Piolology

Mi piacerebbe fare un sondaggio tra i tifosi del Milan e chiedere cosa pensano di Pioli. Per essere più precisi: cosa pensano di Pioli e di quello che dice. Di come e cosa comunica. E’ una curiosità che mi vorrei togliere, come dire?, da persona informata sui fatti. Nel senso che anch’io la scorsa stagione – una stagione che culminerà con un’incredibile finale di Champions e due trofei vinti, ma passata attraverso 12 sconfitte su 38 partite di campionato – ho avuto problemi di compatibilità intellettuale con il mio allenatore, e credo che come me ce li abbiano avuti anche un tot di altri interisti. E se mi avessero fatto partecipare a un analogo sondaggio, in certi momenti avrei messo il pollice verso. Era il periodo delle supercazzole del postpartita che ti facevano dubitare fortemente di lui, se ci era o ci faceva. Il periodo di “se avessimo segnato noi adesso staremmo parlando di un’altra partita”, o di “se avesse segnato due gol, adesso tutti parleremmo di un grande Lukaku”. Dichiarazioni pronunciate, savasandìr, dopo partite perse senza magari un tiro in porta, o dopo partite inguardabili di Big Rom in cui la palla più che altro gli rimbalzava contro. Del resto, se tutti i nostri nonni avessere avuto le ruote sarebbero stati delle gran carriole.

Simone Inzaghi non è un grande oratore, questo è notorio, e va anche detto che parlare dopo una sconfitta è più difficile che buttare lì quattro frasette in croce dopo una vittoria, un bel sorrisone e via verso il pullman. Diciamo che il nostro mister ha tanti pregi, ma non certo quello dell’affabulazione. Un’arte in cui Pioli, per esempio, eccelle di più, con quelle sue interviste condotte con uno sguardo a metà tra papa Giovanni XXIII e George Clooney, con un fare suadente che lo prenderesti a pomodorate e con un ampio ricorso a una retorica laico-pretesca che vuole fare apparire il Milan come un metaverso in cui tutto converge verso il Bene, un ambiente così positivo che al confronto i boy scout sono le Bestie di Satana. Il che lo rende, oggettivamente, un personaggio parecchio irritante.

Detto tutto questo, che problema ha Pioli (anche da ex allenatore dell’Inter, anche da ex interista – così almeno raccontava)? Che problema ha, dopo aver preso 5 pere nel quinto derby perso in un anno solare (nove mesi scarsi tra il primo e l’ultimo, praticamente uno ogni 50 giorni), 12 gol subiti e uno fatto, a dire “beh, faccio i complimenti all’Inter, oggi sono stati più bravi di noi” non dico proprio tutte le volte (capisco che lo manderebbero affanculo in curva sud) ma almeno nell’ultima, dopo 5 pere e 5 partite in cui non ne hai azzeccata una manco per sbaglio?

La frasetta di cui sopra, detta magari a denti stretti e controvoglia, avrebbe due effetti pratici: intanto, ti renderebbe più umano – inteso: con i due piedi piantati sul pianeta Terra -; secondo, sarebbe la premessa ideale a successive dichiarazioni modello “gioco delle parti”, in cui avendo appunto ammesso che l’avversario è stato meglio di te (beh, figa, non mi sembra una grande forzatura: te ne ha fatti 5) (cinque), puoi proseguire sereno nel solco di questa attenuante-aggravante (riconoscere la superiorità del competitor è un’arma dialetticamente a doppio taglio) (ma ne hai appena presi 5, è già tanto che ti fanno parlare) dicendo il cavolo che vuoi, facendo tutti i distinguo che vuoi, prendendoti tutte le scuse che vuoi. Perché sei partito dicendo che gli altri hanno vinto perché sono stati meglio di te e questa è una disamina spietata ma sincera, e la sincerità si apprezza.

Dai milanisti vorrei sapere se sono contenti, per esempio, di averci tenuto lontani dalla loro area per i primi 7 minuti della semifinale d’andata di Champions (solo per miracolo finita solo 0-2 per noi, potevamo fargliene 4 dal 7′ in poi del solo primo tempo rimediando alla presunta bambola dei 7′ iniziali). O se sono contenti di avere dominato in lungo in largo ieri i primi 4 minuti, deconcentrandosi un ciccinino nei successivi 86′, certo, può capitare. Sono contenti, così come sottolinea il mister, di avere fatto il 60% del possesso palla, una statistica ingiustamente non premiata con dei gol-bonus, e di averne ingiustamente presi 5 nei rari momenti di non possesso? Sono contenti di sentire dire al loro allenatore che l’Inter ha vinto il derby perché é stata più furba? Vinci una partita 5-1 per furbizia? Cosa è successo, che Mkhitaryan prima di segnare ha indicato il primo rosso a Maignan e gli ha detto “ehi, hai visto che c’è Margot Robbie?” o che Frattesi ha rotto una fialetta puzzolente sulla trequarti e nello sconcerto generale si è infilato in spaccata?

Il percorso logico di Pioli, parlando di dinamiche sportive (tipo la pratica del fair play) (sì, lo so, sono un sognatore), è devastante. Perché non solo non sottolinea nemmeno così, en passant, i meriti di un avversario che ti ha appena sconfitto 5-1. Ma anche perché nemmeno si sofferma abbastanza sui demeriti della sua squadra che ha preso 5 pere, demeriti che sono anche suoi, o forse soprattutto i suoi. Massì, diciamo che nei primi 4 minuti eravamo in campo solo noi (nei successivi 86′, che scorrettezza!, che cafonaggine!, hanno giocato anche gli altri). Massì, diciamo che gli altri sono stati più furbi (più furbi, santiddio, te ne hanno fatti 5 e la butti in vacca così). D’altronde poi ammette che, a proposito di furbate, “ci hanno aspettato e un pochettino me lo aspettavo”: beh, Pioli, se te lo aspettavi e ti sei fatto mangiare vivo in ripartenza un tot di volte, allora qualche problema lo hai e, come diceva il Sommo, la risposta è dentro di te epperò è sbagliata.

Quando ti hanno chiesto se avreste dovuto chiedere scusa ai tifosi per la partita, hai detto no – “cosa credete, che ci abbia fatto piacere perdere 5-1?” – e un po’ ti do ragione. Diciamo che la domanda andrebbe un pochino perfezionata: io, per esempio, ti chiederei se non senti mai l’esigenza di scusarti con i tuoi tifosi per le cose che dichiari a fine partita, tipo quando giochi con l’Inter e – perseverare è diabolico – non ammetti la sconfitta cinque volte su cinque.

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Gimme five

D’accordo, nei primi tre-quattro minuti facciamo cagare, subiamo l’iniziativa altrui, non ci facciamo vedere nell’area avversaria. Non voglio drammatizzare, ma non è un bel vedere. Sono quei tre-quattro che determinano l’imprinting del tifosotto medio, che sta ancora stappando la sua Peroni ghiacciata mentre assiste a questo monologo rossonero e dice tra sè e sè: “Minchia oh, a saperlo mi giocavo un centone alla Snai su possesso palla primi 5 minuti Under”. Ecco, cioè, io non voglio insegnare niente a nessuno, tantomeno a Simone Inzaghi, ma su questo bisognerà un pochino lavorarci. L’abulia dei primi tre-quattro minuti un giorno potrebbe costarci cara. Metti che incocci in una squadra che nei primi tre-quattro minuti dà tutto – e non, come ha fatto spocchiosamente il Milan, ci risparmia – e succede il patatrac. Meglio non giocare troppo con il destino.

No, perchè negli 86 minuti (più recupero) successivi, indubbiamente, va meglio. Anzi, diciamolo: come giochiamo fottutamente bene nei restanti 86 minuti (più recupero)?

Un 5-1 in un derby è talmente bello da diventare un po’ malinconico. Perché alla fine, dopo avere rivisto gli highlights allo sfinimento, ti chiedi: vedrò mai più un simile bendiddio?

Oddio, diciamo che i derby stanno diventando una specie di pacchia, la comfort zone che non ti saresti mai aspettato. Ne abbiamo vinti 13 degli ultimi 22, e già questa sarebbe una statistica significativa. Ma in questo magico 2023 il bilancio è di 5 a zero, 5 derby giocati in tre competizioni diverse e vinti tutti, uno meglio dell’altro e forse quest’ultimo meglio di tutti, perchè gliene hai messi cinque e tutti belli, bellissimi, con momenti di futbol bailado.

Dopo sole quattro giornate di campionato tocca ripetersi, ma lo si fa volentieri. C’è una grande voglia dietro i gol dell’Inter, quasi tutti frutto di ripartenze fulminee o di palle riconquistate, di azioni insistite, di occasioni colte perchè fortemente volute. Non c’è quasi mai il ruolo del caso. C’è solo voglia. E – fatto ancora più esaltante – una voglia non solo individuale, ma corale. I gol sono belli, ma le azioni che li precedono – passaggi, tagli, sovrapposizioni – e li determinano lo sono anche di più. L’Inter ragiona, vive e si esprime da squadra.

I partitoni clamorosi (gol e assist) di Mkhitaryan e Thuram, il contorno di tutto il resto (con la ciliegina di Frattesi che partecipa alla festa da protagonista), gli abbracci, i sorrisi (anche di chi è uscito con il broncio, ma gli è durato poco), la rete del Milan che si gonfia cinque volte (e in un anno il totale fa 12-1): meraviglioso.

Ed eccola, la malinconia, come dopo un tramonto spettacolare, un arcobaleno, una finale di Champions persa dalla Juve: eh, appunto, ne vedrò ancora? Sarà tutto ancora così bello? Boh, adesso non vorrei spendere troppe energie mentali e spirituali, considerando che potrebbe darsi che da tutta questa ammuina di gol, punti e sentimenti potrebbe uscire qualche spunto per il podcast. Forza Inter, i miei omaggi alla capolista solitaria.

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Podcast

Sto per fare una cosa superiore alle mie possibilità, frutto più che altro di un gigantesco equivoco. E’ giusto che ve ne renda partecipi, anche perchè potrete (dovrete) (potreste, dovreste) fare la vostra parte. Segnatevi questo numero: 351 351 2355. Non avete capito niente? Tranquilli, nemmeno io.

Provo allora a ricapitolare. Dunque, un mio amico (uno che non se la tira, ma è un creativo della comunicazione che Marshal McLuhan al confronto è Gigi Marzullo) un giorno mi scrive: basta cazzeggiare, ho un progetto che ti riguarda (uhm, quelle frasette che hanno sempre un che di sinistro, un sottinteso sospetto, gli spagnoli la chiamano enculada). E io gli rispondo: vabbe’, vieni a prendere un caffè a casa mia, devo smaltire quelle due-trecento capsule di Istanbul.

Ascolta “#2 – Empoli, meme, eros, io vorrei non vorrei ma se vuoi” su Spreaker.

Il mio amico si presenta con la sua cagnolina. Anch’io ho una cagnolina. La sua è una Jack Russell. La mia una buldogghina francese. Praticamente alte uguali, ma viste una a fianco all’altra sembrano una marciatrice messicana e una lanciatrice del disco bulgara. Mentre le due giocano (più che altro gioca la sua: la mia si prende lunghe pause sociopatiche sotto il divano, evitando ogni tipo di confronto), noi conversiamo amabilmente per circa due ore. La prima ora e 50 minuti circa la dedichiamo alle varie ed eventuali: vacanze, caro vita, Inter, prospettive a breve termine dell’Inter, prospettive a lungo termine dell’Inter, ricordi legati all’Inter, amore per l’Inter, la galassia Inter, riflessi dell’andamento dell’Inter sull’umore e la vita quotidiana, Cuadrado). Quando parte il countdown degli ultimi dieci minuti, il mio amico arriva finalmente al dunque:

“Secondo me, potremmo fare un podcast”.

Mentre lo dice, il suo cane abbaia al mio (“Esci da sotto il divano, dai! L’avessi saputo me ne stavo a casa!”) e io nel casino capisco Donbass.

“Scusa?”

“Un podcast”.

“Ah, un podcast”.

“Il podcast dell’interismo moderno”.

“Ah! Cioè. tipo…”

“Sì, Settore, interismo moderno eccetera. Formato podcast”.

“Podcast!”, faccio io, che non riesco a mettere insieme più di un concetto per volta.

“Podcast, bravo. Quanti ne ascolti tu?”.

In quel momento, al bivio tra iniziare una pietosa supercazzola e dirgli la verità, anche in meno della nostra amicizia scelgo la seconda strada, “ehm, zero”, proprio nel momento in cui il suo cane abbaia di nuovo al mio (“E allora? E’ così che tratti gli ospiti? Sei più noiosa di un ottavo di finale di un torneo femminile 250”), e da come il mio amico sorride mi accorgerò più tardi che, nel bel mezzo del bau!bau!bau!, avrà capito “ehm, cento”.

“Wow! Bene!”, e parte improvvisando un piano editoriale che pare di sentire Linus alla convention di Audiradio. Lo lascio parlare finchè mi fa “Eh? Che ne dici?” proprio mentre entrambi ci chiniamo a dividere le nostre due cagnoline che si azzuffano e nella confusione io ne approfitto per rispondere con una disarmante sincerità che vorrei tanto non lo offendesse, “Beh, mi sembra proprio una cagata”, al che lui urla “Evvai!” e mi abbraccia come se avesse segnato Sommer di testa su calcio d’angolo. E lì capisco che nel casino, con entrambe le cagnoline che abbaiavano, con la SUA che mordeva il MIO divano, lui deve aver capito “figata”.

Resto nel dubbio fino a quando lui se ne va, troppo rilassato per essere uno a cui avevo appena detto che i podcast non so neanche cosa siano e che la sua idea è una vera cagata. Poi diventa tutto chiaro: nella mezz’ora successiva, mi inonda di whatsapp con tutorial e cazzi vari e con il link per l’acquisto su Amazon di un lussuoso microfono che non ce l’hanno manco quelli di Radio3 per il pippone delle sei-sette ore di rassegna stampa del mattino.

Vabbe’, ormai non posso più dirgli di no, quindi un giorno di questi – molto presto, pare – partiremo. In una successiva videocall (strumento utile per dirsi delle cose senza che i cani si azzuffino) (e, ho scoperto, anche per registrare un podcast senza rompere i coglioni a nessuno) io mi sono permesso di buttargli lì: ‘scolta, però non facciamo una roba noiosa e fatta alla cazzo di cane. Al che lui mi ha detto: ma certo che no, per chi mi hai preso, per il professor Barbero? Quindi, abbiamo pensato di non farla proprio da soli, ‘sta cosa. Mandando un vocale (sì, un vocale: è un podcast, no?) su Whatsapp al 351 351 2355 potete sottoporci le vostre domande/sollecitazioni/provocazioni/disquisizioni sull’Inter e noi in qualche modo risponderemo. Attendiamo i vostri contributi, siate vivaci e propositivi. Le porte sono aperte a chiunque, persino (rumore di tuoni) a uno juventino, volendo esagerare.

Tipo, chessò, lasciamo giocare il derby, così abbiamo un bell’argomento da cui partire. E cominciamo. Il mio amico dice che è una figata. Boh, vediamo. Tra l’altro è già arrivato il microfono, per il quale ho acceso un agile finanziamento in 36 mesi ipotecando la macchina del Nespresso. Bellissimo, sembro Donald Fagen sulla copertina di The Nightfly mentre canta “C’è solo l’Inter”. Non potremmo cristallizzare questo momento e fermarci qui? Non essendoci cagnoline che abbaiavano, il mio amico mi ha guardato e ha detto no.

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Lauthuram

Diciamo che un 12 a 0 sarebbe stato un risultato più giusto, ma possiamo accontentarci. E mentre aggiungiamo la Fiorentina alla lista delle squadre di cui più avanti valuteremo il valore (retrocederà direttamente come Monza e Cagliari?) nel frattempo costringiamo l’Italia, il mondo e l’universo conosciuto a salutarci in quanto capolista, a punteggio pieno, a zero gol subiti e col capocannoniere in carichissima.

A sole 35 giornate dalla fine, a soli due giorni dalla fine del calciomercato e nella prospettiva della solita inutile e intempestiva pausa per le nazionali di inizio settembre – no, dico: esiste calcisticamente una roba più fastidiosa? – ogni considerazione è quantomai prematura, probabilmente inesatta, sicuramente edulcorata dalla nostra visione celestiale di tutto questo bendiddio. Allora parliamo di quello che è successo in campo, che almeno è oggettivo. Cioè, l’hanno visto anche i non interisti. Gentaglia, ok, ma l’hanno vista anche loro.

L’azione del primo gol è stata bellissima. Ci sono stati tipo quindi-venti secondi di wrestling sulla tre quarti, in cui l’Inter e la Fiorentina conquistavano palla e la riperdevano. Ma mentre la Fiorentina riconquistava palla casualmente e la riperdeva casualmente, un po’ da spettatrice di tutta ‘sta guapparia, notavo che l’Inter la perdeva per delle cazzate concettuali ma la riconquistava ferocemente, cioè facendosi perdonare subito le cazzate precedenti. In quei quindici-venti secondi – che io ancora non immaginavo sarebbero culminati con il gol – l’Inter mi è molto piaciuta. Mi stava piacendo la voglia di rimediare all’errore, di fermare subito l’avversario rimesso colpevolmente in gioco. Poi vabbe’, Dimarco invece di riperderla per la sesta volta l’ha messa bene in mezzo e Thuram ha fatto un gran gol, sbloccandosi in una partita che l’avrebbe visto comunque protagonista per tecnica, generosità, cazzimma, spirito di sacrificio. Gol, assist, rigore procurato, due quasi-gol. Buono.

L’azione del secondo gol è stata bellissima, una roba fulminea, da sballo, quei contropiedi che tu, docente a contratto, vorresti mostrare al Master del contropiede fermando le immagini, usando il puntatore laser, fissando parametri tecnici e atletici, cronometrando l’azione e sottolineando l’armonia dei passaggi – sembrava la staffetta 4×100, pum, pum, pum – e spiegando agli allievi la bellezza di quanto stanno vedendo, ve ne rendete conto no?, e se non ve ne renderete conto vi meritare il campionato arabo, tzè.

L’azione del terzo gol è stata bellissima, perchè sembrava palla persa e invece ti prendi un rigore, e anche lì ci vuole voglia, voglia di buttarsi nella mischia, voglia di provarci, e la voglia è la parola chiave di questa Inter.

L’azione del quarto gol è stata bellissima, perchè il calciatore più odiato ha messo in mezzo una palla sopraffina e il calciatore più amato l’ha messa dentro da dio, accidenti a lui, e l’amore è la seconda parola chiave di questa Inter.

Ecco, forse il derby – che è anche lo scontro al vertice – casca a fagiuolo per dare una dimensione un po’ più reale a questa Inter e a questa nostra luna di miele collettiva con la squadra che si sarà anche rinnovata molto e forse indebolita un po’, ma viaggia che è un piacere. Peccato, però, che il derby sarà tra due settimane. Se incontro quello che fa il calendario mondiale del calcio, gliene dico un paio. Cioè, non ci fossero stati i mondiali di basket e gli Us Open mi sarei incatenato al portone della Figc protestando per questo spettacolo messo in pausa non solo sul più bello, ma terribilmente presto. Nemmeno a Rete4 interrompono un filmissimo così alla cazzo.

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Virtual

E’ arrivato il giorno che tanto attendevo, il 2 settembre. Calciomercato finito. Esco all’alba, occhiali da sole e impermeabile col bavero alzato. Mi compro la Gazza e la stendo sul tavolo. Leggo cose che non sapevo, leggo nomi che mi erano sfuggiti. Mi do dei pizzicotti. Sono sveglio. Ci sono cose che non tornano. Come siamo ridotti (come categoria, intendo) (anzi, come categorie, plurale: tifosi, tifosotti, addetti ai lavori, giornalisti, esseri umani). C’è pure la pausa per la nazionale, è terribile. Toccherà vedere Monza, basket, volley, Us Open e 4 Ristoranti per scavallare questo periodo critico.

  1. Il calciomercato in Arabia dura ancora fino a giovedì 7. Scusate, ma che cazzo è ‘sta roba? Una delle due variabili impazzite dello scenario del calcio mondiale (disponibilità illimitata, cifre non contendibili: l’altra è la Premier, che in più ha la Storia) è ancora libera di operare per altri cinque giorni? E’ ancora libera di offrire somme mostruose a chiunque? E’ regolare questa cosa? E’ giusta, è equa, è priva di pericoli? Diamo l’opportunità a questi – che tengono per le palle il calcio globale e che hano già creato un universo parallelo che potremmo non toglierci mai più dai coglioni – di condizionare il mercato come se non lo stessero già facendo da mesi? Gli diamo pure il bonus-giorni? Ah, bene.
  2. Interessante il pagellone-mercato della Gazza. 17 sufficienze e 3 insufficienze (5,5, peraltro, quel voto che poi agli scrutini ti sistemerebbero in qualche modo) alle 20 squadre di Serie A. Quindi, tutto bene? Hanno fatto tutte un sufficiente/buono/ottimo mercato? No, perchè mi pareva che fossero usciti dall’Italia molti profili alti o medio/alti e sia entrata in cambio una pletora di semisconosciuti, qualche scommessa e poca roba buona. In 17 hanno fatto davvero un mercato dal 6 in su? In 17 sono come o addirittura meglio dello scorso anno? Boh. Ne riparliamo tra un po’.
  3. A quattro squadre è stato dato un 8: Inter, Milan, Roma, Torino. Vabbe’, il voto al Torino è una roba patetica: alla Gazza e al Corriere dovrebbero contenere il culto della personalità, o gestirlo con un po’ più di eleganza (per descrivere l’upgrade del Torino citano Bellanova e Lazaro, manco fossero Alexander-Arnold e Robertson). L’8 alla Roma, dopo lo sfacelo di ieri sera, sembra un pochino eccessivo, ma diamo tempo al tempo, magari poi ci stupiscono e io farò un post di scuse al pagellonista della Gazza, giuro.
  4. Alla Juve hanno dato 6. Spiegazione: hanno preso solo Weah e hanno tenuto Rabiot. Poi? Faccio mente locale: hanno cercato di mandare via chiunque, hanno fatto trattative fake volatilizzandosi al momento clou. Stop, non ricordo altro. “Ora Allegri ha a disposizione una rosa ringiovanita”. E beh: la sofisticata strategia si chiama “sfoltimento da pezze al culo, prima i vecchi con stipendi mostruosi poi tutti gli altri, raus!”. Forse sul 6 ha influito il fatto di non avere venduto la sede e la convincente vittoria 8-0 sulla Juve B in amichevole.
  5. Se il riferimento sono il 6 alla Juve e l’8 al Torino, all’Inter dovevano dare almeno 12 e al Milan, temo, 15. Questo fatto di dovere parametrare tutto al Torino ha un pochino condizionato il pagellone. Con un più realistico 6 al Torino (Bellanova-Lazaro bum-bum-bum!) a prendere la sufficienza sarebbero state quattro o cinque squadre. E per due paginoni che certificavano l’impoverimento del calcio italiano – cessioni per finanziarsi, festival del parametro zero, acquisti di gente mai sentita da squadre mai viste – oggi non ci sarebbero state code alle edicole, mentre la propensione al suicidio nel maschio italiano medio (oltre che la propensione alla disdetta di Dazn) si sarebbe pericolosamente alzata.
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Sereno è

Primi a punteggio pieno, zero gol subiti (siamo gli unici), due reti a partita, Lautaro capocannoniere: se oggettivamente è un po’ prestino per gonfiare il petto, è anche giusto che ci salutino in quanto capolista. Sapremo solo tra un po’ il peso esatto di questi sei punti, quando cioè il campionato darà un valore al Monza e al Cagliari. Per adesso va bene così, visto che Juve, Roma, Atalanta e Lazio (per rimanere ai competitor abituali) sono partite peggio di noi. E poi negli ultimi tre campionati è stata la terza giornata il nostro (primo) buco nero, e quindi alleniamoci subito a guardare avanti.

Però, sempre rimanendo ai dati oggettivi, bisogna dire che il primo tempo di Cagliari è stato un gran bel vedere. Se in Inter-Monza avevo apprezzato la calma, in Cagliari-Inter (primo tempo, ribadisco, perchè il secondo è stato di pura gestione finchè il Cagliari l’ha messa un po’ sul calcio fiorentino) è emerso il gusto di giocare a calcio. Di divertirsi, di essere e sentirsi belli. Un po’ come in quel magico primo autunno inzaghiano, dove tutto sembrava essersi riallineato – vinciamo, giochiamo da dio: wow! – prima di gettare tutto nel cesso a primavera.

Ma vabbe’, questa è storia vecchia. La nuova Inter per ora avanza placida in un bel clima, interno ed esterno, e procede verso banchi di prova un po’ più severi. E verso due date imminenti in cui non si giocherà ma avverranno cose che ci daranno la nostra dimensione definitiva: il 31 agosto, sorteggio dei gironi di Champions (ovvero: poi si fa davvero sul serio), e 1 settembre, fine del calciomercato (ovvero: basta seghe, saremo quelli che saremo).

Eh, come saremo? Dopo settimane di tutto e il contrario di tutto – affaroni, affarini, tradimenti, psicodrammi, provocazioni, umiliazioni, abusi della credulità popolare, truffe, abigeato – mi accorgo della cazzata che ho fatto: scongelarmi con eccessivo anticipo rispetto alla data che avevo impostato del freezer (2 settembre). Mi toccherà assistere alle ultime frenetiche non-trattative da qui fino a venerdì sera, quando mi ritroverò a comportarmi come l’italiano medio, cioè a premere a raffica F5 sulla homepage della Gazza. Povero me.

Intanto mi godo questa Inter e questa serenità diffusa. Nei riguardi di Thuram, per esempio, sta accadendo una cosa singolare: la nostra seconda punta non ha fatto un tiro in due partite, ma piace a tutti. Forse c’è una luce in fondo al tunnel dei nostri cervellini anchilosati da tifosotti.

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Tucu tucu tucu (l’ho inventato io)

Nei suo primi venti minuti di Inter, due annetti fa, Correa aveva fatto due gol (di cui uno di testa, non esattamente la sua specialità) e aveva fatto questa faccia qui – incredibile, manco sembra lui – durante un’esultanza stupita e rabbiosa. Sul punteggio di 1-1, Verona -Inter, prima giornata del campionato 2021-2022, al 74′ Inzaghi l’aveva buttato dentro al posto di Lautaro e lui ne aveva messi due (84′ e 94′) facendoci vincere una partita che aveva avuto momenti faticosi e inducendo anche il più prudente degli interisti a procedere mentalmente per link: Inzaghi debutta sulla panchina dell’Inter (link!) mettendo a un certo punto il giocatore che si è portato dalla Lazio (link!) e lui ne segna due (link! link! link!) (ok, sembro Hector Salamanca, lo so, din! din! din!).

Le nostre povere menti di tifosotti dell’Inter vanno assolte: quando si verifica un filotto del genere – doppietta al debutto giocando solo gli ultimi 20 minuti, una robetta che ti rimanda dritto al Chino – il minimo che ti possa accadere è fantasticarci sopra per un po’ (minchia! Correa! scudetto! Pallone d’Oro! Telegatto! Nobel per la Pace!), a partire dall’immediato dopopartita e per un numero indeterminato di giorni o settimane (minchia! Correa! eccetera). Durante questa luna di miele concettuale, anche il più anodino dei nerazzurri avrà pensato di aver trovato inaspettatamente l’Uomo della Provvidenza, il corrispondente di un sesto uomo che nel basket entra, segna, morde e ti spacca la partita.

In quei venti minuti – questo, purtroppo, non lo potevamo sapere – Correa aveva invece già dato praticamente tutto il meglio di quelle che sarebbero state le sue due stagioni con l’Inter: un quinto dei gol (ne farà in tutto 10 in 77 partite, poche da titolare) e il condensato di quello che avrebbe potuto significare in termini di decisività (ammesso che questo sostantivo esista) (comunque ci siamo capiti). Nelle successive 76 partite (la gran parte spezzoni) ci godremo giusto qualche lampo di classe. Il resto del tempo lo passeremo sostanzialmente a maledire il giorno in cui l’abbiamo preso (vorrei apprezzaste l’eleganza del giro di parole).

Ecco qua un altro hater di Correa, potrebbe dire qualcuno. No, precisiamo. A parte il fatto che non odio nessuno, tantomeno un giocatore dell’Inter, il problema mio con Correa era che non lo potevo vedere. Ecco, non un hater, ma un nonlopossovederer.

A questo livello di nonlopossovederer ero arrivato con pochi giocatori. E’ un sentimento sgradevole che è strettamente legato al rendimento del giocatore in questione parametrato al livello di aspettativa. In tempi recenti, mi era capitato con Joao Mario, per fare un esempio. Un giocatore che ci costa un botto, ha indubbie potenzialità, le esibisce a spot e dimostra un latente disinteresse per la causa, ecco, a un certo punto non lo posso più vedere. Non da subito, perchè tutti devono avere tempo e occasioni per dimostarsi diversi da quello che sembrano. Ma dopo un po’ – quando il caso diventa disperato, per lui e per me – sì.

La cosa che mi ha fatto più incazzare di Correa, in questi due anni, è stata la faccia. Perché, è ovvio, non è che possiamo pretendere da un attaccante che segni due gol a partita. Ma che almeno sfoderi ogni tanto la faccia di tigre, digrigni i denti, si carichi col traning autogeno, mandi affanculo un difensore, tiri giù qualche santo, aizzi il pubblico. Il body language è importante. In quel Verona-Inter, oltre a fare due gol e a farci vincere la partita, Correa mostrò anche una faccia da attaccante cazzuto, per quanto sia possibile a un tipo belloccio e con i lineamenti delicati come lui – sì, insomma, non è Medel. Però, se vi andate a rivedere gli highlights su YouTube, vedrete che faccia cazzuta aveva Correa prima e dopo i gol. Cioè, aveva segnato un gol di testa andando a contendere la palla in un duello aereo con il difensore del Verona. Come vedere Roberto Bolle vincere una gara di schiaffoni alla Festa dell’Unità di Torpignattara.

Dove sia finita quella faccia lì, boh, è un mistero. A Correa va riconosciuta l’attenuante di una sfortuna nera, per quegli infortuni – grottesco quello con l’Empoli, quando si è stirato perchè uno gli è salito in groppa – che lo hanno sempre frenato ogni volta che cercava continuità. In questo, è stato un piccolo Sensi. Di sfiga ne ha avuta. Poi, per scarsa personalità (sei il pupillo del mister, cosa vuoi mai di più?), si è perso ed è finito nel classico loop dei giocatori bravi ma con poche palle. Quando la telecamera lo inquadrava, anzi, quando la telecamera inquadrava la sua faccia – in campo prima di giocare, o a bordo campo pronto a subentrare – a me saliva lo sturbo da nonlopossovederer. Che poi quella faccia impanicata poteva suscitare un po’ di tenerezza, ma la compassione – siccome c’erano pur sempre di mezzo gol da fare, punti da conquistare, avversari da battere – faceva subito spazio a sentimenti meno romantici.

Escludendo Verona-Inter e i suoi primi incredibili 20 minuti, quante gioie ci ha dato, quanti problemi ci ha risolto? Lascio a ognuno nel suo intimo la risposta. La preoccupazione generale – a volte un timor panico – riguardo all’eventualità di iniziare ancora con lui la stagione (voglio ricordare che una quindicina di giorni fa era di fatto la terza punta) dice molto di noi, di Correa e di noi con Correa. Peccato che una storia iniziata così bene sia naufragata in un mare di irrimediabile mediocrità. Certo, si perde un grande interprete dell’asado. Ma via lui resta solo un argentino, Lautaro. E con 10 italiani in rosa sarà anche l’ora di cambiare: basta grigliate, ad Appiano inizia l’era del pecorino con le fave. E il post Correa è fatto di attaccanti vecchi ma con la faccia sporca: a scadenza come lo yogurt, ma stronzi come piace a noi.

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Aria nuova

Nella provvisorietà di un mercato ancora aperto (aperto stabilmente, come l’home banking di ‘sti arabi sempre pronti a fare mostruosi click verso chiunque) e dei bermuda indossati da nove decimi degli spettatori maschi (lo stadio d’estate non sembra una cosa seria, un tempo ormai lontano il 19 agosto si giocava al massimo la Coppa Italia con la Sambenedettese), iniziare con una vittoria e, più ancora, con una simpatica operazione-sorriso non è male per tornare al nostro normale mode, cioè occuparci della squadra per cui spasimiamo fin da quando eravamo bambini (tipo Lukaku con 17 squadre diverse) (era un bambino molto appassionato, come lo siamo stati noi, anche se meno ecumenici).

Il sorriso non dipende solo dal fatto di avere vinto (beh, oddio, fosse finita 0-1 come qualche mese fa ci sarebbero stati suicidi collettivi che le sette giapponesi manco si sognano), ma dal come. E cioè giocando una partita senza ansie, positiva, mai fuori controllo, alla ricerca di un gol che prima o poi sarebbe arrivato. Partite che capitano spesso, ma non sempre.

In attesa di vedere davvero all’opera i nuovi (intendo quelli subentrati), i vecchi non sono affatto dispiaciuti. Bellissimo che Lautaro abbia iniziato così, da condottiero. Ma anche, per esempio, che i due olandesi abbiano mostrato una voglia e una forma mentale che l’anno scorso andava un po’ a sbalzi (specialmente in un De Vrij che sembrava imbolsito), e in generale che tutti sia andati al di là dell’ostacolo che poteva essere quello di non far sentire la mancanza di nessuno (tipo Brozo), una robetta da ansia da prestazione che però, appunto, non s’è vista.

Per Sommer si attendono serate un po’ più significative (ieri avrei fatto clean sheet anch’io, credo) e forse anche per Thuram, cui di certo non mancano nè fisico nè qualità. Sulla sua propensione al gol, boh, non si sa, non è chiaro. Ma proprio questo è un tema molto centrale per la nuova Inter, perchè se Inzaghi dice che i problemi della rosa sono altri e che il reparto punte va bene così – e cioè, Lautaro a parte: con uno che non garantisce reti a palate, con uno di 34 anni (che ne compirà 35 prima che finisca il campionato) e con uno che si chiama Correa – allora vuol dire che l’obiettivo di fare dei gol non sarà tutto a carico loro. E questa potrebbe essere un’evoluzione interessante (un Sensi che si regga in piedi, per esempio, potrebbe essere l’arma in più).

A proposito di quello di 34 anni: beh, ottimo approccio. Io penso che abbiamo bisogno di gente così, che abbia voglia. Che ci piaccia a no, abbiamo già girato pagina. Ci sarà qualcuno che, occasionalmente, ci mancherà. Ma l’aria nuova è più importante. E di teste che ciondolano sul collo e di palloni che rimbalzano su stinchi enormi, diciamolo, eravamo anche un po’ stufi. Adesso non resta che resistere ancora 11 giorni. Qui al Nord ci sono 40 gradi e il 120% di umidità. Gli arabi vogliono Çalhanoğlu. 11 giorni passano in fretta*.

* non è vero, ma bisogna crederci.

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Coming soon

Nel sito dell’Inter, il cassetto “Squadre” è vuoto. C’è solo un avviso – “Presto online tutti i team della stagione 2023/2024” – che un po’ ti attizza (presto? Presto??? Davvero? Wow!), un po’ ti rincuora (presto o tardi non importa, ma anche quest’anno troveremo on-line la rosa della squadra, la nostra squadra) (sospiro) e un po’ ti inquieta: presto quando? No, perchè è il 4 agosto e se non erro (controllo) (no, non erro) il 19 parte il campionato e non abbiamo niente da metterci.

(ok, ora sto esagerando, d’altronde tutti noi tifosotti abbiamo un sottofondo uterino. Non è che non abbiamo proprio niente da metterci. Ecco, diciamo che l’outfit è un po’ incompleto. Abbiamo i pantaloni ma non le mutande, un calzino sì e uno no, alla giacca – che era da imbastire – manca una manica. Ok, possiamo sempre dire che è la moda, “quest’anno va la monomanica, non lo sapevi? Tzè, boomer”. Ma dopo un po’ se ne accorgerebbero tutti)

E poi: le rose saranno on line il 19 agosto o il 2 settembre? Inizieremo il campionato un po’ provvisori ma abbastanza completi (tipo, chessò, con un portiere professionista), oppure per la vera Inter dovremo attendere la terza giornata, a mercato concluso? Vabbe’, io mi accontenterei di fare clic su “squadre” dopo pranzo il 19 e, mentre mi sorseggio un Istanbul (ne avevo comprate sei o sette stecche, maledette scaramanzie di merda), vedere apparire l’Inter 2023-24. Magari non definitiva ma già definita. La giacca con due maniche. Calzini spaiati? Calmi, è la moda (forse).

Il tempo che stringe ci riporta alle ansie normali. Peccato, perché sarebbe stato bello continuare con le questioni etico-morali che hanno finora colorato il mercato. Il tradimento (ordinario, squallido) di Skriniar, poi quello (clamoroso, imperdonabile, psicopatologico) di Lukaku. Il breve commiato a Brozo, nemmeno il tempo di organizzare una bicchierata. Il non-rinnovo a gente come Handa e D’Ambrosio, consunti ma fedeli. La dolorosa rinuncia a Onana sul solito altare del vorrei ma non posso. L’ingaggio di Cuadrado, uno dei tre-quattro giocatori più odiati nell’universo conosciuto. Un mercato romanzesco. E mica solo il nostro, con tutto questo fuggi-fuggi verso l’Arabia e con Mbappè che si sta modellando addosso l’affare del millennio.

In tutto questo, tra calzini fallati e giacche smanicate, io continuo a essere pervaso da un innaturale ma inequivocabile senso di curiosità. Come se fossi intimamente sicuro di un lieto fine che, nella realtà, non è per nulla assicurato. Comunque vada, sarà un’Inter molto rinnovata. E se anche fosse un’Inter imperfetta, sarei curioso di vedere come intenderà cavarsela nel gestire le imperfezioni. Anche se oggi, 4 agosto, a 15 giorni dall’inizio del campionato, ci mancano due portieri e Correa è la terza punta: in bilico sul precipizio sono qui che fischietto, e un po’ mi piace. Del resto, con Lukaku che vuole andare alla Juve e Cuadrado che solca la fascia destra con la nostra maglia, non mi vorrete mica dire che il calcio è una cosa così seria?

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Portiere (non avere manco un)

A soli tre giorni dalla prima amichevole ufficiale, e a soli 27 dalla prima partita di campionato, l’Inter non ha i portieri. Ora, la cosa fa abbastanza ridere. Non so, tipo che uno invita gli amici all’inaugurazione della sua nuova casa: “Oh, complimenti, ma che figata questo enorme terrazzo con i muri attorno”, “Ehm, questo è il soggiorno”, “Cioè, scusa, non hai il tetto?” “Ehm, no”.

“Ehm, no” è la risposta che immagino riceverei, chessò, da Marotta se lo incontrassi in giro per Pavia. “Scusa Beppe, ma non abbiamo ancora preso i portieri?” “Ehm, no”. “E poi, scusa, cosa ci fai qui a Pavia? Non vai in Giappone?”. Vabbe’, ma questi non sono cazzi miei. Dei cazzi miei, intendo dire nostri, di tifosotti medi, fa invece parte il monitoraggio della situazione della squadra per cui stoltamente trepidiamo. E la situazione farebbe abbastanza ridere se invece non fosse terribilmente preoccupante. Cioè, non è che ci manca un quinto centrale o un settimo centrocampista per aumentare le rotazioni. No, ci mancano due portieri su tre. E abbiamo solo il terzo, oltretutto.

E’ spaventoso: 40 giorni fa eravamo in finale di Champions e ora non abbiamo i portieri. E’ come se Spielberg prendesse l’Oscar e 40 giorni dopo non avesse manco una Super 8. So già che presto, molto presto, potrei alzarmi di scatto tutto sudato in piena notte urlando:

“Ahhhh! Attaccano! ATTACCANO! Chi va in porta?”

Ma tutti mi dicono di stare calmo, che è questione di giorni, forse di ore. Ne stiamo trattando un casino, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Boh, sarà vero? Mi sono documentato. Ecco, in breve, la situazione.

Yann Sommer. Svizzero, portiere di talento ed esperienza, 35 anni a dicembre, non costa nemmeno tanto e verrebbe volentieri all’Inter per rinverdire i fasti di Ciriaco Sforza. La storia dell’incasinata clausola con il Bayern e dei relativi problemi burocratici è una colossale palla: in realtà, Marotta aveva scritto male il suo nome su un pizzino e Ausilio ha trattato per venti giorni con Andy Summers, il chitarrista dei Police.

Anatolij Volodymyrovyč Trubin. Compie 22 anni tra pochi giorni ed è fortissimo. Lui verrebbe all’Inter facendosi a piedi il percorso tra Donetsk e Appiano Gentile. Beh, e quindi? C’è purtroppo qualche problema nelle trattative: lo Shakhtar vuole 32 milioni più bonus, l’Inter offre la nuda proprietà di Correa, un abbonamento al secondo arancio e un buono spesa all’Auchan di Cesano Boscone.

David De Gea. Sembrerebbe la soluzione più naturale. 32 anni, quasi 33, in uscita dal Manchester United per fare posto a Onana (sospiro), grande esperienza internazionale, parametro zero. Wow. Peccato per quei 127 gol subiti nelle ultime due stagioni e per i 12 milioni di stipendio netto, due difettucci che lo rendono appetibile come una stufa a pellet nel deserto del Wadi Rum.

Keylor Navas. A dicembre fa 37 anni, un ragazzino. E’ sembrato molto interessato all’offerta dell’Inter corredata da un sontuoso bouquet di benefits, tra cui l’abbonamento Extra Gold a Dazn per poter vedere le partite su 17 dispositivi diversi. Ha dato l’ok al procuratore, con un’unica postilla: “La roba di Dazn è veramente una figata, ma non la posso scalare dai 9 milioni”.

Paul Henry Goodfellows. Profilo interessante, carriera immacolata, rendimento ottimo, doti naturali, pretese basse, massima disponibilità, totale correttezza, grande simpatia. Stavano già per mandargli una mail, quando in sede si sono accorti dell’inghippo: per un banale errore, la ricerca “portiere molto buono poco costoso libero subito” Ausilio non l’aveva fatta su Google, ma su Chat Gpt.

Walter Zenga. A 63 anni, in perfetta forma, molto interista, gradito dall’ambiente, carismatico, disinvolto con i media, ambizioso al limite dell’incoscienza, praticamente un pazzo, rappresenta il profilo perfetto nonostante un’età non più verdissima. Lui in realtà l’Inter vorrebbe allenarla, ma questa soluzione potrebbe essere il primo passo per fare in un prossimo futuro l’allenatore-giocatore, il suo sogno definitivo. A suo sfavore c’è il fatto che non gioca una partita da 24 anni, ma rispetto a tutti gli altri candidati ha un vantaggio innegabile: non gli devono cercare casa a Milano.

Paolo Mengoli. Compie 73 anni ad agosto, ve bene, non è di primissimo pelo, ma porta in dote con sè una grande esperienza (440 presenze con la Nazionale cantanti, più di Morandi e Sandro Giacobbe, mica cazzi) e quelle caratteristiche canore e di intrattenimento che potrebbero farne il naturale protagonista delle grigliate nerazzurre. Non ha grandi pretese di ingaggio, ma la trattativa si è incagliata quando ha chiesto che “Ahi! Che male che mi fai!” diventi subito il nuovo inno del club.

Lamberto Boranga. A ottobre farà 81 anni, ma si è ritirato solo nel 2020 (era tesserato nella Marottese, tra l’altro: un segno del destino) dopo aver battuto tutti i record di longevità. Quando ha iniziato a giocare non solo non era nato Steven Zhang, ma nemmeno suo padre. Essendo anche medico, potrebbe ricoprire un altro ruolo in società a costo zero. E’ detentore di vari record master nell’atletica leggera, quindi le visite mediche le passerebbe più velocemente di Lukaku. E’ l’ipotesi più affascinante, anche se si temono ricorsi dall’Inps e da Amnesty. Rintracciato dai giornalisti, ha detto: “Mi avessero preso due anni fa al posto di Radu, adesso avrebbero la seconda stella. Ma meglio tardi che mai”.

Ricardo Zamora. Portiere sicuro dei propri mezzi, elegante e spettacolare negli interventi, qualità che gli valgono il soprannome El Divino, Zamora è dotato di grandi riflessi e notevole temperamento. Innovativo rispetto ai canoni del ruolo, è stato l’ideatore di un insolito tipo di parata, detta appunto La Zamorana, eseguita avvalendosi dei gomiti o degli avambracci, ed è solito estendere in proprio raggio d’azione fuori dalla propria area, essendo abile anche con i piedi. Quello che fa per noi. Unico punto a sfavore: è morto nel 1978.

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