Erano anni

Scusate se mi autocito, ma proprio nei giorni in cui confesso la mia irreversibile insofferenza verso il calciomercato in tutte le sue possibili estensioni – cioè che preferirei farmi ibernare il primo giugno e scongelare il primo settembre – esso, il calciomercato, mi regala un tale susseguirsi di emozioni che, scusate se cito Salvatores, erano anni che non mi divertivo così. E se ci fate caso, anche i più spinosi, anzi, apocalittici accadimenti di questi giorni – il tradimento di Lukaku e l’ingaggio di (rumore di tuoni) Cuadrado – sono transitati col passare delle ore da un’atmosfera cupa da “moriremo tutti” a un più giocoso “ma come diavolo ve le siete inventati ‘ste cose?”. A cui io ora aggiungo una postilla finale. Una parolina semplice e preziosa. Una chiosa con il sorriso.

Grazie.

Sì, grazie. Grazie. Grazie per la vostra fantasia, per la vostra inventiva, per la vostra faccia da culo (intesa nella sua accezione più positiva, quasi ammirata, un rozzo sinonimo di “coraggiosa sfrontatezza”, ecco). Grazie.

Sì, va bene, amici tifosotti, regalate pure il vostro abbonamento al primo che passa, disdicete Dazn, prendetevi i vostri periodi sabbatici, seguite per un anno il/la (segue il nome di squadra italiana o estera di ogni ordine e grado) oppure il/lo (segue il nome di un altro sport che non sia il calcio). Fate il cazzo che volete, siamo in democrazia, no problem. Peccato, però: rischiate di perdervi un periodo storico parecchio divertente. Perché, volendo essere seri o seriosi, adesso dovremmo stare qui a parlare d’altro. Per esempio, di arabi che vengono a fare la spesa da noi e cercano di spostare il baricentro del football in mezzo alle dune. E quindi dovremmo parlare del nostro movimento, delle pezze al culo generalizzate, dei bilanci da sprofondo, di un’autorevolezza che va e che viene e che adesso se ne va, uh, sì, se ne sta andando lontano, trattati da quattro beduini parvenu come il discount del pallone, gli scaffali che si svuotano a vista d’occhio, robe così.

Ecco, pensate se non ci fossero stati Lukaku e Cuadrado. Altro che farsi ibernare. C’era da prendere un’astronave verso Marte e fare consapevolmente la fine di Matt Damon: da soli in un pianeta inospitale, senza Sky, senza Dazn, senza la Gazza, addirittura senz’acqua. Tutto meglio che sorbirsi il calciomercato e poi otto mesi di Serie A, una sbobba totale, la morte civile. E invece no. Siamo qui, vivi e vegeti, e ci divertiamo pure. Perché, scusate se cito Flaiano, la situazione sarà anche grave ma per fortuna non è seria .

Anzi, è divertente. Molto, moltissimo.

Ieri mi sono sganasciato a guardare il video dei primi momenti di Cuadrado in nerazzurro (Cuadrado in nerazzurro: ma vi rendete conto? Non è meraviglioso?). Lui che si ferma sulla soglia della porta, come se avesse paura di un gavettone o di una bomba a grappolo. Un fotografo che gli dice: vieni avanti, non ti facciamo niente. Lui – lui, un poeta del piede a martello! – che finalmente vince la timidezza fa due passi fuori, dove lo attende uno striscione minaccioso di soli 570 metri, che sarà mai. E finalmente si distende, fa il selfie con un tifoso altrettanto coraggioso, che per lui in quel momento è un approdo sicuro ma anche una specie di scudo umano, e mentre sorride davanti al telefonino un altro tifoso, dalle retrovie, lo manda a cagare. Ho rivisto il video trenta volte. E ogni volte ridevo, come mi capita solo con Hollywood Party e i Blues Brothers.

Grazie. Grazie per tutto questo. Ci sono 60 gradi e il 164% di umidità, ma è un’estate bellissima, intrigante, davvero top. Grazie.

Lukaku è già il passato, vada a giocare sulla sabbia o alla Continassa, who cares? Cuadrado, invece, è il presente e il futuro. Un presente e un futuro che non ci potevamo immaginare così straordinariamente vivace e ricco di spunti. E’ fantastico. Sono andati via giocatori con centinaia di presenze: puff, il lutto è già elaborato. Sono arrivati Frattesi e Thuram: manco più una riga sui giornali. C’è solo Cuadrado. Cioè, io sono avvinto da questa cosa, totalmente avvinto. Come quando sei sul divano e guardi un b-movie o un programma sgangherato e niente, rimani lì incollato perchè vuoi vedere come va avanti, come va a finire. Ecco, così, esattamente così. Con una divertita leggerezza che mai mi sarei aspettato di questi tempi in cui, calcisticamente parlando, mi annoio a morte.

Noi, ragazzi, invece dobbiamo solo divertirci. Perchè, scusate se cito Elio e Graziano Romani, c’è solo l’Inter. E io lo so cosa state pensando tutti, anche quelli dell’anno sabbatico o dell’abbonamento regalato al cognato della cugina del vicino di casa: state pensando a Cuadrado che entra dritto sulla caviglia di Chiesa, l’arbitro dice che va bene, lo stadio sobbalza e allora lui scende sulla fascia, incredulo, perché 80mila persone che di solito lo mandavano affanculo ora sono lì che trepidano per lui, e lui allora triangola con Barella, entra in area, tira, la palla passa sotto le gambe di Szczęsny, gol. Voi state pensando esattamente a questo. Perché apparteniamo tutti a questa sottospecie subumana dei tifosi di calcio – rifiuti della società, in sintesi – e le nostre questioni di principio, oltre che ridicole e marginali, sono anche di breve durata. E siete lì, come me, sui vostri divani a sorbirvi il b-movie di questi giorni perché volete vedere come va a finire.

Che poi i b-movie hanno sempre il loro perché. Ci sono battute che vi faranno sempre ridere. O immagini a loro modo indimenticabili. Poteva essere Maradona con la bandiera dell’Inghilterra, il generale Custer vestito da indiano, Diabolik alla festa della polizia, Orban con la T-shirt del Che. Invece è Juan Cuadrado con la maglia dell’Inter. Se tutto questo accade – anzi, se tutto questo accade come se fosse una cosa normale – a noi tocca solo di alzarci in piedi e dire grazie, grazie, grazie! O preferivate passare l’inverno a vedere Sassuolo-Empoli o Frosinone-Lecce? No, ditelo.

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D. C. (dopo Cuadrado)

Torniamo un attimo indietro, ma proprio un attimo. Torniamo a ieri pomeriggio. Era una domenica d’estate, 45 gradi percepiti, la finale di Wimbledon, evitate di fare attività fisica all’aperto, mangiate frutta e verdura, quelle robe lì. Torniamo insomma all’epoca A. C. (avanti Cuadrado). Ci siamo? Ok.

Partiamo dal numero 23, 20 giocatori di movimento e 3 portieri. Tra cessioni e mancati rinnovi, l’Inter aveva già pianificato di cambiare 9 giocatori della scorsa stagione (Onana, Handanovic, Cordaz, Bellanova, D’Ambrosio, Skriniar, Gagliardini, Brozovic, Dzeko), cioè il 39% della rosa. Cui nelle ultime ore si è aggiunto Lukaku, portando il totale a 10 e la percentuale di rinnovamento al 43% (e almeno un paio restano nel limbo, il mercato è ancora lungo, potremmo sfondare quota 50%). E io tutto questo, calcisticamente, al netto di qualche scelta dolorosa, lo trovavo terribilmente eccitante. Tanto eccitante che ho metabolizzato nel giro di mezz’ora l’affaire Lukaku (pronuncia: affèr Lukakù), partendo da uno stupefatto “ma no, dai, non ci credo” a un consapevole “ma se ne vada affanculo”. Perché, nel mio nuovo ruolo di osservatore eccitato del mercato (lo so che era meglio farsi ibernare, ma patisco il freddo), mi metteva una certa tristezza la prospettiva di cedere uno dei pezzi migliori, un portiere 27enne cazzuto con margini di miglioramento, per un attaccante 30enne forte finché si vuole ma con qualche tara fisica e senza margini di miglioramento, oltre che vittima di una orribile pratica feticista – respingere i tiri a colpo sicuro dei compagni nelle finali di coppa.

Insomma, fino al tardo pomeriggio di ieri, mentre la temperatura planava verso i 30° con il 175% di umidità e Alcaraz alzava il trofeo on the grass, ero un interista sereno. Ma non sapevo che si stava per chiudere così l’era A. C.

Cuadrado.

Allora. Se tutto questo (io spero ancora che non sia vero) dipendesse solo da un’improvvisa e irrefrenabile voglia di metterla in rissa con la Juve, se incontrassi Marotta e C. al bar gli darei una pacca sulla spalla e gli direi: “Sì, ok, bello, ma porca troia!”. Che poi è la stessa cosa che gli direi a commento di qualsiasi altra ipotesi, comprese quelle tecniche, tattiche, macroeconomiche e politiche, comprese quelle teoricamente ineccepibili (tipo che prendere un jolly della fascia destra svincolato che gioca in serie A da 15 anni e fa ancora la sua porca figura quando le metti dentro è un affare). Perchè mentre ordino un caffè a Marotta, Ausilio, Antonello, Zanetti

(no, pensa alla scena. Io a Pavia che vado al banco e faccio lo splendido e ordino “un bel cafferino per i miei amici!” e Zanetti dice “amici nerassurri!”)

e lascio che il barista posi sul tavolino le cinque tazzine, dopo un attimo di silenzio direi solo “Sì, ok, bello, ma porca troia!”

Al che Antonello, il più british dei quattro, finendo di sorseggiare il caffè, e posando con leziosità la tazzina sul piattino, mi guarderebbe negli occhi e mi direbbe: “Sì, ok, ma tu sai soltanto dire sì ok bello ma porca troia? E poi – mentre nel bar cala all’improvviso il silenzio e tutti in quel momento sembrano guardare Antonello – ma tu, precisamente, chi cazzo sei?”

Al che io, mentre anche Marotta, Zanetti e Ausilio mi guardano e si chiedono la stessa cosa ma senza dirlo (in fondo gli ho appena offerto un caffè), mi alzo nel silenzio più totale e mentre tutti adesso guardano me e dico:

“Io sono un blogghe, ma voi che cazzo ne sapete? A me mi ha capito soltanto Cassano, forza Inter, Juve merda!”, e me ne andrei posando dieci euro sul banco dicendo “tieni il resto, gringo! Amala!” e il gringo mi direbbe “Oh, barbone, al tavolo sono 2 euro e venti!” e io gli direi, già sull’altro marciapiede: “Gobbo! Ladro! Viva la libertà!”

Vabbe’, ma tutto questo non c’entra con questa orribile questione che forse (cioè, non me ne faccio una ragione) prendiamo Cuadrado. Perché, ecco, in questo mondo del calcio clamorosamente sopra le righe e insopportabilmente privo di morale, ogni tanto bisognerebbe tirare una riga. Una società, un giocatore, un dirigente, un presidente, un allenatore (un procuratore no, figuriamoci) ogni tanto dovrebbero un attimo fermarsi, tirare una riga e dire: “No, vabbe’, dai, questo no”.

Cuadrado è la faccia della Juve degli ultimi otto anni, è l’incarnazione della juventinità più deteriore, quasi macchiettistica. Se dovessimo descrivere la Juve dell’ultimo decennio attraverso un volto, un fallo, un tuffo, una protesta, un pugno, una provocazione, un’arroganza, un gol preso, ecco, sono sicuro che tra le prime tre opzioni a chiunque verrebbe in mente Cuadrado.

Che poi uno potrebbe dirmi: “Sì, ok, bello, ma porca troia! Ti sei fatto andare bene pure Conte!”

E io gli risponderei:

“Ehi amico, a parte che sì, ok, bello, ma porca troia lo dico solo io. A parte questo. La questione Conte è per certi versi sovrapponibile ma per molti altri no. Conte era una scelta top destinata a inseguire un obiettivo top, se n’era andato sbattendo la porta, non ci aveva presi a pugni fino a due giorni prima. Conte era una scelta estrema per toglierci da una situazione estrema (cioè che non vincevamo un cazzo da anni, my friend). Con Cuadrado – solo l’aver pensato a un’ipotesi Cuadrado – ci poniamo in uno scenario apocalittico in cui i confini morali vengono calpestati nel nome di un parametro zero qualunque”.

“Scusa, puoi spiegarti meglio?”.

Ma sento queste parole sfumare nel mio povero cervello mentre quelli dell’Asl spuntano le domande del questionario:

“Scusi, ma lei non aveva appena rinunciato all’ibernazione?”

“Ci ho ripensato, fate presto, fa un caldo boia”.

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Al-qualcosa

Mettiamo il caso che uno lavori in un bel posto (boh, facciamo Parigi), in un’azienda importante, con una mansione di rilievo e con un ottimo stipendio (boh, facciamo 100mila euro netti l’anno). Ecco, se a questo qua un giorno si palesasse uno che gli offre venti volte tanto (sì, tipo due milioni l’anno) per un analogo o superiore incarico in un’azienda meno importante ma moooolto solida in un posto oggettivamente di merda (boh, facciamo Rozzano, per dire), offrendogli una casa di mille metri quadri con piscina, eliporto e rubinetteria d’oro (sì, a Rozzano, embè?) questo cosa fa?

Ci va, a piedi.

Quindi, basta con queste litanie sui campioni che vanno in Arabia. Avranno le loro ragioni e non c’è bisogno di spiegarle. Adesso che anche Milinkovic-Savic (uno tutt’altro che vecchio, o bollito, o entrambe le cose) ha deciso di andare a prendere pacchi di soldi nel deserto, passando direttamente da “giocatore che piace da anni a 200 squadre europee e nessuno però se lo piglia” a “vado in Arabia e andatevene tutti affanculo, lavoratori? Prrrrrrrrrrrrrrr”, ecco che ormai sarà meglio rassegnarsi a questa nuova situazione: l’Arabia entra a far parte del Primo mondo calcistico, che ci piaccia o no (è chiaro che non ci piace, ma quanto pensate che gliene fotta a Ronaldo, Benzema, Firmino e ai nostri amici Brozo e Milinkovic-Savic?) (Ve lo dico io: un cazzo).

Piuttosto, vediamo di conoscere meglio questo campionato. Per motivi di mercato sentiamo solo parlare di Al Nassr, Al-Hilal, Al-Ahli, Al-Ettifaq e Al-Ittihad. Ma le altre? Ecco qualche info.

Al-Caraz. Club di recente fondazione, fino a qualche anno fa si occupava prevalentemente di tennis e di padel, prima che i soci si rompessero i coglioni di sudare come bestie in mezzo alle dune. La nuova moda del calcio ha così imposto una provvidenziale riconversione al football. Per un paio di stagioni ha giocato in uno stadio ricavato dai vecchi campi in mateco: da qui il simpatico nomignolo con cui sono conosciuti i giocatori dell’Al-Caraz, gli “Escoriati”.

Al-Ban. Lo sceicco proprietario della squadra è un appassionato del bel canto e grazie all’impegno nel calcio si sta togliendo qualche sfizio personale. La squadra va ogni anno in ritiro precampionato in Puglia e l’inno del club è un remix arabeggiante di Felicità. L’Al-Ban non gioca mai durante il Festival di Sanremo: la partita viene di solito rinviata il lunedì, nel match che viene ormai tradizionalmente chiamato Nostalgia Canaglia Monday.

Al-Gorythm. E’ un club rivoluzionario nei suoi assetti: nel cda siedono uno sceicco e un computer. I giocatori vengono scelti da un software che li seleziona per ruolo, efficienza fisica e attitudini. Le trattative di mercato vengono condotte da Chat Gpt. Di una di queste è stata protagonista l’Inter, che ha offerto Correa per 50 milioni. Il computer ha esaminato la proposta e mandato questa mail: “Costa troppo poco, di sicuro è una sòla. Tenetevelo, barbùn”.

Al-Capon. E’ il club più chiacchierato e torbido, non a caso soprannominato “la Juventus saudita”. Già negli anni Settanta era sospettata di ingraziarsi gli arbitri offrendo loro barili di petrolio greggio. Poi, dopo uno scandalo doping negli anni Novanta (parecchi giocatori furono trovati positivi al cherosene, prima che tutto venisse insabbiato), la clamorosa condanna nel 2006 per Beduinopoli, con due petro-scudetti revocati.

Al-Miranth. E’ il club più schierato politicamente. Il proprietario, lo sceicco Al-Alà, ha dichiarato in una recente intervista di collocarsi nel solco della destra moderata europea, tra Marine Le Pen ed Hermann Göring. Dopo le polemiche suscitate da una recente vicenda – la squadra è entrata in campo con il fez al posto della kefiah -, l’Al-Miranth sta cercando di ripulire la propria immagine aderendo con convinzione al progetto di Fratelli d’Arabia.

Al-Legrhi. Il club è da sempre riconosciuto come simbolo dell’anti-calcio saudita. Per tradizione, la squadra si schiera in campo con lo schema 8-1-1, evoluzione di un antico 9-1-0 che ora l’Al-Leghri ritiene con orgoglio di aver superato con il nuovo spregiudicato assetto. I tifosi però non sono soddisfatti e ogni anno gli abbonamenti sono in calo: l’allenatore ha annunciato novità (“passerò al 7-1-2”), ma senza per ora aver sortito alcun effetto.

Al-Gidah. E’ l’unico club controllato non da uno sceicco petroliere, ma da uno sceicco gelataio monopolista dopo l’accordo con l’industriale arabo-americano Sam Montahn ancora al vaglio dell’Antitrust saudita. Simbolo della squadra è il Kornet, un tradizionale prodotto dolciario arabo: una cialda a forma di cono riempita di gelato alla vaniglia e cioccolato. Il Kornet viene servito semi-sciolto, proprio come a San Siro: “Il calcio italiano è il nostro riferimento”.

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Luisito, io, noi

Sono tanto vecchio da aver visto giocare Luis Suarez, ma non abbastanza vecchio da averlo visto giocare nell’Inter. Avevo otto anni e lui aveva la maglia della Sampdoria, fu una partita assurda – assurda lo dico oggi, all’epoca non avevo i mezzi per catalogare le partite se non attraverso gli umori scomposti e genuini dei miei zii – che fini 4-4 e lui, Suarez, un arzillo vecchietto (aveva ben 36 anni, quasi 37, poco meno dei miei zii già stravecchi, cioè era pronto per la fossa nel mio immaginario di ottenne), segnò nel finale il rigore del 4-4, non pago di avere servito poco prima a Marcello Lippi l’assist per il 4-3 (vincevamo 4-2, tripletta di Bonimba: non bastò).

Chi fosse – anzi, chi fosse stato per noi e per il mondo intero – Luisito Suarez l’avrei pian piano imparato nel tempo. Le mie primissime Inter vedevano in campo Facchetti, Mazzola, Burgnich, Jair, Corso, una roba superlusso e al contempo un po’ malinconica, la Grande Inter che invecchiava e vinceva sempre meno e perdeva i pezzi poco a poco, com’è normale che sia, c’est la vie. Tra i miti viventi mancava giusto lui, che ho intravisto quel pomeriggio con una maglia nemica ma poi avrei incrociato negli anni mille altre volte in un nerazzurro velocemente e finalmente ritrovato: allenatore, osservatore, uomo immagine, ambasciatore, commentatore, leggenda vivente, eccetera eccetera. Nell’imprinting del mio interismo c’è anche Luisito Suarez, senza averlo mai visto giocare ma avendolo sentito nominare un milione di volte, “eh, Suarez”, “ma ti ricordi Suarez?”, “ci vorrebbe uno come Suarez”, “uno come Suarez lo vedi ogni cent’anni”, e citato alla riga numero 10 della filastrocca sartiburgnichfacchetti che è poesia pura, una delle nostre preghiere laiche, la formuletta del nostro giuramento nerazzurro.

La Grande Inter è per me il parametro della Memoria e del tempo che passa. Nella mia traumatica prima volta a San Siro (8 novembre 1970, Milan-Inter 3-0) quella della Grande Inter era un’epopea ancora freschissima: l’ultimo titolo 4 anni prima, l’ultima finale di Coppa Campioni 3 anni prima, molti dei protagonisti ancora in campo, ancora giovani (Facchetti e Mazzola, per dire, avevano 28 anni). Non era solo storia recente, era storia ancora in corso, i racconti erano precisi, in fondo quasi non necessari, tanto gli avvenimenti erano vicini. Ecco, sono così vecchio che la Grande Inter non l’ho vista, ma non me l’hanno nemmeno raccontata abbastanza perchè era ancora lì, latente, una favola che nessuno voleva che finisse, e forse raccontarla significava archiviarla, e nessuno – tipo mia mamma e i miei zii – voleva farlo.

Poi il compito della Memoria – eh, ti tocca – piano piano te lo devi accollare tu. Passa il tempo e ti trovi a dover spiegare non solo chi erano i Beatles e Battisti, ma ormai anche Pino Daniele e Lucio Dalla. Non solo chi erano Suarez e Facchetti, ma anche Bonimba, Spillo, Lothar e ormai Ronaldo (perché non tutti sanno bene la storia del Ronaldo vero), Vieri, Baggio, per non dire di Zenga e Bergomi che a qualcuno devi raccontare che un tempo facevano un altro mestiere, altroché. Passa il tempo e cresce il numero delle cose che devi spiegare, perchè i ragazzi mica le sanno, o non le sanno tutte, o non le sanno bene. Anche il mito va un po’ alimentato. E siccome a me non hanno spiegato abbastanza cos’era stata la Grande Inter, mi tengo stretta la vaghezza di certi ricordi e di certe informazioni, per fortuna confermate dagli almanacchi. Mi tengo stretti i contorni sfumati di una leggenda che si costruiva mentre io era nella culla, del tutto ignaro del destino calcistico che mi attendeva mentre là fuori undici ragazzi con la maglia più bella del mondo scrivevano la Storia.

Luis Suarez non è solo quel centrocampista – il primo vero regista, dicunt – di cui si tramanda qualche vecchio filmato in bianco e nero, un giocatore elegante, abbagliante, affidabile, carismatico, decisivo. E non è solo quella cifra abnorme (300 milioni, era il 1961, un pacco di soldi con cui – dicunt – il Barcellona ristrutturò il Camp Nou) che Moratti padre spese per accontentare Helenio Herrera e mettere le solide basi a una squadra che infatti dominerà la scena mondiale per cinque anni, quasi sei. Luis Suarez è la Grande Inter, come gli altri nomi della nostra filastrocca preferita, e della Grande Inter è stato uno dei più grandi, forse il più grande, ma non starei qui a fare graduatorie perchè a) faremmo notte e soprattutto b) sarebbero parziali, ingenerose, probabilmente sbagliate. Inutili, ecco.

La Grande Inter è per me il parametro della Memoria e del tempo che passa. Oggi, che se ne perde un altro pezzo, mi sento un pelino più vecchio. E siccome mi accorgo ora che volevo scrivere un post su Luisito Suarez e invece l’ho scritto su di me, credo di aver capito il succo della questione odierna: Luis Suarez è l’Inter, noi siamo tutti Suarez, Luisito è tutti noi.

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Io e il calciomercato (un rapporto complicato)

Ho un rapporto sereno con il calciomercato. In estrema sintesi, posso tranquillamente dichiarare che mi farei ibernare ai primi di giugno per poi farmi scongelare il primo settembre direttamente davanti a un’edicola, al termine di una breve cerimonia alla presenza delle autorità civili, militari e sanitarie. Gocciolante e ancora mezzo rattrappito, andrei al chiosco e pronuncerei le mie prime tre parole da redivivo

“La Gazza, grazie”

e poi mi siederei al tavolino di un bar a leggere le due pagine di tabelle definitive, cominciando dall’unica che mi interessa veramente – Inter acquisti, Inter cessioni – per poi proseguire a scalare con le altre. Poi cercherei la classifica di serie A (perchè nel frattempo saranno state giocate almeno un paio di partite) (e se l’Inter avesse meno di 6 punti tirerei giù i primi santi da redivivo) e infine andrei dal medico di famiglia a farmi dare una controllatina a battito, pressione e quel paio di altre cosette che potrebbero interessargli del suo unico paziente che si fa ibernare due mesi e mezzo l’anno, quasi tre.

Certo, mi perderei l’estate, le vacanze, mondiali ed europei vari (compresi quelli di calcio, se giocati non nel deserto), le Olimpiadi, Wimbledon, le amichevoli precampionato (un giorno giochi con la rappresentativa della Val Trompia, il giorno dopo con il Paris St. Germain), e vabbe’, chi se ne frega. Ma mi leverei da cazzo il calciomercato, che sarebbe come dire che da un’estate-tipo mi leverei dal cazzo afa, zanzare, notti torride, ascelle pezzate, quelle robe lì.

Se il calciomercato fosse una sequela di annunci veri, sarebbe anche divertente. In fondo io da sempre guardo l’Eurofestival solo per le votazioni finali: cioè, roba concreta, numeri fatti e finiti, classifiche in rapido divenire, collegamento con l’Albania, i 12 punti vanno all’I-ta-liaaaaaa, figata. Invece no: prima di arrivare all’annuncio concreto – Tizio passa dalla squadra X alla squadra Y per Z euro e per tot anni di contratto – ci si deve sorbire una tale ridda di voci, illazioni, ipotesi incrociate e dichiarazioni di comodo che io di solito verso il 15 giugno ho già esaurito la pazienza.

Per inciso, il 15 giugno mancano ancora 15 giorni alla vera apertura del calciomercato.

Per cui dopodopomani, primo giorno ufficiale di calciomercato, io vorrei non-esserci da almeno due settimane. Se solo la commissione di bioetica approvasse questa mia proposta, io adesso sarei in un blister a -50 e starei già sognando quel tiepido mattino di settembre in cui, gocciolante, intorpidito ma sempre più lucido, scoprirei tutto dalla Gazza in un colpo solo. Tra “argh!” e “ma dai!”, tra “nooo!” e “sì!”, in pochi minuti (con Wikipedia a disposizione nel caso estremo del “ma chi cazzo è?”) verrei a sapere quello che voi, sì, voi, sarete costretti a elaborare in due mesi e mezzo di scoop e smentite, accordi e giravolte. Sarebbe bellissimo.

Sarebbe anche un modo un po’ estremo per saltare a piè pari la fase più complicata del calciomercato, quella sentimentale, tra giocatori che se ne vanno (perchè ci si affeziona a tutti) (quasi a tutti) e altri che vorrebbero arrivare e magari sono stritolati nell’effetto domino di affari che non si fanno. Zac!, una volta scongelato affonterei anche queste spossanti questioni a cuore più leggero, essendo già successe da settimane e quindi bòn.

Oppure, in subordine, vorrei che si tornasse al calciomercato antico, quello solo all’hotel Gallia, i box delle squadre, i trasferimenti conclusi al bar o nel garage. Pochi giorni di suk e via, verso la nuova stagione. Invece, alla diciassettesima ipotesi su un affare che “tarda a concretizzarsi” mentre si profila “l’inserimento della (nome di squadra che ti sta sui coglioni)”, vengo preso da pensieri di morte, terrore, distruzioni o disfattismo. Quella voglia di non occuparsi mai più di calcio e di Inter, una voglia insana che dura magari anche dieci minuti e poi passa. Ma sono dieci minuti bruttissimi, che non mi merito.

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Trattatello in laude di Acerbi

Mentre l’Inter viveva la stagione dei suoi successi a raffica (tra il 2006 e il 2012, da Mancini a Leonardo passando dallo Special One e Benitez, scudetti, Champions, triplete, coppe varie) (sospiro), a Pavia – 40 km da San Siro, controllate pure su Maps – transitavano giocatori che poi avremmo visto più o meno stabilmente in Serie A, o addiririttura in Nazionale. Il Pavia – che nel frattempo è fallito, sprofondato e rinato e oggi milita in Eccellenza, una specie di limbo tra il calcio che conta poco e il calcio che non conta un cazzo – in quegli anni così densi di interismo militava tra C2 e C1 (poi LegaPro): diciamo che avevo calcisticamente altro a cui pensare, ma che mi poteva capitare, in momenti di astinenza o di particolare afflato cittadino (o anche per lavoro, occasionalmente), di fare un salto allo stadio Fortunati e di guardare la partita di quella che, volendo essere precisi, potrei definire una delle mie seconde squadre, qualche gradino sotto la prima.

(la prima, non so se l’ho mai detto, è l’Inter. Poi, a livello di club, ci sono tre squadre di cui seguo passo passo i risultati e i rispettivi campionati: Vogherese, Pavia e Liverpool)

C’è stato un momento, diciamo a metà dello scorso decennio, che in Serie A giocavano contemporaneamente da titolari un calciatore di Pavia (Simone Verdi, che curiosamente non ha mai giocato nel Pavia) e quattro ex del Pavia: Giaccherini, Pavoletti, Falco e Acerbi. Una felice e rara coincidenza, per una città un po’ ai margini del calcio che conta. Giaccherini, Pavoletti e Falco hanno giocato un solo campionato a Pavia per poi andare altrove. Acerbi, invece, è stato a Pavia parecchio. Cinque stagioni, dalle giovanili alla prima squadra, inframmezzati da un paio di prestiti. Cinque stagioni. Potrei bullarmi a dire che io sì, l’avevo visto giocare da ragazzo e bla bla bla, si intuiva che bla bla bla, ma non me lo ricordo proprio. Probabilmente no, non l’ho mai visto.

A Pavia Francesco Acerbi ha esordito a 18 anni in prima squadra in C1, quindi nel calcio professionistico, domenica 23 aprile 2006 in Pavia-San Marino 4-0 (forse era un segno del destino, passato del tutto inosservato, ma nella corrispondente giornata di Serie A, anticipata a sabato 22, anche l’Inter vinceva 4-0 con la Reggina). Aprile 2006: da lì a un mesetto sarebbe successo il finimondo. Le ultime due stagioni le ha giocate da giovane titolare al centro della difesa. Poi il Pavia lo cedette in comproprietà proprio alla Reggina, che lo cedette al Genoa, che lo rimpallò in comproprietà prima al Chievo e poi al Milan (solo 10 presenze, ma due in Champions) e via così per qualche confuso passaggio di maglia e di cartellino fino a quello definitivo al Sassuolo. E da lì – è il 2013, dieci anni fa – la storia è nota.

Quando arriva al Sassuolo, Acerbi ha già 25 anni, e ne perderà uno abbondante per curarsi un tumore con recidiva. Quando a 26 anni e mezzo torna in campo, non più giovanissimo e una drammatica storia alle spalle, praticamente non ne uscirà più. Dopo un campionato di (ri)assaggio, seguiranno nove stagioni in cui le giocherà tutte o quasi. Quando parla della malattia lo fa con serenità e una punta di orgoglio: “Se non avessi avuto il tumore forse giocherei in B, o in C, o forse avrei già smesso”. Invece la sua rinascita personale si è realizzata sui campi di Serie A, dove per recuperare il tempo perduto (o forse, apprezzando la seconda chance che gli veniva data) è diventato un giocatore affidabile, generoso, puntuale, necessario. Lo ha fatto senza forzare, soprattutto nei toni, lasciando parlare i fatti. Punto di riferimento assoluto di Sassuolo e poi Lazio. E anche in azzurro, con la formula dell’usato sicuro: delle 31 presenze in Nazionale, 29 le colleziona dopo aver compiuto 30 anni.

Quando arriva all’Inter, anche a seguito di (oggi possiamo dire: grazie a) una spiacevole situazione creatasi con la tifoseria laziale, diamo tutti per scontato che sia il centrale di riserva, anzi, il sostituto di Ranocchia, non mancando di notare che Acerbi è addirittura 6 giorni più vecchio dell’ex capitano, alla faccia del ringiovanimento della rosa. Ma Ranocchia nel suo ultimo anno all’Inter aveva fatto 10 presenze, per lo più spezzoni, di cui 3 in Coppa Italia. Acerbi, nel suo primo anno all’Inter, farà 49 presenze di cui 12 in Champions League, compresa la finale, duellando in mondovisione con il miglior giovane centravanti dell’universo che toccherà tre palloni in 90 minuti.

Se l’aggettivo “sorprendente” è quello che forse più si adatta a descrivere la stagione 2022/23 dell’Inter, il giocatore simbolo non può che essere uno sorprendente come Francesco Acerbi. Che è meno patinato di Lautaro, meno frenetico di Barella, meno strabordante di Onana, meno pulito di Bastoni, ma ha dato a tutti una straordinaria lezione di calcio. La naturalezza con cui si è inserito nell’Inter, nel suo gruppo e nel suoi meccanismi difensivi è una delle chiavi dell’intera annata nerazzurra. Nella perenne ricerca del “giovane”, quasi non ti accorgi che il tuo colpo di mercato va per i 36. E quando te ne accorgi vieni colto da una piacevole sensazione: tipo che non c’è niente di scritto e che gli schemi possono essere stravolti anche da chi non ti aspetti. Un vecchio, o presunto tale.

Che poi varrebbe anche per Darmian, anche lui uno serio, senza effetti speciali, che magari ti distrai a guardare gli altri fino a quando non gli vedi fare una diagonale che Chuck Norris al confronto è Carla Fracci e ti alzi dal divano ad applaudire come avesse fatto un gol – che poi ogni tanto ne fa. E’ l’Inter italiana, diligente e un po’ operaia che ti regala una stagione con tre finali e tu che fai?, ringrazi e stop, la ami, li ami.

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Rimpianto & orgoglio

Cioè, qualcuno avrebbe davvero firmato per una buona sconfitta? Ovviamente no, in una finale di Champions esistono solo due risultati – hai vinto, hai perso – e tutte le possibili sfumature della sconfitta non cambiano il risultato. La Champions l’ha vinta il Manchester, il nome sull’albo d’oro sarà quello e non ci sarà nessun asterisco di fianco al risultato City-Inter 1-0*

* ma cagandosi addosso perché l’Inter ha fatto un partitone

No, purtroppo non funziona così. Non ci sarà nessun asterisco nemmeno riguardo la serenità, ancora più impalpabile della paura altrui. Però quella ce la possiamo godere, prendendo sonno con naturalezza: la serenità di avere giocato al 100%, di avere onorato l’impegno, di essere stati al livello di un’avversaria che gli algoritmi mettevano qualche gradino sopra. La malinconica serenità di accettare un sentimento che non era nella Top 10 delle previsioni della vigilia: il rimpianto. Il rimpianto di non aver prolungato la partita ai supplementari, forse addirittura di non averla vinta quando si poteva.

Ecco, l’Inter ci ha sorpreso anche stasera. Ancora non ci si credeva di vederla lì, a giocarsi la finale di Champions, e in fondo è andata oltre: ci ha fatto vivere una notte da leoni, una partita in cui non si capiva bene chi stava dominando chi, quando nei pronostici della vigilia era tutto molto chiaro. Il fatto di avere addirittura dimostrato di poterla vincere, beh, ci provoca un inatteso rimbalzo di umore: contenti proprio no, nemmeno così sereni, gne, umf.

Ci è mancata un po’ di lucidità e un po’ di culo, in una dose fisiologica, non clamorosa: sarebbe bastato. Aver concesso al City tre occasioni da gol in 95 minuti dà l’idea della razza di partita che abbiamo fatto in quella che è diventata quest’anno la nostra specialità di coppe, applicazione più sacrificio. Essere qui a mangiarsi i gomiti per essere arrivati anche noi tre volte vicini a segnare (anzi, più vicini di loro) è un altro indicatore di quanto l’Inter se la sia giocata, se la sia voluta tenacemente giocare.

Consoliamoci con l’orgoglio. Quello sì, poteva traballare di fronte a una partita anonima, passiva, rinunciataria. E invece gli abbiamo dato una bella lustrata: non ricorderemo questa serata per il risultato, ma per la bellezza di essere interisti sì. La sventolata di bandiere della nostra curva all’Ataturk, dopo il fischio finale, è stata una bella immagine di interismo.

E’ stata una stagione pazzesca, a tratti bellissima, qualche volta insensata, perché la pazzia una non la può eliminare del tutto. Abbiamo fatto tre finali, vincendone due. Inzaghi (anche lui non ha sfigurato davanti al presunto genio del calcio, anzi) e tutta la squadra vanno ringraziati per averci portato fin qui, ben oltre quanto potessimo immaginare. Abbiamo perso la Champions, arrivando a un millimetro dal mettere un gol che avrebbe cambiato le sorti della partita: è lo sport, è il calcio, le co-vittorie sono solo un’invenzione dei poveri di spirito. Forza Inter, siamo tornati nel club delle grandi: provare a restarci sarà il prossimo step, ma pensiamo pure tra un po’.

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Meno zero (ci siamo)

Per tutta la settimana – è una scaramanzia talmente farlocca che posso tranquillamente spoilerarla – dopo pranzo mi sono fatto un Istanbul. Quelli che come me fanno uso del Nespresso, anzi, fanno parte del Nespresso – una specie di massoneria alimentare – sanno di cosa parlo. Capsulina giallo ocra istoriata, intensità 8, un caffè eclettico e allo stesso tempo armonioso – sto copincollando lo spiegone – come l’atmosfera frenetica delle prime caffetterie, nate in questa città cosmopolita dell’antico Impero Ottomano (sospiro). Dinamico come la storia del caffè in questa città, storico crocevia delle antiche rotte commerciali.

Che copy, che poesia. Uhm, questa settimana insomma mi sono fatto quasi una stecca di Istanbul. Avverto, schioccando le labbra, che l’unione di due diverse varietà – l’Arabica dell’Etiopia e il Robusta dell’India, e torno a copincollare – offre un profilo splendidamente complesso, con note tostate e di frutti selvatici e un gusto amaro e una spiccata acidità. Secondo Nespresso, nel minuto circa della mescita potevo legittimamente sentirmi un po’ a Istanbul, e così ho fatto.

(un giorno mi occuperò della questione Nespresso. Dall’inizio nutro il sospetto che dentro le 25 diverse capsule ci sia lo stesso caffè e che le note tostate e la spiccata acidità siano un’esperienza indotta da una specie di autosuggestione, l’effetto dell’appartenere a questa casta che aspetta l’uscita delle nuove fragranze come fossero un disco di Battisti e che, dovunque ci si trovi nel mondo, entra nel negozio Nespresso come fosse il Prado)

A parte il caffè, che per qualche istante mi faceva sentire a Istanbul prima di affacciarmi alla finestra e di rendermi conto con un’indicibile tristezza di essere a Pavia – poi dicono che il caffè ti tira su – di Istanbul mi sono occupato poco. Calcisticamente, intendo. Ho letto pochissimo, quasi niente. Non ho letto nulla del City. Mi ricordo che 13 anni fa mi successe la stessa cosa con il Bayern: dopo tutto quello che ci era successo nelle settimane e nei mesi precedenti, non c’era nulla che mi interessasse dei nostri avversari. Quando qualcuno mi disse che non avrebbe giocato Ribery, il mio commento tecnico fu:

“Ah”.

Non me ne frega niente di chi gioca e di chi non gioca. Di questo City, come di quel Bayern. Lo scoprirò quando si schiereranno a centrocampo con i bambini davanti. Del City abbiamo tutti ben fisse quelle tre o quattro nozioni: in sintesi, sono fortissimi, hanno un sacco di alternative, saranno cazzi. Ma non mi interessa, lo sappiamo tutti e basta, stop. Tantomeno, mi interessano le questioni tecniche. Fossi io l’allenatore dell’Inter, darei sommarie indicazioni ai giocatori:

“Lo vedete quello spilungone biondo? Ecco, qualcuno gli dia un’occhiata. Anche all’altro biondo, quello un po’ meno grosso, visto, sì? E’ uno che ci sa fare a centrocampo. State all’occhio, divertitevi, domani giorno libero! Mucha Mierda!”

Non mi interessa se pioverà o ci sarà il sole, se l’arbitro è neonazista o castrista, non mi interessa più niente. Mi interessa solo che si giochi.

Il City è un gradino sopra, ci può ingoiare in un sol boccone, vincere il match di un due/tre semplici mosse, concedersi una goleada per il suo triplete in grande stile. In teoria non c’è partita. Ma a me interessa la pratica, voglio sentire la musichetta, il fischio dell’arbitro, l’urlo della folla. Voglio vedere rotolare il pallone. In teoria non c’è partita, ma nella pratica?

Nella pratica, abbiamo conosciuto quest’anno un’Inter di coppa che non ha avuto niente da spartire con una certa Inter di campionato. Un’Inter che in Europa ha giocato partite di grande sofferenza portando a casa il risultato. Un’Inter che in Italia ha giocato quattro finali in due stagioni e le ha vinte. Se tutto questo avrà un peso, boh, io non lo saprei dire. In questi giorni mi sono molto concentrato sul distinguere le note tostate nel contesto di un gusto amaro che mi ha fatto dire:

“Ma se io adesso mi bevo un Milano, un Palermo, un Napoli (rumore di tuoni) sentirò le stesse cose? Le note tostate le sta elaborando il mio cervello per farmi sentire in pace con me stesso ed evitare una spiacevole class action?”

Ma oggi è diverso, oggi tocca concentrarsi e aspettare le nove di sera. Se la Nespresso avesse un Madrid, me lo berrei un’oretta prima e chiuderei gli occhi per sentirmi come mi ero sentito al Bernabeu. “Entra, respira, guarda dove ti hanno portato i ragazzi”. Ecco, questo pensiero lo replicherò di sicuro. Non perchè porta bene, ma perchè è vero.

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Meno uno

Tra cose che non si dicono, cose che non si pensano e cose che si fanno finta di non sapere, a chi mai delegare una sana botta di realismo (che non siamo più in grado di isolare dalla scaramanzia)? Beh, a chi se ne intende: alle società di scommesse. Fate anche voi questo esperimento. Vi stendete a letto o sul divano, guardate il soffitto, socchiudete gli occhi, pensate a sabato, lasciate fluire le sensazioni. Poi riaprite gli occhi, prendete lo smartphone, cercate City-Inter quote, cliccate, leggetele. Eh, lo so. Tirate un sospiro. Posate lo smartphone.

Più o meno, la quote di City-Inter sono quelle di un’Inter-Bologna. In cui loro sono l’Inter e noi il Bologna. La vittoria al 90esimo del City è data a circa 1.4/1.5, una miseria; il pareggio a 4.5/4.7, che sarebbe già un bel prendere; la vittoria dell’Inter 6.5/7.0. Col passare delle ore, la quota è aumentata di qualche decimale: insomma, non solo il City è favorito, ma sull’Inter non si sono addensate nel frattempo grandi aspettative. Le quote degli allibratori possiamo considerarle la fotografia più o meno esatta della situazione: naturalmente capita che il Bologna vinca a San Siro – capitano i pali, le traverse, le occasioni sbagliate, le partite di merda, le espulsioni, l’arbitro fenomeno, la pioggia, le sfighe varie -, ma l’imponderabile fa parte del gioco.Stiamo cercando una base oggettiva, e la base oggettiva di tutte le società di scommesse dice che il City è strafavorito e l’Inter molto probabilmente perderà.

Questo lo sapevamo dall’inizio anche senza andare a sfrucugliare Snai, Sisal, Better ecc. ecc., ma ogni tanto è giusto soffermarsi sul lato più spiacevole di questo meraviglioso finale di stagione: e cioè che sarà dura, durissima, probabilmente impossibile. Quando due interisti i incontrano per strada e parlano della finale iniziano in punta di piedi, fanno della gran teoria, massimizzano i sistemi, poi planano lemmi lemmi sul terreno del “non succede, ma se succede” che tiene aperta la porta principale. Eh, ma quello di Istanbul non sarà il migliore dei mondi possibili.

Noi siamo l’Inter, la sorpresa. Loro sono il City, i più forti del mondo. L’importante è non dare per scontato tutto questo, nè l’impossibilità nè la possibilità. Rassegnarsi a un ruolo subalterno, accontentarsi di essere arrivati a una finale in cui le società di scommesse ti quotano come un Bologna qualsiasi perchè probabilmente è giusto così. O confidare che c’è una chance per tutti, che comunque qualcosa possa accadere, e che per una simpatica combinazione sarà proprio quello che desideri.

Il mio mantra in questi giorni è stato “con serenità”. Cosa potevamo fare di più? Niente, siamo arrivati alla più insperata delle finali, abbiamo giocato 12 partite di Champions e ci resta la tredicesima. “Con serenità” è un concetto che racchiude un sacco di cose. A proposito delle società di scommesse, la serenità di accettare di essere quotati come ampiamente sfavoriti: 80 per cento delle possibilità a loro, il 20 a noi (un 20 che comprende anche la possibilità di allungare la partita). Ma anche la serenità, forse, di essere più sereni di loro, che hanno davanti l’occasione della storia da netti favoriti. La serenità – che spero non sia troppa – di non avere eccessiva pressione da parte nostra.

E’ questa la sfumatura più complicata. E’ chiaro che tutti sogniamo di vincere, è ovvio che tutti nel nostro intimo cediamo a un ottimismo magari eccessivo (siamo in finale, why not?). Ma non siamo lì a fiatare sul collo dei nostri beniamini: tutti vorremmo che vincessero, nessuno – almeno, credo sia così – lo pretende davvero. Sarebbe ingeneroso. Ecco, io vorrei tanto che questo meccanismo infondesse serenità alla squadra, non appagamento, non autoassoluzione a priori. La partita è da giocare fino in fondo, e so che lo faremo. Per una sera cercheremo di essere un Bologna o un Monza, quando vengono a San Siro a giocare quelle partite che nessuno pretenda che vincano (“non è qui che dobbiamo fare i punti”) e invece, mannaggia a loro, lo fanno. Perchè i risultati delle partite non li decidono gli algoritmi degli allibratori.

La cosa davvero clamorosa, ecco, è che domani sera sapremo tutto, conosceremo il finale della finale. Mi basterebbe – non lo dico per scaramanzia – non rimanere deluso.

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Meno due

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, ma se dovessimo vincere questa Champions

(la frase si presta a almeno 12 diverse sfumature di scaramanzia, quindi va bene così)

ci potrebbe essere qualcuno che tira fuori la storia di Steven Bradbury, l’australiano che vinse l’oro a Salt Lake City nello short track perchè i quattro che correvano la finale con lui (che erano molto davanti a lui ed erano molto più forti di lui) caddero tutti all’ultima curva. Steven Bradbury, che tra cadute e squalifiche altrui aveva passato fortunosamente anche i quarti e le semifinali, è così passato alla storia per due motivi: è stato la prima medaglia d’oro di un atleta dell’emisfero australe alle Olimpiadi invernali ed è stato il protagonista della più gigantesca botta di culo della storia dello sport. Tanto che in Australia – terzo motivo di fama imperitura – si dice ancora oggi doing a Bradbury, fare un Bradbury, per indicare un successo insperato.

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, ma se dovessimo vincere questa Champions

(la ripetizione della scaramanzia è essa stessa una scaramanzia)

qualcuno potrebbe dire che siamo stati come Bradbury, riferendosi ai fortunati sorteggi che ci hanno riservato Porto, Benfica e Milan quando dall’altra parte del tabellone City, Real, Liverpool, Chelsea, Bayern e Psg si scannavano tra di loro.

Il paragone potrebbe essere simpatico (tra l’altro presuporrebbe che abbiamo vinto la Champions, quindi sticazzi, potrebbero paragonarci anche a Bokassa), ma è ovviamente inesatto. Guadagnarsi la finale di Champions vuol dire arrivare a giocare 13 partite, che sono tante, e passare indenni le 12 precedenti non può essere frutto del caso. E se siamo stati fortunati in primavera, in autunno non lo siamo stati per niente: aver passato il turno in un girone con Bayern e Barcellona (Barcellona che hanno subito catalogato come disastroso, salvo poi vederlo vincere la Liga con 10 punti di vantaggio sul Real nonostante tre sconfitte nelle ultime quattro) è stata un’impresa della madonna.

Quanto poi alla fortuna, vabbe’, ne abbiamo avuta a livello di sorteggi, ma in ogni singola partita ce la siamo cavata ampiamente da soli, mica a colpi di autogol o di rigori che non c’erano. E infine: parlando degli accoppiamenti fortunati, i Bradbury in questa Champions sono stati otto (la nostra parte del tabellone), mica uno solo. Abbiamo stravinto il torneo dei fortunelli, e giustamente approdiamo in finale.

Tranquilli, non succede, è praticamente impossibile, molto più probabilmente che si perda 5-0, ma se dovessimo vincere questa Champions

(amplificare la scaramanzia può sempre rivelarsi utile)

con un autogol di ciuffo di Grealish, o per un tiro di Barella destinato al fallo laterale e che invece incoccia in un gluteo di Gagliardini – entrato nel finale come mossa disperata di Inzaghi – ecco, diciamo che con onestà intellettuale sarei il primo a dire che abbiamo avuto culo e che siamo i Bradbury del soccer. Ma lo direi alzando la coppa con una mano e con l’altra stringendo l’ultima birra mentre la finisco a canna. E dopo aver dominato per decenza un enorme rutto, dopo aver cantato Pazza Inter e l’Inno di Mameli in rapida successione, dopo avere guardato 46 volte gli highlights, intratterrei gli astanti raccontando la vera storia di Bradbury, delle sue sofferenze, dei suoi 118 punti di sutura, della sua vertebra cervicale, degli avversari che facevano strike tra di loro e delle porte del paradiso che si aprivano all’improvviso nel palaghiaccio. Perchè bisogna esserci, in finale.

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