Già fatto

A me il turnover piace. Praticamente funziona così: tieni fuori alcuni buoni, poi a un certo punto li rimetti dentro, vinci, ti qualifichi con due giornate di anticipo alla fase finale di Champions, ti qualifichi con due anni di anticipo al mondiale per club, cose così.

A Salisburgo Inzaghi ha preso qualche rischio, tenendo fuori contemporaneamente i detentori del 90% della garra dell’intera rosa (Lautaro, Barella, Dumfries) e schierando così una squadra ingentilita nei modi e praticamente priva di centrocampo (tutti largamente insufficienti). Eppure non ci è successo niente. Difesa molto sul pezzo (beh, abbiamo anche scoperto che Bisseck lo si può far giocare), attacco abbastanza brillante, abbiamo portato a casa il primo tempo e nel secondo ci siamo pure divertiti. Thuram ha fatto una partita alla Leao, però anche meglio – anche se non ne parlerà nessuno -, e Lautaro ha giocato una mezz’ora da sballo. Mettici anche che al posto di due centrocampisti smunti ne prendi due più in palla – Barella e Asslani – e la partita è vinta.

Ascolta “#15 – Salisburghy, Konaté e un quiz” su Spreaker.

Cioè, rendetevene conto: al 9 novembre siamo già qualificati in Champions. Dopo anni e anni di penultime e ultime partite col cuore in gola (e con qualche finale tragico) possiamo tirare un mezzo sospiro di sollievo, anche se sarebbe meglio arrivare primi che secondi e dunque non prendere sottogamba le prossime due partite.

Il ciclo delle cinque micidiali trasferte in sei partite è iniziato con due vittorie con modalità simile: quota fisiologica di futbol bailado, poi un po’ di attendismo, di ruvida concretezza e la carta del talento giocata al momento giusto. Stai a vedere che la partita più critica diventa quella col Frosinone, quella da rilassamento di default. Vietato distrarsi, neh?


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Diciamo che l’argomento base sarebbe l’Inter, ecco)

(il podcast, giunto al quindicesimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma sarebbe un peccato)

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Visitors

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era la più difficile delle undici giocate fin qui in campionato, e che l’abbiamo vinta, e che l’abbiamo vinta bene, cioè andandocela a prendere non solo sul campo dell’avversario, inteso come stadio, ma anche sul suo terreno, inteso come la comfort zone di un match ruvido, aspro, scivoloso (in tutto e per tutto), fisico?

E se, con serenità, ci dicessimo che la partita di Bergamo era il primo vero scontro diretto del campionato – Milan e Roma troppo brutte per essere vere – e che lo abbiamo vinto, e che l’abbiamo vinto bene, sul campo di una squadra che in casa non aveva ancora subito un gol? (anche noi non ne avevamo ancora subito uno in trasferta, Atalanta-Inter era interessante a prescindere)

Ascolta “#14 – L'Atalanta, i nostri Colleoni, AI e AHAHAHA” su Spreaker.

No, perché è proprio di serenità che ci dobbiamo armare adesso – l’Inter, dico, ma anche noi tifosotti per induzione – nel prenderci le giuste responsabilità. Siamo primi in campionato, primi in Champions, abbiamo iniziato bene il terribile mini-ciclo delle cinque trasferte (e che trasferte!) su sei partite, e serenamente dobbiamo prenderne atto e agire di conseguenza. Anzi, pensare di conseguenza. Prendere confidenza con questa nostra dimensione.

Il bilancio stagionale è oltre ogni previsione, 11 partite vinte su 14, tanti gol fatti, pochi gol subiti, quasi sempre belli o efficaci o entrambe le cose. Due delle tre partite che non abbiamo vinto sono state quelle due sciagurate esibizioni – in casa – con Sassuolo e Bologna, l’altra è stata una trasferta di Champions che abbiamo riacciuffato forse oltre ai nostri meriti, ma credendoci.

Ieri è accaduta una cosa che nel suo piccolo dice tanto, secondo me. Si è fatto male Pavard, si è fatto parecchio male, poteva essere una svolta negativa, un infortunio che colpiva un giocatore non-qualsiasi, uno dei nuovi capisaldi della squadra, un infortunio brutto, di quelli che fanno tremare le gambe anche a tutti gli altri. Niente, è entrato Darmian, ha fatto un partitone, si è procurato il rigore, non c’è stato nemmeno il tempo di preoccuparsi o di smadonnare che già eravamo proiettati a vincere la partita.

Un segnale di forza. Vorrei sempre vederli così, i ragazzi. Magari più sporchi e cattivi, se le circostanze lo richiedono. Magari meno belli, ma dritti al punto. Noi ci divertiamo lo stesso, no?

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A brand new friend

Del Lukaku 2, vabbe’, non parliamone nemmeno. Del Lukaku 1, invece, ci restano (restavano?) dei bei ricordi. L’impatto di Big Rom sull’Inter fu straordinario, non solo in campo ma anche fuori. Tanto che non ci si capacitava delle voci che arrivavano dall’Inghilterra su questo ragazzone, come dire, non affidabilissimo. Boh, da noi sembrava affidabile eccome. In campo e anche fuori. Un punto di riferimento, una nuova icona dell’interismo. E poi, la cosa più bella, la straordinaria intesa con Lautaro, il compagno di reparto, l’amicizia, la stima, il feeling che si traduceva in gol e assist. La sua firma sullo scudetto. Sembrava tutto così sincero, così destinato a durare. Non lo era.

Ascolta “#12 – Daje de tacco, daje de punta, 47' di puntata” su Spreaker.

La serata del ritorno di Lukaku a San Siro si è conclusa con l’immagine qui sopra, due ragazzi sorridenti sotto la curva, Lautaro con il suo nuovo amico Thuram, una coppia che funziona di brutto e che tutti noi speriamo che possa durare tanto, il più possibile. E’ il presente dell’Inter, forse il futuro. Di sicuro è un calcio al passato, cioè a Lukaku. E un invito a concentrarsi sull’Inter di adesso, più bella, divertente e interessante di una serata trascorsa a fischiare un fantasma.

Questa sera nè Lukaku (novanta minuti penosi, del resto la tendenza a sparire nelle partite più complicate l’ha sempre avuta) nè Mourinho (dichiarazioni post-partita tra il provocatorio e il piagnonismo, ok le assenze ma il resto è caciara) hanno dato il meglio di sè. Pazienza. Noi sì, siamo stati più forti, anche se tutt’altro che perfetti. 19 tiri per fare un gol, e farlo solo all’81’, significa trascorrere quelle belle serate di passione (nel senso di sofferenza) interista in bilico tra l’estasi e l’incubo di una beffa che può sempre arrivare, tipo uno 0-0 che sarebbe stato profondamente ingiusto o peggio ancora uno 0-1 (sull’unico tiro subito) che ci avrebbe fatti impazzire.

Adesso, finalmente, arriva il difficile. Finalmente perché dobbiamo uscire da tutti gli equivoci se vogliamo davvero spiccare il volo. Ci aspettano sei partite in un mese, una in casa (con il Frosinone) e cinque in trasferta (Atalanta, Salisburgo, Juventus, Benfica, Napoli), nelle quali ci giochiamo la leadership in campionato e la qualificazione in Champions. Questo mini-ciclo dirà tanto sull’Inter. Rimettiamo i fischietti nel cassetto, perchè ora servono concentrazione, garra e un pochino di cinismo in più. Con i sorrisi invece siamo a buon punto. E non è per niente secondario.

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Vincere non vincere, segnare non segnare

Lo scintillante Milan espressione della più genuina dimensione europea non ha ancora segnato un gol in tre partite di questa Champions, cui vanno aggiunti anche gli zero dei due derby di semifinale della scorsa primavera: il totale fa cinque, record negativo di ogni tempo (resta comunque la squadra con più dimensione europea) (secondo loro). Il loro migliore attaccante ha 37 anni e non segna da otto partite di fila. Il Pallone d’Oro in pectore (sempre secondo loro) non segna da più di un mese. Se non fosse per Paolino Pulisic, questi erano alla canna del gas. E invece – qui volevo arrivare – il Milan con l’attacco in crisi è secondo in campionato un punto dietro di noi (anche se gliene abbiamo dati cinque nel derby) (intaccando non la dimensione europea, ma italiana sì).

Ascolta “#11 – Scarpe, amori e amari amori” su Spreaker.

In campionato, otto gol di differenza (noi 24, loro 16) fanno solo un punto di differenza in classifica. La cosa curiosa è che il Milan ha segnato metà dei suoi 16 gol, 8 appunto, nelle prime tre giornate, quelle che precedevano la prima pausa per la Nazionale. Ha segnato metà dei suoi gol tra il 21 agosto e l’1 settembre (2 al Bologna, 4 al Torino, due alla Roma). Questo vuol dire che ha poi segnato la miseria di 8 gol in due mesi quasi pieni, tra il 2 settembre e il 26 ottobre, praticamente uno alla settimana. Anche noi avevamo segnato 8 gol nelle prime tre di campionato, e quindi 20 (16 in campionato e 4 in Champions) tra settembre e ottobre contro i loro 8. 20 contro 8. Ok, in Champions loro ne pagano le conseguenze. Ma in campionato, cazzo? Tra settembre e ottobre, loro si sono presi 5 pere nel derby, poi ci hanno rimontato, ci hanno superato e li abbiamo superati solo qualche giorno fa dopo Milan-Juve. Tutto questo segnando la metà dei nostri gol, 8 contro 16.

Sarebbe troppo banale dire che le vittorie per 1-0 o per 4-0 (o per 5-1) valgono tutte la stessa cosa, cioè tre punti. Meno banale – per quanto certamente poco sorprendente – è sottolineare come buttare partite nel wc (Sassuolo e ancor più Bologna, due gol avanti, non mi ci fate pensare) abbia un peso letale sui destini e sugli equilibri del campionato. L’Inter ha un punto di vantaggio su una squadra in cui non segna più nessuno e due punti di vantaggio su una squadra che gioca di merda. La quasi sempre bella e divertente Inter di questo inizio di stagione sente sul collo il fiato di due squadre che hanno oggettivamente più problemi di noi. Eppure, sono lì. Vuoi per culo, vuoi per cinismo, ‘sti due cessi non riusciamo a schiodarceli da dietro. Nei momenti clou serve cattiveria. Non distraiamoci a fischiare un marcantonio che fa parte del nostro passato, who cares? Vinciamo le partite, il resto frega un tubo.

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Cambio!

(ANSA)

Sull’effetto dei cambi giusti (o sbagliati) su una partita di calcio potremmo scrivere un’enciclopedia e studiarne all’infinito le dinamiche senza mai arrivare alla formula o all’algoritmo giusto: noi interisti – come un po’ tutti, credo – ne abbiamo viste di tutti i colori nel bene e nel male. Quello di Torino-Inter è un piccolo caso di scuola, quasi banale: dopo un primo tempo di tiki-taka ammorbante, presi nella rete del Toro e privi di quel pizzico di inventiva/voglia in più per provare a uscirne, è apparso a tutti chiaro che solo dopo i cambi avremmo forse visto qualcosa di diverso. E non è un caso che il gol di Thuram sia arrivato 3 minuti dopo l’ingresso in campo di Dumfries e Frattesi, che nel gioco delle rotazioni erano i due pezzi migliori che avevamo in panchina per spezzare gli equilibri dalla metacampo in su.

Ascolta “#9 – Famiglie, triplette e stadi faraonici” su Spreaker.

Se oggi siamo passati da un primo tempo deprimente a un secondo tempo più brillante (e chirurgico negli obiettivi) lo dobbiamo ai cambi e alla panchina lunga. A un certo punto abbiamo messo dentro quel vice-Barella che non abbiamo mai davvero avuto nelle scorse stagioni e quel dirompente e un po’ scomposto incursore che, in una mai dissolta diffidenza generale, sta vivendo un periodo scintillante e sa essere sempre più spesso un giocatore determinante. Metti due giocatori così a giocare gli ultimi 30/40 minuti e spacchi la partita. Certo, magari non va sempre così. Ma in teoria (e oggi, come visto, nella pratica) è una mossa quasi a colpo sicuro.

Inzaghi questo giochino lo organizza con risultati alterni, ma può essere la nostra arma vincente. Abbiamo una rosa completa (a parte l’attacco): dosando le forze e tenendo tutti sotto pressione possiamo sempre avere – anche qui, a rotazione – almeno un paio di mosse a disposizione per sparigliare davvero le partite in corso d’opera. Il nostro allenatore, a differenza di molti colleghi che lo hanno preceduto, può girarsi verso la panchina e pescare sempre un jolly. Ok, certo, Guardiola e Ancelotti e Klopp sono messi un po’ meglio, eh, d’accordo. Ma noi (a parte l’attacco) (due titolari meravigliosi e due vecchie glorie come rincalzi) non ci possiamo lamentare. Non ci dobbiamo lamentare.

L’Inter di Inzaghi ha schemi inderogabili e alcuni giocatori irrinunciabili. Il turn over spinto ci manda in tilt. Ma anche spremere sempre gli stessi non è un metodo sostenibile. Il meccanismo non è facile da far funzionare. Abbiamo qualcuno che deve giocare sempre, qualcuno che vuole giocare sempre, qualcuno che giocherebbe volentieri un po’ di più. Serve una coralità anche nel centellinarsi, nell’alternarsi. No, non è facile. Ma è il terreno su cui Inzaghi può giocare la sfida forse più creativa. E decisiva, chissà.

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Ciclotiminter

Esaurita la premessa fondamentale – i bilanci al 9 di ottobre sono quantomeno prematuri, alla fine della stagione mancano una quarantina di partite, ecc. ecc. -, per aggiungere un mattoncino alla ricerca “Di che pasta è fatta l’Inter 2023/24?” vale la pena fare un raffronto alla stessa data con l’Inter 2022/23.

Se l’Inter quest’anno al 9 di ottobre ha perso una partita su 10 (8 di campionato e 2 di Champions, il bilancio finora è 7-2-1), l’anno scorso ne aveva perse già 5 su 12 (il calendario era più compresso per i noti motivi: 9 di campionato e 3 di Champions, bilancio 7-0-5). Diciamo che se quest’anno si cede a qualche lamentazione, l’anno scorso avremmo dovuto mettere a ferro e fuoco Milano e minacciare un suicidio collettivo dall’ultimo piano del Pirellone.

Ascolta “#6 – Bologna, Richetto e drammi familiari” su Spreaker.

L’analisi dei calendari conduce a qualche ulteriore riflessione. Le cinque sconfitte dello scorso anno furono in ordine cronologico con Lazio, Milan, Bayern, Udinese e Roma. Come tutti ci ricordiamo, si diceva che stavamo fallendo sistematicamente gli scontri diretti (l’Udinese di quel periodo era in zona Champions). Questo al netto del fatto che tra quelle 12 partite e quelle 7 vittorie c’era anche l’1-0 col Barcellona, partita che si rivelerà decisiva per l’intera stagione (e quello era un signor scontro diretto). E che la tredicesima partita stagionale sarebbe stata l’altrettanto decisivo 3-3 al Camp Nou. Insomma, come quest’anno – e come spessissimo nella nostra storia di squadra un po’ pazza – anche l’anno scorso stavamo alternando buonissime partite ad altre pessime. Però, perdendo molto di più. E con modalità praticamente opposte.

Ascolta “#7 – Studi di Settore, casa Vianello e il bloccasterzo” su Spreaker.

Quest’anno di scontri diretti non ne abbiamo avuti molti, ma in campionato abbiamo dato 5 gol all’attuale capolista e 4 alla terza in classifica, in due delle nostre partite migliori. E nell’altra partita top di questo inizio di stagione, col Benfica, il risultato “vero” sarebbe stato con tre/quattro gol di scarto. Quest’anno, insomma, è lo scontro diretto a farci tirare fuori il meglio. Mentre è abbastanza chiaro che le partite più scontate ci ammorbano: Sassuolo, Bologna, Empoli (pur vinta), Salernitana (il primo tempo moscio)… andando avanti nella stagione, si è allargata la distanza tra i match di cartello e quelli no, come se nei primi fossimo tutti sul pezzo di default e nei secondi un po’ meno. Con Milan, Fiorentina e Benfica ci siamo fermati giusto perché l’arbitro come da regolamento a un certo punto ha detto stop. Con Sassuolo e Bologna – in casa, per giunta – l’abbiamo ritenuta finita in largo anticipo, ci siamo fatti rimontare, abbiamo perso la cattiveria (il secondo gol del Bologna è simbolico) e la concentrazione, abbiamo puntato tutto sull’assalto finale che una volta va bene e cinque no, specie se posteggiano un pullman di traverso (mica sempre ti stendono la passatoia mentre vai in contropiede, eh).

La bellezza di questa Inter, che sta molta (o tutta) in quella attitudine positiva che alla lunga sgretola gli avversari (3 gol nel secondo tempo alla Fiorentina, 3 gol nel secondo tempo al Milan, 4 gol nel secondo tempo alla Salernitana, 5-6 gol che potevamo tranquillamente fare al Benfica in quella meravigliosa mezz’ora di secondo tempo), è sempre in bilico sulle nostre paturnie. Che non sono mai le stesse: il turnover, i cambi, le scelte tecniche hanno avuto un certo effetto, ma anche – ohibò – l’effetto contrario. Non c’è una casistica solida, non ci siamo costruiti una certezza. Se non una – che pure è legata agli umori del momento -: se vogliamo, giochiamo meravigliosamente; se vogliamo, battiamo chiunque.

E questa, proprio questa, non è solo la speranza che nutriamo tutti, ma anche una sensazione piuttosto accentuata. Certo, un po’ bauscia lo siamo nel dna, ma non stiamo parlando di semplici episodi: parliamo della metà almeno delle partite che abbiamo visto finora, e che ci danno una misura attendibile delle potenzialità dell’Inter.

Ora, senza disfattismi, non si possono nascondere anche le potenzialità in negativo di questa squadra. Nelle ultime tre partite a San Siro abbiamo dato 5 pere al Milan e poi abbiamo fatto un punto tra Sassuolo e Bologna, il che non avrebbe una spiegazione logica. L’anno scorso al 9 ottobre eravamo messi peggio, 4 sconfitte in 9 partite di campionato, quindi non mettiamoci un turbante in testa per una bottarella da nulla. Però aver perso 5 punti su 6 con Sassuolo e Bologna ha i suoi estremi di inquietudine. Purtroppo siamo qui a guardare il Milan da dietro: dopo l’umiliazione del derby loro ne hanno vinte 4 su 4 in campionato subendo un gol. E siccome i nostri cugini hanno più culo che anima, mi piacerebbe che la minaccia fosse presa più sul serio: loro ne vincono 4 su 4 nei modi più assurdi, noi facciamo un punto in casa con Sassuolo e Bologna e li legittimiamo a pensare che quel derby da incubo è già passato in cavalleria e che noi buttiamo punti nel cesso che è una meraviglia.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Si sta facendo strada anche un argomento evergreen: chi è il vostro interista di sempre? Ma potete anche fare commenti alla sostituzioni di Inzaghi, alle azioni personali di Sanchez o alle prospettive di Bisseck. Insomma, esprimere verbalmente quel cazzeggio interiore che ci tiene impegnati fin da quando eravamo bambini)

(il podcast, giunto al settimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venitevi a lamentare)

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Memoria di Adriano

Quello in cui un tennista italiano sarebbe salito ai livelli di classifica di Adriano Panatta (cioè numero 4 del mondo) è un giorno che, come tutti gli appassionati di tennis di una certa età, ho pazientemente atteso per 47 anni. 47 anni, poi puff!, succede davvero, in diretta tv, dalla Cina, in un primo pomeriggio di un giorno feriale. 47 (quarantasette) anni.

Cosa vuol dire aspettare una cosa 47 anni? Beh, un po’ lo sappiamo: quando abbiamo vinto la Champions nel 2010 ne avevamo aspettati 45, quel paio di generazioni in cui i racconti si trasformano inevitabilmente in leggenda, “eh, la Grande Inter”, eh sì. Comunque, contestualizzo. Nella magica estate del 1976, quando Panatta vinceva uno dopo l’altro i tornei di Roma (30 maggio) e di Parigi (13 giugno) (e a dicembre avrebbe vinto anche la Coppa Davis, quella vera, non questa robaccia ridicola di oggi, un insulto al tennis e alle nostre intelligenze), io mi godevo le vacanze tra la seconda e la terza media e l’Inter era appena arrivata quarta nello storico campionato vinto dal Torino. Un’estate densa. Su Seveso stava per calare la nube tossica della diossina, Gimondi vinceva il Giro, Van Impe vinceva il Tour, Borg stava per vincere il suo primo di cinque Wimbledon consecutivi, a Montreal si aprivano le Olimpiadi boicottate da 28 paesi africani, Lauda rischiava di morire bruciato al Nurburgring, Fraizzoli vendeva Boninsegna alla Juve.

E io alternavo estenuanti partite di pallone a lezioni di tennis sui campi di terra rossa dove spargevo gesti armonici e, al solito, poca cattiveria agonistica (bello da vedere, facile da sconfiggere). Il mio modello, come quello di migliaia di tennisti in erba che prendevano lezioni sui campi di terra rossa

(Proust aveva quello delle madeleine immerse nel tè di tiglio, io ho il ricordo visivo e tattile dei calzini corti di spugna, che da bianchi diventavano rossi e ruvidi, quasi solidi)

era Adriano Panatta, una specie di semidio, bellissimo, alto, altero eppure popolano, un’abbondante spruzzata di indolenza romana su un talento cristallino e infinito, idolatrato dalle donne e dai tennisti in cerca di ispirazione, un campione vero, trasversale a tutti gli sport, quelle stelle comete che passano una volta ogni tot. Panatta, all’epoca 26enne, fu numero 4 al mondo in una stagione in cui se la doveva vedere con Borg, Connors, Vilas, Gerulaitis, Nastase, Orantes, ‘sta gente qui. Nella sua seconda stagione d’oro, il 1978, alla concorrenza si era già aggiunto McEnroe.

Jannik Sinner, 22 anni, 47 dopo Panatta si è issato al numero 4 del mondo. I primi tre – Djokovic, Alcaraz, Medvedev – sono parecchio più su nel punteggio Atp – parecchio -, ma quello che ha fatto è comunque straordinariamente significativo: è oggi il primo dei tennisti top ma non toppissimi, e comunque per vincere il torneo di Pechino ha battuto due dei tre che lo precedono, trasformando un trofeo Atp 500 (nè carne nè pesce) in un’impresa vera, molto più preziosa del Master 1000 che ha vinto qualche settimana fa. Ha battuto non solo Alcaraz, di cui è una specie di bestia nera (e con il quale fa sempre dei partitoni, comunque vada), ma anche Medvedev, con cui aveva perso 6 volte su 6, sfatando finalmente una costante negativa della sua carriera: quella di fare quasi sempre 30 e quasi mai 31, perdendo sistematicamente – a parte con Alcaraz, un simpatico mistero sportivo – con i toppissimi e, in generale, con quelli sopra di lui in classifica, andando a sbattere sempre sullo stesso muro.

In tutto questo, Sinner ha solo 22 anni, 4 in meno di quel Panatta. Oddio, Alcaraz (e anche Rune, che è al suo livello) ne ha due di meno, ma 22 sono comunque pochi. Ha un’autostrada davanti: che non percorrerà da solo, per carità, ma ora sappiamo che ha il piede pesante per farsi largo. Sinner ha molte doti tra cui anche il culo: non solo per quei tabelloni facili che spesso si trova ad affrontare (finalmente, a Pechino ha potuto dimostrare di saper vincere anche senza culo), ma perchè gli capita in sorte un momento di trapasso generazionale del tennis. Ha smesso Federer e ha praticamente smesso anche Nadal, il tuttora dominante Djokovic ne ha 36 e mezzo (cioè 14 più di Sinner e 16 più di Alcaraz) e prima o poi si arrenderà. No, intendo dire che a un Murray o a un Wawrinka è andata molto peggio, costretti a raccattare le briciole che lasciavano ogni tanto quei tre mostri nel pieno delle forze. Sinner, e Alcaraz su tutti gli altri, possono invece passare all’incasso nei prossimi 10 anni, giocandosela tra di loro in un tennis che sarà un po’ meno inaccessibile.

Vabbe’, ma veniamo al punto. Chi è più forte tra Panatta e Sinner?

E’ la solita domanda impossibile, che ti costringe a paragonare due atleti a 50 anni di distanza, con attrezzi diversi, allenamenti diversi, campi diversi, pressioni diverse eccetera eccetera. Quel tipo di domanda a cui ci si sforza di rispondere sapendo comunque di muoversi sul filo dei sentimenti, delle opinioni e anche un po’ dell’assurdo. Augurando un decennio di successi a Sinner (che mi piace, ma Musetti mi piace molto di più: solo che per lui, per certi versi così panattiano, è più difficile), e considerando alla sua portata l’impresa di entrare presto nei primi tre (e quindi di diventare il tennista italiano con la miglior classifica di tutti i tempi) mi aggrappo a quello che è stato Panatta in quel 1976: quando Sinner vincerà in sei mesi il più importante torneo italiano, uno Slam e la Coppa Davis vera, sarò il primo a fargli tutti i miei complimenti. Anche se dalle pareti della mia cameretta il poster di Adriano non lo staccherò mai.

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A grande beleza

E quindi siamo qui a parlare di una vittoria per 1-0 come fosse un 5-0 o forse anche un 50-0, ancora con gli occhi pieni dell’Inter del secondo tempo e della sua mezz’ora da paradiso del calcio, l’1-0 più stretto della storia, il duello senza senso tra Lautaro e Trubin e quello tra Lautaro e i pali, la fatica di trovare il migliore in campo in una squadra che a un certo punto imperversava così compatta che boh, siamo tutti un po’ confusi da tutto ‘sto bendiddio.

Anche perché vorresti che una partita così non finisse mai, e al contempo che finisca quanto prima, perchè quando fallisci 73 volte il gol della sicurezza si alza forte il vento della potenziale beffa, quello che all’Alfama chiamano enculadinha, che per fortuna – e giustizia divina – non si è concretizzata.

Ascolta “#5 – Pali, traverse, traversie e mutande costose” su Spreaker.

A San Sebastian era stata un’Inter in edizione dimessa, grata alla fortuna per aver portato a casa un punto che quasi non meritavamo. A Milano col Benfica meritavamo 6 punti e 12 gol e accontentiamoci di aver visto una squadra che quando vuole può farci sognare davvero. Se qualcuno in giro per l’Europa stasera ha visto il secondo tempo di Inter-Benfica, avrà notato che la squadra che quattro mesi fa ha giocato la finale di Champions non è proprio una meteora e nemmeno un club che ha solo culo.

Io lo so – tutti noi sappiamo – che chiedere la replica di ‘sta magnificenza è un po’ eccessivo, e che sperare di rivedere questa stessa Inter in altri campi e altre situazioni è un po’ aleatorio. Ma serate come questa servono a dimostrare che ci siamo, che certe partite le sappiamo fare, che la squadra ha le sue belle potenzialità. Grazie Inter, adesso mi prendo 15-20 minuti per rivedere gli highlight più densi che ci potevamo immaginare dopo un primo tempo un po’ sminchio. Ma le partite vanno così: a volte si cambia marcia e non ce n’è per nessuno.


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Toro Toro Toro Toro

Vincere 4-0 in trasferta e andare a dormire molto preoccupati si può, ed è una cosa molto interista. La colpa è tutta di Lautaro.

Allora, parliamoci chiaro (gli uomini che stanno leggendo, all together, si tocchino i coglioni. Le donne non so, ma adesso non starei qui a inoltrarmi in un pippone gender): l’Inter senza Lautaro e l’Inter con Lautaro sono due Inter molto diverse, molto. Questo inizio di stagione lo dimostra in termini quasi drammatici. Ha segnato 10 dei nostri 20 gol. Se non gioca bene (Empoli, Sassuolo) facciamo una gran fatica o perdiamo. Se non incide (Real Sociedad) stiamo sotto, poi gli capita un pallone in 90 minuti (Real Sociedad) e la riprendiamo.

Veniamo a Salerno, dove facciamo un primo tempo simil-Sassuolo (10 tiri, uno nello specchio) e non usciamo dalla palude. Poi togliamo Ehi Amigo, un giocatore un po’ anemico, mettiamo il Toro al minuto 54′ (cambio anticipato di 10-15 minuti rispetto al solito: metterlo era una necessità assoluta, inderogabile, improcrastinabile) e lui ne fa quattro, stabilendo un record storico (primo giocatore subentrato a segnare 4 gol) e gettandoci nel più cupo imbarazzo: sì, insomma, senza Lautaro noi come faremmo?

Ascolta “#4 – Il Grande Lebowski, spartiacque e avvocati” su Spreaker.

(Uomini, touch your balls) Insomma, affrontiamo l’argomento: se a Lautaro viene il mal di pancia, l’influenza, il ginocchio della lavandaia, il gomito del tennista, noi come facciamo?

Mi sono beccato del mezzo piangina quando ho buttato lì la cosa alla fine di Empoli-Inter, quando il 25% del nostro reparto d’attacco è andato in frantumi al primo cambio di direzione. Considerando che l’altro 25% over 34 per adesso non è che brilli di luce propria, come gestiamo i due splendidi 26enni che costituiscono la coppia titolare, considerando che Lautaro fa metà dei nostri gol ed è la nostra star? I primi 40 giorni della stagione se ne sono andati così – bene, senz’altro – ma poi? Come la gestiamo ‘sta cosa?

Che Iddio ce lo conservi in salute, garra e interismo. La società gli assicuri muscoli, ossa e articolazioni. Gli altri tengano il suo passo e prendano meglio la mira. Siamo primi e contemporaneamente sul filo di una dipendenza pericolosa. Speriamo almeno nello spirito di emulazione. Noi vogliamo undici Lautari.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che attendo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Noi rispondiamo a tutto: on topic, off topic, cazz topic, total topic)

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I malmostosi

Al primo esame contemporaneamente fisico (quarta partita in 12 giorni) e psicopatologico (Sassuolo, solo 2 volte nelle ultime 9 – ora 10 – sconfitto a San Siro) l’Inter è franata piuttosto miseramente. E, al contempo, in maniera piuttosto spettacolare. Nel senso che in soli 90 minuti è riuscita a organizzare un passo indietro univoco e generale, su tutti i singoli comparti/uomini/schemi/criticità, da consentire a tutti noi di preoccuparci improvvisamente un casino. Al netto del fatto che quando arriva il Sassuolo ormai tutti cediamo a una sorta di rassegnazione che, forse, aleggia anche ad Appiano con congruo anticipo (non è un grandissimo atteggiamento, ecco).

Le statistiche ci aiutano molto a districarci in questo marasma. Il primo dato a inchiodarci è quello del possesso palla, di cui nel magico inizio di stagione ci eravamo bellamente fottuti – anzi, era tutto un “muahahahahah, tenetevela pure ‘sta palla” – e che ieri sera ci ha ben fotografati con un 63% speso soprattutto a fare quel ti-tic e ti-toc di cui ci eravamo dimenticati. Anche il dato dei cross è suggestivo: 23-9 per noi in una partita finita 1-2 per loro. Non c’è il dato dei non-tiri sui cross, ma sarebbe terribilmente elevato.

Proprio i non-tiri (oh, manco sfiorata la palla) su cross molto invitanti a cinque metri dalla porta alla fine hanno fatto la differenza: potevamo chiudere nel primo tempo e invece no, abbiamo perso meritatamente. E quei non-tiri per questione di centimetri sono la statistica-ombra più impietosa. Tutta la spensierata cattiveria che ci abbiamo sempre messo in zona gol almeno fino al derby si è già trasformata in un’altra cosa. E cioè in quella supponenza – tranqui, tifosotti, prima o poi la mettiamo, fidatevi, tzè – a cui nel recente passato ci siamo spesso abbandonati con risultati drammatici.

Ci sta che giocare 4 volte in 12 giorni (tra cui un derby e una trasferta duretta di Champions) comporti qualche ripercussione fisica. Ci sta meno che la gestione del turnover sia un pochino improvvisata (o forse siamo noi che non capiamo un cazzo, ovvio), con qualche giocatore già spremuto senza che ce ne fosse un reale bisogno, con qualcun altro centellinato e con qualcun altro ancora cui il termine turnover provoca eruzioni cutanee e sbalzi di umore. Ci sta anche che tra i più spremuti ci sia Lautaro, che non è uno che si risparmia. Ci sta meno che in attacco, parlando di turnover e di gestione delle forze, siamo già alla canna del gas.

E io che mi ero tanto speso a sottolineare come l’Inter di questo inizio di stagione comunicasse con naturalezza la sua voglia di giocare – di giocare bene -, mi trovo già in braghe di tela concettuali dopo un’Inter-Sassuolo in cui non siamo stati sufficientemente cattivi per allungare la gamba di un centimetro di più, in cui non siamo stati sufficientemente sereni per fare cinque passaggetti indietro di meno e uno avanti in più, e in cui è bastata la nostra bestiolina nera a farci perdere di brutto il controllo delle operazioni.

Peraltro, non è un mondo possibile quallo in cui le vinci tutte facendo contropiedi meravigliosi. Il mondo vero è un girone infernale in cui hai Milan, Juve e Sassuolo appesi con i denti al tuo scroto. Questo è meglio ricordarselo tutti, dai malmostosi fino a Inzaghi.


(per l’angolo Podcast, vi ricordo che se volete lamentarvi – di qualsiasi cosa, anche se sull’Inter siamo più preparati – attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355. Se invece siete più propositivi, attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355)

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