giocatori e tifosi – stravolti eppure carichi a palla. Mentre vagavo per Madrid aspettando la partita, vedevo gli sguardi degli altri specchiarsi nel mio: non potevamo dircelo, ma eravamo sicuri che avremmo vinto. Quell’Inter non poteva perdere.

Nel 2023, stiamo inventando uno stato d’animo nuovo, a cui forse, se ne avranno voglia, psicoterapeuti e patologi della criminalità daranno un nome: un mood in cui albergano contemporaneamente la serenità, l’incredulità, la speranza, l’orgoglio e il panico. Il nostro allenatore è Simone Inzaghi, caratterialmente l’antitesi di Mourinho, uno che regala un campionato al Milan, in quello successivo cerca di battere il record di sconfitte ma in due anni fa percorso netto nelle coppe nazionali e ci riporta ai piani altissimi in Europa. La società ha un’altra veste, il presidente non parla sul marciapiede e, se anche lo facesse, lo farebbe in inglese. La squadra non ha quel peso specifico, non regge il ritmo-triplete ma è occasionalmente capace di tutto: la pazzia del resto è la nostra comfort zone.

La serenità, l’incredulità, la speranza, l’orgoglio e il panico: in attesa di studi più approfonditi, questa gnagnagnanza ci terrà per le palle ancora per quattro giorni. Ma va bene così: sono sensazioni rare e bisogna goderne. La gnagnagnanza provoca insonnia, nervosismo, pressione alta, amnesie temporanee? E chi se ne frega. Il messaggio del mio amico Michele – lui già sugli spalti del Bernabeu, io in coda ai tornelli – torna di moda 13 anni dopo: “Entra, respira, guarda dove ti hanno portato i ragazzi”. Già, comunque vada.

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Meno cinque

Magari ci mettono un po’, le cose, ad assumere un significato preciso. Ci mettono un po’, fanno giri immensi e poi ritornano – cioè, ritornano alla mente sotto una nuova luce. Prendi Inter-Monza e prendi me, che una sera acquisto on line quattro biglietti del secondo blu convinto di aver fatto una grandissima figata e sottopongo invece me stesso e la mia famiglia a un crudele spettacolo, lo sfacelo della mia squadra del cuore contro un club artificiale, al culmine di una crisi che sembra senza uscita e alla vigilia di una serie micidiale di partite con due competizioni ancora aperte – il campionato no, quello è chiuso, e mentre smanetto sul telefono tornando al parcheggio mi accorgo che siamo virtualmente sesti (poi lo saremo davvero).

Beh, chi lo avrebbe mai detto che dopo Inter-Monza avremmo vinto 11 partite su 12? E che ci saremmo guadagnati la possibilità di giocarne ancora un’altra, sabato 10 giugno, una data in cui di solito la squadra è ormai sparsa tra Sardegna, Maldive e Formentera?

Ecco, quindi quel centone per Inter-Monza direi che è stato ben speso. Posso raccontare di esserci stato e posso certificare di essermi goduto quello che è successo dopo, slurp, con una crescente entusiastica incredulità. Essendo rimasto settato su Inter-Monza, tutte le successive partite sono state belle, bellissime, straordinarie, clamorose. A parte Napoli, vabbe’, dove è chiaro che se avessimo schierato chiunque al posto dell’amico Gaglia in versione Fil Rouge di Jeux sans Frontières (“atterra quanti più avversari in un minuto usando solo le gambe”) l’avremmo sfangata e forse, chissà, avremmo pure vinto e sarebbero state 12 su 12. Forse fin troppo, meglio restare sottotraccia: e quindi grazie Gaglia per questo bagno di umiltà.

Nelle ultime 12, vincendo come noi la Coppa nazionale, il Manchester City ne ha vinte solo 9 (due pareggi, una sconfitta). Quindi, cazzo, loro saranno anche la squadra più forte del mondo, ma noi non siamo mica degli straccioni pervenuti alla finale a colpi di botte di culo. Arriviamo a Istanbul avendo vinto 11 delle ultime 12 partite, affrontando tutte le prime otto del nostro campionato. Quegli sfigati invece hanno perso con il Brentford, dai. Che essendo una squadra di un distretto di Londra ed essendo una quasi neopromossa è a tutti gli effetti una specie di Monza. Solo che noi con il Monza abbiamo perso 13 partite fa, in un’altra era, l’A.M. (avanti Monza). Nel D.M. (dopo Monza) siamo un’altra cosa. Questo è giusto che il City lo sappia. E’ onesto farglielo sapere. Si chiama fair play.

Mancano cinque giorni e saranno lunghi. Ma se posso darvi un consiglio, non pensate troppo ad Haaland o De Bruyne o Foden o (seguono altri dieci nomi). Pensate a noi che dopo Inter-Monza (a parte Napoli, dove abbiamo schierato Hulk Hogan a centrocampo) non abbiamo più sbagliato un colpo. Pensate a Torino-Inter, una partita che sembrava dovessimo devolvere in nome di un turnover selvaggio (circolavano i nomi più disparati, qualcuno mai sentito prima) e invece no.

Quando ho visto entrare in campo un’Inter quasi titolare, ho avuto un brivido. Ho pensato all’Nba e a Denver, che si è riposata 9 giorni più degli avversari costretti a giocare 7 partite in semifinale. Un periodo talmente lungo, parametrato ai ritmi dell’Nba, che molti temevano facesse più male che bene. Temevano che, più dei benefici del riposo, pesasse la ruggine dell’inattività. Rust, ruggine. Per “soli” 9 giorni senza giocare.

Ecco, aver vinto a Torino mettendo tutti in campo è stata una mossa intelligente. Niente ruggine in testa. Meglio giocare. E meglio vincere. Ehi City, noi ne abbiamo vinte 11 delle ultime 12. Tu hai perso col Brentford, vergognati. Sappiamo che vi state cagando addosso. Beh, fate bene.

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Vent’anni

Questo blog ha compiuto in questi giorni 20 anni. Si, li ha già compiuti e non l’ho detto a nessuno. Anche perché tra cambi di piattaforme, disordine fisiologico e idiosincrasia per le celebrazioni, una data precisa così su due piedi non ce l’ho. Di sicuro è dopo il 13 maggio 2003 (Inter-Milan, ritorno della semifinale di Champions) e prima del 28 maggio 2003 (finale di Manchester, ricordo che scrissi qualcosa di quella partita che avrebbe potuto essere un’Inter-Juve e invece era un Milan-Juve, e di quei drammatici rigori – cinque errori su dieci – che diedero un senso a 120′ minuti orribili che mi ero sorbito sospirando per ciò che non era stato). Dev’essere stato lì nel mezzo, tipo il 18, il 19, il 20, giù di lì. Non ricordo la data ma il mood sì.

Lo spunto emotivo per aprirlo fu proprio la struggente piega presa dalla storia di quell’Inter moratto-cuperiana. Qualche giorno dopo l’incrocio malefico tra il tiro di Kallon e lo stinco di Abbiati, pigiai il tasto invio sulla piattaforma Splinder. Il nome l’avevo scelto complicato e inequivocabile: il mio biglietto del 5 maggio 2002, stadio Olimpico in Roma. Non ricordo la data, ma il mood sì, altroché. E nello scimmiottare le denominazioni e gli header dei siti “veri”, mi inventati la formuletta – sito non ufficiale dell’interismo moderno – che spiegava tutto in una quarantina di battute: niente severgninismi, basta barzellette, a nessuno qui piace perdere e soffrire, prima o poi ne usciremo.

Ne sono seguiti vent’anni di Inter piuttosto mossi, diciamo così. Per sommi capi: la pura frustrazione, lo scandalone che ha rimesso le cose a posto, la Juve in B, cinque scudetti di fila, Mourinho, la Champions, il Triplete, il Mondiale per club, Moratti figlio che replica il Moratti padre, il declino (eufemismo), due cambi di proprietà, la rinascita, lo scudetto, il ritorno nella crema d’Europa, la finale di Champions più inattesa della nostra lunga storia. E’ stato tutto un riannodare di fili e una chiusura di cerchi. Il blog ha cambiato veste, nome (il biglietto di Madrid), logo (semplificato, tanto tutti mi chiamano Settore), umore, focus, frequenza (la vecchia / è stanca / e non ce la fa più). Resiste alle mode (il blog è totalmente fuori moda, diciamolo) perché ci sono affezionato. Resiste alle pressioni (scrivi poco / scrivi troppo / hai rotto i coglioni / ma scrivi solo di Inter? / e questo che cazzo è? Scrivi di Inter, va’ / non hai più voglia / ma quanto ti pagano? / cartonato, prescritto, gnegnegne) perché ci sono affezionato. Ecco, sì: ci sono affezionato, gli sono grato, sono stati vent’anni piuttosto mossi anche per me. Con il blog, per il blog. Grazie al blog.

Ho evitato l’argomento dei vent’anni perché la coincidenza si prestava a scaramanzie clamorose. Mi sono chiesto: posso dire che questo blog compie vent’anni nei giorni del derby 2023 di Champions e che l’avevo aperto nel 2003 per eleborare il lutto di una semifinale di Champions persa (senza perdere) proprio con il Milan. No, meglio che non lo dica. Poi ho pensato anche al colpo di teatro, tipo la Pennetta che vince lo Us Open e si ritira: se passiamo il turno, a compimento di vent’anni di accidentato percorso, scrivo un post, poi premo il tasto dell’autodistruzione e mi perdo nell’etere.

Ma poi ho anche pensato che la storia continua, e dal mio cantuccio estremamente periferico la voglio ancora raccontare, comunque vada, finché ne avrò voglia, finché l’affetto preverrà sulla stanchezza e sul semplice gesto di scendere e lasciare andare il blog alla deriva, ultimo post tot di giorni fa, che fine avrà fatto Settore?, boh, si sarà stufato, sarà diventato juventino, sarà morto, vabbe’, omnia transit.

In fondo, sarei qui oggi se Kallon avesse tirato un pochino meglio, o se Abbiati fosse stato piazzato un pochino peggio? Cosa sarebbe successo all’Inter, e cosa a me? Ho come l’impressione che la storia sarebbe stata un po’ diversa, chissà, forse più brutta. E che la mia – il blog e tutto quello che ha comportato – forse nemmeno ci sarebbe stata.

Le nostre vite di povera sottospecie umana – i tifosotti di calcio, gentaglia borderline – sono da sempre scandite dalle partite. Ragioniamo per campionati, non per anni solari. Per domeniche, gironi, calendari assortiti, quadrienni mondiali. Abbiamo una parte del cervello che bascula tra San Siro e Appiano Gentile, non possiamo farci niente. Anzi, non vogliamo farci niente. E’ così e basta, ci è toccata in sorte ed è – mi piace sottolinearlo – un discreta fortuna. Prendete me, per dire: dopo vent’anni, fiumi di parole, migliaia di post, miliardi di battute, sono qui ad aspettare ancora una finale di Champions, un’eventualità che davo per quasi impossibile dopo il magico e irripetibile 2010. Siamo qui ad aspettare, come sempre. Aspettiamo la partita che arriva, come sempre. Tifosotti dentro, irrimediabilmente.

Non volevo scrivere una riga per celebrare: sarà il caso? porterà sfiga? ma chi ti credi di essere? a chi cazzo fregherà qualcosa? Però questa cosa dei vent’anni ha un suo perchè. Sono un interista tra gli interisti, un puntino nella marea nerazzurra che si sta prendendo il lusso di vivere un’avventura che pensavamo fosse roba destinata ad altri. Sono giorni che un giorno racconteremo, comunque vada. Perchè rinunciare a farlo in diretta, prima che i blog si estinguano come i dinosauri e i mangiacassette?

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Il Toro, gli Imboscati e il Grande bluffatore

La Coppa Italia ha due firme. Quella di Lautaro, che quatto quatto ha superato i 100 gol in nerazzurro (segnandone due da centravanti superlusso) e ha messo il sigillo esclusivo su un trofeo nell’anno migliore della sua carriera (in cui ogni anno è meglio del precedente). E quella di Simone Inzaghi, specialista delle coppe se ce n’è uno, settima da allenatore, la quarta all’Inter in due stagioni con una finale ancora da giocare (e volendo fare i puntigliosi dovresti aggiungere tre da allenatore della Primavera della Lazio, e altre sei da giocatore. E in fondo ha solo 47 anni).

Una Coppa sudata, perchè la Fiorentina ha dato l’anima, ci ha pressato, aggredito, le ha tentate tutte. L’ha persa essenzialmente perché è più scarsa di noi, ci ha offerto molte opportunità ma se n’è anche procurate parecchie. Un paio di chiusure difensive e una paratona di Handa valgono quanto i gol del Toro. L’abbiamo alzata con merito, dopo esserci calati in una partita senza sconti sul piano dell’agonismo e del sacrificio. E’ stata in questo senso una buona prova generale in vista di Istanbul: le finali sono queste, sporche e ansimanti, ed è evidente che dovremo alzare il livello – insomma, togli Castrovilli e metti De Bruyne, togli Cabral e metti Haaland, togli questi e metti quelli là, insomma, ci siamo capiti.

E a proposito di togli e metti, chissà se anche a Istanbul, nel momento più caldo della partita, Inzaghi farà la mossa che a lui viene naturale e che ogni volta getta nel panico – un panico profondo, rabbioso, ricco di interrogativi – qualche milione di interisti:

togli i due migliori, metti Correa e Gagliardini.

Perché lo fa? Se fosse Mourinho, penseresti alla pura provocazione o al messaggio (poco) trasversale: le vinco anche con questi due, li metto apposta per farvi incazzare. Ma Inzaghi non è Mourinho. E’ un buono. E a meno che un giorno non si scoprirà che è totalmente bipolare, non resta che pensare che lui a questa mossa creda profondamente. Per il 75% è obbligata (Correa entra per forza nelle rotazioni d’attacco, non è che ne abbiamo dieci), ma nel 25% ci deve essere un’architettura di pensiero che andrebbe analizzata.

Perchè il punto non è tanto: metto Correa e poi forse Gagliardini, o viceversa, o magari anche no. Il punto è che, in un determinato momento e con ancora tanto (a volte troppo) da giocare, lui mette Correa e Gagliardini. Insieme, together, ensemble, juntos, zusammen.

Nella finale di Coppa Italia, con la Fiorentina che premeva, con la squadra già sufficentemente in difficoltà, con 8 minuti più 5 di recupero da giocare, lui toglie i due migliori in campo e li sostituisce con Correa e Gagliardini. Nella finale di Coppa Italia, con il risultato ancora in bilico e gli avversari in pieno forcing (quindi, voglio dire, un golletto lo potevano anche fare), tu togli i due migliori in campo che sono anche due dei tuoi tre migliori rigoristi e metti Correa e Gagliardini.

E’ stato in pura teoria uno dei doppi cambi più peggiorativi della storia del calcio. L’Ifssh riporta rari esempi di situazioni del genere. Pare che nel 1998 in Uruguay, in un match di serie C, l’allenatore inserì nel finale due giocatori che si erano ubriacati durante l’intervallo bevendo del mate corretto con la sgnappa, mentre in Lettonia nel 2003 per un errore nella compilazione della distinta una squadra di serie B schierò nel finale il magazziniere e l’autista del pullman per sostituire due infortunati.

Incredulo – no, lo ha fatto ancora! Perché? – ho smesso di seguire la partita vera per guardare quei due, solo loro. In pratica, mi è partita inconciamente la Correa-cam e la Gaglia-cam.

E’ stata un’esperienza orribile.

Correa, vabbe’, ha avuto il solito impatto sulla partita: mi ricorda quelli che a militare si imboscavano. Gagliardini, invece, si è superato. E’ l’Arturo Brachetti del calcio. A Napoli entrava a corpo morto su ogni pallone e ogni avversario gli capitassero a tiro, che Bruce Lee al confronto era Ironside. A Roma ha accuratamente evitato ogni contatto con il pallone e con i giocatori viola. A un certo punto la palla gli ha sbattuto contro: non so se avete notato, ma prima ha avuto un principio di svenimento, poi è andato dall’arbitro a discolparsi: giuro, non ho fatto niente.

Cioè, per 13 interminabili minuti abbiamo giocato in nove.

E forse adesso, a mente fredda, il disegno di Inzaghi mi appare in tutta la sua ambiziosa grandiosità. Battere la Fiorentina così, tout court, poteva avere un significato relativo. Batterla in nove, è un’impresa. Ed è un messaggio preciso al City. Mi sembra di vederlo, Guardiola, che tutto sudato assiste al finale di Inter-Fiorentina e si accorge che l’Inter aumenta le difficoltà, non si accontenta di vincere facile ma la vince difficile, sembra uno di quei giocolieri che partono con tre arance e finiscono che fanno roteare i cerchi a polsi, caviglie, collo e pisello. Al che chiama uno a uno i suoi e revoca i giorni di riposo: “Cazzo, questi ci fanno un culo così, domani doppia seduta e 700 giri di campo”.

Io Inzaghi lo stimo. Sembra un chierichetto, in realtà è un bluffatore patologico. A Istanbul farà scaldare Correa e Gagliardini dal primo minuto, Guardiola andrà in paranoia e per noi si apriranno scenari inimmaginabili.

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Cogli LA prima MELA

Totalmente avvinti dalle vicende interiste, i Gufi stavano quasi per dimenticarsi di gufare. Del resto, è stata una strana stagione. La Juve aveva rischiato di arrivare quarta nel suo girone di Champions, circostanza che avrebbe determinato un incredibile imprevisto: la mancata attivazione della gufata. Con i gobbi fuori dall’Europa già prima di Natale, senza nemmeno darci la possibilità di gufare, la stagione 2022-23 poteva passare alla nostra storia con un trattino (tipo quella magica 2004-2005, you know), n.g., non gufata, non ce n’è stato bisogno. L’orribile cammino bianconero ha quindi provocato un po’ di rilassamento, lo dobbiamo ammettere. Pensavamo che avrebbero risolto da soli, prima o poi, senza interpellarci. Invece in primavera si sono addirittura guadagnati le semifinali di Europa League pur nel generale disinteresse di una nazione intera, distratta da robette tipo il derby fratricida e l’Inter che va in finale di Champions, mica ‘sta sbobbetta dell’Europa League, vabbe’.

Al che Er Pomata un giorno richiama la truppa: “Siviglia-Juve, bisogna gufare prima che sia troppo tardi”. Ci sono un po’ di defezioni, gente in missione per conto di Dio, altra al lavoro, altra stanca per il troppo lavoro, cose così. Alla fine ci raduniamo in quattro: Er Pomata, Er Blogghe, Er Matita ed Er Molare. Pranzo frugale – vino, stuzzichini, salame, alcuni tipi di formaggio di cui uno servito con uno strumento di tortura del XIV secolo spacciato per un aggeggio per gourmand – e poi tutti schierati davanti al televisore. Er Pomata ha agghindato come al solito il salone delle feste con gadget a tema. In particolare, ha appoggiato sulla mensola sotto lo schermo un enorme gufo di terracotta che da solo oscura un terzo del pur mostruoso 150 pollici. In pratica, se l’azione si svolge a sinistra la si può solo intuire tra ali, penne e becco. “Scusa, non è che possiamo leggermente spostare quel…”. “No”.

Dopo una quindicina di minuti di assoluta inutilità, il match di Siviglia prende leggermente quota e le due squadracce in campo si procurano qualche occasione. Mentre condivido le sporadiche emozioni con Er Matita ed Er Molare, ci accorgiamo che Er Pomata ha cambiato umore. E’ pensieroso, dà segni di nervosismo. Continua a fare ricerche sul telefonino. Sbircio le sue gugolate: gel, brillantina, brillantina linetti over the top, bitume, dove trovare bitume, bitume made at home, asfalto, asfalto in testa fa male?, millechiodi, attack estremo, cemento armato, alluminio anodizzato, colata di acciaio, colata di acciaio in testa controindicazioni. E lì capisco. Gli era già capitato durante la gufata con il Lione: quando vede in campo qualcuno più pettinato di lui (a parte Zanetti, fuori classifica per motivi sentimentali), entra in fase down. Nel 2019 passò mezza partita a guardare con invidia Maxence Caqueret, stavolta è la pettinatura dell’arbitro olandese Danny Makkelie a rovinargli la serata. A un certo punto si avvicina al maxi-schermo con una lente d’ingradimento, valuta la calotta di Makkelie, ha un leggero gesto di stizza e torna nella sua poltrona padronale. Una lacrima gli solca il viso. “Sei preoccupato perchè il Siviglia non segna?”, gli chiede ingenuamente Er Molare. “No, vattene affanculo, lasciami stare”, sibila Er Pomata singhiozzando.

All’intervallo Er Pomata apre complusivamente bottiglie e versa vino a nastro. “Ma siamo ancora 0-0”, gli fa notare candidamente Er Matita. “Basta, non capite un cazzo, sciolgo il clan dei gufi, sciolgo il televisore nell’acido, sciolgo l’abbonamento all’Inter e…”. Alla parola Inter, Er Pomata ha un guizzo e torna in sè: “Ma chi se ne frega, Forza Inter, arbitro parruccato, Juve merda!”, dice abbracciandoci, baciandoci (“perdonatemi”, si lascia sfuggire) e versando altro vino, costringendo noi tre a bere ogni volta “che se non bevete porta male”.

L’eccesso alcolico e la liberazione di Er Pomata dai suoi spettri tricologici riporta l’allegria nel gruppo, tanto che il ritrovato buon umore non cambia al gol della Juve (o almeno quello che pensiamo sia stato il gol della Juve: con il gufo davanti non abbiamo visto un cazzo), anzi, si amplifica. “Vamos, vamos!”, urla Er Pomata agitando il suo scettro e sfiorando prima il naso di Er Matita e poi il prezioso lampadario centrale da 270 chili di vetro di Murano. “Remuntada!”, urliamo noi, levando in alto i calici.

L’euforia si sostanzia al pareggio del Siviglia, siglato da uno che abbiamo schifato per anni e che ora eleggiamo a Pallone d’Oro in pectore: “Su-Su-Su-Su”, intoniamo in coro mentre Er Pomata, senza un capello fuori posto, versa altro liquido non identificato nei bicchieri. “Quantèffortesusoooo, quantèffortesusoooo”, cantiamo sul balcone che dà verso la valle, mentre la partita scorre come fosse già vinta. “Credo ci siano i supplementari”, fa notare Er Molare alcuni minuti più tardi, indicando in alto a sinistra, seminascosto dal gufo reale, il cronometro fermo e il risultato sull’1-1. “Su-su-su-su”, gli rispondiamo in coro. “Bevi e non rompere i coglioni”, gli intima Er Pomata sistemandosi la calotta con una sostanza che mi sembra di identificare correttamente con quella cera che toglie i graffi dalla carrozzeria.

Overtime. Passano cinque minuti e un altro giocatore che abbiamo schifato per anni segna di testa (o almeno credo: l’azione si svolge dietro il monumento al gufo) e porta in vantaggio il Siviglia. “Lamelaaaaaa-aaaargh!”, urla Er Pomata, emettendo nel finale un gigantesco rutto (aveva appena aperto e servito un prosecco). E io, mentre saltiamo davanti al 375 pollici, urlo: “Cogli la prima mela, cogli la prima mela, cogli la prima mela, ah!”. Al che ci mettiamo tutti e quattro a ballare e a cantare l’intera canzone di Angelo Branduardi del 1979, e poi scarichiamo l’intero album e ci accorgiamo che nel lato B del 33 giri c’è anche la canzone “Il gufo e il pavone”, evidentemente un segno del destino. Quando cantiamo per la diciassettesima volta “Cogli la prima mela” la partita è già finita da un pezzo e stanno intervistando Allegri. Di nascosto dagli altri guardo sul telefonino: ha vinto il Siviglia, ok, tutto a posto.

E’ stata la gufata numero 10, quindi ci metteremo la stella sulla maglia. Senza accorgercene siamo approdati alla seconda cifra. Avevamo iniziato questo ciclo con una semifinale di Europa League e lo finiamo con una semifinale di Europa League. Albo d’oro: 2014 Benfica (Europa league), 2015 Barcellona, 2016 Bayern, 2017 Real Madrid, 2018 Real Madrid, 2019 Ajax, 2020 Lione, 2021 (in Dad) Porto, 2022 Villarreal, 2023 Siviglia (Europa league). “Che dite, brindiamo?”, propone Er Pomata che ha il solito sorriso estasiato e non si ricorda di avere già svuotato la cantina. Guarda nel frigo e tira fuori una bottiglietta di chinotto, poi la rimette dentro. Io intanto sbircio sul suo telefonino lasciato incustodito nel tavolo: Makkelie, Makkelie capelli, Makkelie parrucchiere, Makkelie consigli, Makkelie bitume, bitume olandese, confronto bitume Olanda Italia, bitume prezzo.

“Grazie Juve per questi dieci anni insieme”, brindo levando il calice che ha ancora qualche residuo di liquido. “Cento di questi dieci anni, cioè, quindi mille, cioè, intendevo dire che” farfuglia Er Molare, che cade in catalessi. Er Matita continua a canticchiare successi di Branduardi ed è passato a “La pulce d’acqua”. Er Pomata, con un sorriso a 142 denti, beve a canna dalla bottiglia di prosecco: sembra Dan Aycroyd vestito da babbo natale nella Poltrona per due. La Juve, la nostra sicurezza.

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La ruota che gira

Forse è davvero una ruota che gira. Ci è toccato lo stinco (forse il parastinco) di Abbiati e poi lo stato di grazia di Milito. La pallina maledetta che ci ha tolto l’Ajax per darci il Liverpool e poi un tabellone strafortunato che ci ha spalancato le porte del paradiso. In questi vent’anni ce ne sono capitate parecchie, ma alla fine in qualche modo i conti tornano: dal Milan al Milan, passando per ogni dove (comprese stagioni vissute dal divano), ci ritroviamo in un punto dove francamente non pensavamo di tornare. Non dico mai più, per carità, ma non così a breve, quasi all’improvviso, in una stagione sincopata – male in campionato, bene in coppa – e ricca di alti e bassi, vittorie e disastri, birre e hashtag, moriremo tutti, siamo già morti, ma cos’è ‘sta musichetta?, no, non mi dire, non ci credo.

E sì, l’incredulità continua a essere il sentimento prevalente. E’ in effetti difficile da credere come l’Inter sia in finale di Champions, il posto più lontano dove poter arrivare, passando indenni tra dodici partite che sono un po’ come certe prove di Giochi senza Frontiere – tu che cammini su una trave per raggiungere il traguardo mentre cercano di colpirti con sfere giganti o mentre cercano di farti scivolare insaponando la trave. Siamo anche in finale di Coppa Italia, e nel mentre dobbiamo arrivare nelle prime quattro in campionato: un possibile tripletino che riporta a suggestioni di 13 anni fa. Allora c’era uno squadrone contro il mondo intero, oggi una squadra che ha saputo dare il meglio con meno continuità ma al momento giusto. Meno fascinosa e più bizzarra. Che ha perso il perdibile ma ha agguantato l’agguantabile.

Non è stata l’impresa epica del 2010 col Barcellona, perché questo Milan non valeva un decimo di quei blaugrana là. Però è stata un’impresa liberatoria, tipo l’urlo di stasera al gol di Lautaro. E’ stato un regolamento di conti, in senso buono, col destino, i cugini, la sfiga, la contingenza. Dopo 13 anni di “vorrei ma non posso” toh, adesso possiamo. Possiamo accomodarci in vetta e vivere un sogno. In finale ci aspetta gente più forte di noi. City o Real, chiunque sia, come ha detto Inzaghi, troverà un’Inter che vorrà giocarsela. E, al di là del luogo comune, viene da dire che l’Inter se la giocherà davvero. Mi piace pensare che saremo più sgombri di testa dei nostri avversari. Loro sì, obbligati a vincere.

E noi? Obbligati a fare una bella figura, come minimo. Perché sarebbe un delitto non giocarsi con dignità, voglia, passione, sacrificio e serietà una chance del genere. Per il resto, vedremo. C’è tempo, abbiamo altre partite prima di Istanbul. Altre cosette da sistemare. In questa folle stagione, siamo qui a ringraziare gente che un mesetto fa avremmo messo sul mercato su Subito.it. Siamo qui a rimirare il mostruoso ruolino di marcia nelle coppe di Inzaghi, uno che avremmo esonerato un giorno sì e l’altro pure. Ecco, l’Inter del 2010 non fu così estrema nei suoi alti e bassi. L’Inter del 2023 invece è qualcosa che non abbiamo capito bene nemmeno noi: genio e sregolatezza, disastrosità e magnificenza, ci ha trascinati in un Minipimer emozionale da cui speriamo di uscire in una dolce poltiglia. Siamo in finale di Champions e non ci dispiace per il Milan. Juve merda a voi e ai vostri cari.

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Assenzio

Per distrarmi un pochettino mi piace pensare che il 15 maggio, cioè oggi, sia il primo mesiversario di Inter-Monza, che si giuocò il 15 aprile. E il 15 aprile fu (uso il passato remoto perchè in effetti, benchè sia roba di appena 30 giorni fa, sembra effettivamente un passato remoto) il momento di peggior sprofondo stagionale: l’undicesima sconfitta (su 30 partite) e il quinto posto in campionato destinato poco dopo a diventare sesto per la penalizzazione tolta alla Juve, i ritorni dei quarti di Champions e della semifinale di Coppa Italia da giocare nel giro di qualche giorno, lo sbando totale non tanto loro – allenatore più giocatori – quanto nostro.

Lo sbando di noi tifosotti, intendo: sbalorditi di fronte alle cifre negative, sbalorditissimi di fronte all’ancora apertissimo futuro extra-campionato da affrontare a breve, ultrasbalorditissimissimi nel considerare che a precipitare in campionato ma a potersi giocare l’ingresso in finale di Coppa Italia e (ancora di più) a essere con un piede e un paio di dita già in semifinale di Champions era la stessa squadra che si faceva scherzare da Caldirola sotto i miei occhi e il mio culo appoggiato a un seggiolino del secondo blu.

Ecco, volendo andare al cuore della questione odierna, il problema è che il 15 maggio è anche la vigilia del 16 maggio, e il 16 maggio si gioca il ritorno di una semifinale di Champions di cui abbiamo vinto l’andata 2-0 in trasferta. E qui c’è poco da essere scaramantici: è come giocare un match point sul tuo servizio con l’avversario che ha un principio di lombalgia. Noi tutti vorremmo vedere risolvere la cosa nel più breve tempo possibile, chessò, un servizio a 220 km/h che lascia di stucco l’avversario e rimbalza fino alla prima fila delle tribune dove porta via il cappello alla duchessa di Kent, ma la palla è rotonda e come nel tennis c’è il braccino nel calcio c’è il gambino. Non è questione di scaramanzia, ma di anima, cuore, piedi e testicoli. Vedremo domani sera. Adesso siamo qui ad andare avanti e indietro nei nostri corridoi mentali, come fossimo tutti davanti a una sala parto.

Però, ragazzi/e, non è bellissimo? Io credo che nemmeno un interista che avesse scambiato (e bevuto) un bicchiere di assenzio scambiandolo per acqua e menta avrebbe mai immaginato una roba del genere. E non parlo solo di inizio stagione, ma anche solo di un paio di mesi fa, diciamo fino alla mattina del 17 marzo, sorteggio Uefa, quando il riallineamento degli astri calcistici (leggasi gigantesca botta di culo) ci ha aperto un’inattesa via teorica verso la finale di Champions. Certo, c’era da eliminare il Benfica e poi la vincente di Napoli-Milan, ma ci pensate che nel frattempo abbiamo già fatto tre passi su quattro e il quarto dipende soprattutto da noi?

E quindi grazie, grazie per questo nervosismo che ci avviluppa i cervelli e le palle, grazie per questa attesa che ci divora, grazie per questa ansia che stanotte ci farà sognare Calabria e Saelemaekers. E’ sempre meglio esserci, in queste occasioni, che fare da spettatori alle vigilie degli altri. E’ la nostra vigilia. Viviamola con serenità: sono quelle cose che capitano una volta ogni tot, e oggi è quella volta. Forza Inter.

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Nel momento del bisogno

Sarà stato tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio: una sera pigio il tasto Invio e prenoto una vacanza di cinque giorni agli inizi di maggio, sciccosamente fuori stagione. Nei cinque giorni era compreso un fine settimana: guardo il calendario, Roma-Inter, vabbe’, me ne farò un ragione. All’epoca della prenotazione l’Inter era serenamente seconda in campionato a tremila punti di distacco dal Napoli e fissare quei giorni di vacanza mi era sembrato quasi doveroso, una specie di pausa ritempratrice prima del finale di stagione. La Champions nemmeno la consideravo, ovviamente. La Champions a maggio, tzè.

Poi succede che l’Inter passa gli ottavi e poi anche i quarti. A quel punto, l’evidenza che quella vacanza iniziasse un sabato 6 maggio e finisse un mercoledì 10 maggio aveva assunto un risvolto sinistro. Ho sudato freddo fino all’ufficializzazione delle date. E il fatto che l’andata dell’Inter sia stata fissata il mercoledì (giorno del rientro dalla vacanza) l’ho considerato il primo segno positivo.

Il secondo segno positivo è stata l’elongazione di Leao.

Restava un enorme punto interrogativo sul ritorno a casa di mercoledì, giorno della partita. Perchè il problema è che non ero in vacanza, chessò, a Rapallo ma in Giordania, e il volo Amman-Milano era sì schedulato per un comodo arrivo a metà pomeriggio a Malpensa, ma vatti a fidare dei mediorientali, figuriamoci, chissà quando cazzo arriverò davvero, ammesso che mi facciano partire. Già mi vedevo coricato sul tapis roulant dei bagagli mentre cerco di aprire Prime sul telefonino. E invece, toh!, l’aereo è atterrato con 35 minuti di anticipo, una roba epocale, una specie di salto in lungo di Bob Beamon. E questo, come potevo non considerarlo come un gigantesco terzo segnale positivo?

Cioè, praticamente i due gol nei primi undici minuti li ho serenamente incassati come il normale corso delle cose, bene instradato dai tre segnali positivi di cui sopra. Vabbe’, serenamente è un ingenuo eufemismo. Al 2-0 (palla conquistata, ripartenza, cross, velo, inserimento centrale, tiro, gol: no, fate voi) ho iniziato a zompare intorno al divano come Peter Gabriel quando cantava “Shock the monkey”, per poi abbracciare lo schermo in cui comparivano i nostri tutti abbracciati, leccandolo anche per brevi ma significativi momenti.

Dalla sciagurata partita col Monza del 15 aprile ne abbiamo giocate sette (4 in campionato, 2 in Champions e 1 in Coppa Italia) vincendone sei e pareggiandone una (già vinta), segnando 20 gol e prendendone 4 (3 dal Benfica, ininfluenti). Il poderoso primo tempo col Milan certifica che, in maniera e in dimensioni totalmente inaspettate – dopo Inter-Monza, non avrei giocato sui nostri prodi neanche un euro alla Snai -, l’Inter sta attraversando il suo miglior momento stagionale nel momento del massimo bisogno e quando tutto sembrava orrendamente in bilico. Ha rimontato in campionato, guadagnato una finale di Coppa Italia e vinto in trasferta la semifinale d’andata di Champions subito dopo aver toccato il fondo, e questa è una cosa clamorosamente eccitante.

Il derby d’andata di Champions, con un Milan allo sbando per una mezz’ora meravigliosa, sarebbe stato perfetto se l’avessimo vinto 4-0, come potevamo. O almeno 3-0, con il meraviglioso non-gol di Calhanoglu, la sua vendetta definitiva. E quando il Var ci ha tolto il rigore, il turco era già là sul dischetto a posizionare il pallone e io a quel gol – avrebbe segnato di sicuro, sfondando la rete – mi sarei rotolato in soggiorno come Don Lurio (o come Peter Gabriel in “Shock the monkey”, mi pare di ricordare che oltre a zompare a un certo punto rotolasse, sennò niente, vada per Don Lurio).

La storia di questo derby di Champions è scritta solo per metà. A scrivere di gioie epiche o di irrimediabili apocalissi ci penseremo tra sei giorni. Prima no, è tutto molto prematuro. Peccato, con il 3-0 o il 4-0 saremmo stati un pelo più tranquilli. E ci saremmo risparmiati anche il pianto di Pioli: “Fino al settimo minuto l’Inter non era mai entrata nella nostra area”. Certo, glissa pure sui restanti 83 più recupero, in cui ci siamo entrati in modalità “questa casa non è un albergo”. E poi: “L’arbitro ha avuto una gestione da due pesi e due misure nelle situazioni metà e metà, ma non entro nello specifico”. Ecco, bravo, non entrare nello specifico. Ci si vede martedì, quando spero che nello specifico ci entreremo noi.

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Nebraska

Secondo una recente ricerca di una équipe di scienziati dell’Università “C. Norris” del Nebraska, vincere un tot di volte aumenta le probabilità di guadagnare punti sui competitor, così come perdere un tot di volte aumenta le probabilità di farsi staccare. Mentre leggevo di questo studio sull’ultimo numero di Farlock Human Nature, pensavo alle alterne vicende della squadra che seguiamo con una discreta passione – l’Inter – e a quanto la sua storia recente si attagli a questa così illuminante ricerca. Fare un punto in cinque partite ci aveva fatti precipitare dal secondo al sesto posto, con tendenza sprofondo; farne nove in tre partite (una semplice serie di tre vittorie di fila che può capitare anche alle squadre più scrause) ci ha riportato più o meno dove eravamo – certo, se non avessero nel frattempo restituito tipo 15 punti a una società di dubbia moralità.

Gli scienziati del Nebraska avranno senz’altro preso nota di quante cose possono capitare nel giro di tre partite, 10 giorni appena. Intanto, la squadra – sempre l’Inter – che sembrava non segnare più nemmeno a porta vuota in queste tre partite ne ha messi 12. E poi, appunto, con 9 punti in tre partite (solo l’Atalanta, mannaggia a lei, ha tenuto lo stesso passo), quindi in soli 10 giorni, ha recuperato 4 punti al Milan, 5 alla Juve, 6 alla Lazio e 7 alla Roma.

Curiosamente, nella sarabanda di partite e scontri diretti per la Champions 2024 (in attesa, savasandìr, di giocarci la Champions 2023 mercoledì) (no, dico, siamo ancora qui a parlare di Champions – proprio oggi che è il 5 maggio), ci tocca quella che tra le competitor è la più in crisi, due pareggini nelle ultime tre, qualche segnale di sfaldamento da prendere con le pinze (parliamo della squadra più ciclotimica del campionato), Mourinho sulla loro panchina (una robetta a cui abbiamo fatto l’abitudine).

Gli studiosi del Nebraska, in un altro interessante studio, avvertono che per continuare la scalata in classifica è meglio non perdere e, possibilmente, vincere. Tra l’altro, in una ricerca di qualche anno fa, avevano esaminato anche il tema “Semifinali di coppa calcistica: che fare (soccer cup semifinals best practice)”, giungendo alla conclusione che è meglio non perdere in trasferta e poi vincere in casa. Ho mandato una mail a info@norrisnebraska.edu ponendo la questione che quest’anno in Champions League giocano due squadre della stessa città nello stesso stadio. Pare che all’équipe di scienziati gli si sia fuso il pc.

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