Del Lukaku 2, vabbe’, non parliamone nemmeno. Del Lukaku 1, invece, ci restano (restavano?) dei bei ricordi. L’impatto di Big Rom sull’Inter fu straordinario, non solo in campo ma anche fuori. Tanto che non ci si capacitava delle voci che arrivavano dall’Inghilterra su questo ragazzone, come dire, non affidabilissimo. Boh, da noi sembrava affidabile eccome. In campo e anche fuori. Un punto di riferimento, una nuova icona dell’interismo. E poi, la cosa più bella, la straordinaria intesa con Lautaro, il compagno di reparto, l’amicizia, la stima, il feeling che si traduceva in gol e assist. La sua firma sullo scudetto. Sembrava tutto così sincero, così destinato a durare. Non lo era.
La serata del ritorno di Lukaku a San Siro si è conclusa con l’immagine qui sopra, due ragazzi sorridenti sotto la curva, Lautaro con il suo nuovo amico Thuram, una coppia che funziona di brutto e che tutti noi speriamo che possa durare tanto, il più possibile. E’ il presente dell’Inter, forse il futuro. Di sicuro è un calcio al passato, cioè a Lukaku. E un invito a concentrarsi sull’Inter di adesso, più bella, divertente e interessante di una serata trascorsa a fischiare un fantasma.
Questa sera nè Lukaku (novanta minuti penosi, del resto la tendenza a sparire nelle partite più complicate l’ha sempre avuta) nè Mourinho (dichiarazioni post-partita tra il provocatorio e il piagnonismo, ok le assenze ma il resto è caciara) hanno dato il meglio di sè. Pazienza. Noi sì, siamo stati più forti, anche se tutt’altro che perfetti. 19 tiri per fare un gol, e farlo solo all’81’, significa trascorrere quelle belle serate di passione (nel senso di sofferenza) interista in bilico tra l’estasi e l’incubo di una beffa che può sempre arrivare, tipo uno 0-0 che sarebbe stato profondamente ingiusto o peggio ancora uno 0-1 (sull’unico tiro subito) che ci avrebbe fatti impazzire.
Adesso, finalmente, arriva il difficile. Finalmente perché dobbiamo uscire da tutti gli equivoci se vogliamo davvero spiccare il volo. Ci aspettano sei partite in un mese, una in casa (con il Frosinone) e cinque in trasferta (Atalanta, Salisburgo, Juventus, Benfica, Napoli), nelle quali ci giochiamo la leadership in campionato e la qualificazione in Champions. Questo mini-ciclo dirà tanto sull’Inter. Rimettiamo i fischietti nel cassetto, perchè ora servono concentrazione, garra e un pochino di cinismo in più. Con i sorrisi invece siamo a buon punto. E non è per niente secondario.
Lo scintillante Milan espressione della più genuina dimensione europea non ha ancora segnato un gol in tre partite di questa Champions, cui vanno aggiunti anche gli zero dei due derby di semifinale della scorsa primavera: il totale fa cinque, record negativo di ogni tempo (resta comunque la squadra con più dimensione europea) (secondo loro). Il loro migliore attaccante ha 37 anni e non segna da otto partite di fila. Il Pallone d’Oro in pectore (sempre secondo loro) non segna da più di un mese. Se non fosse per Paolino Pulisic, questi erano alla canna del gas. E invece – qui volevo arrivare – il Milan con l’attacco in crisi è secondo in campionato un punto dietro di noi (anche se gliene abbiamo dati cinque nel derby) (intaccando non la dimensione europea, ma italiana sì).
In campionato, otto gol di differenza (noi 24, loro 16) fanno solo un punto di differenza in classifica. La cosa curiosa è che il Milan ha segnato metà dei suoi 16 gol, 8 appunto, nelle prime tre giornate, quelle che precedevano la prima pausa per la Nazionale. Ha segnato metà dei suoi gol tra il 21 agosto e l’1 settembre (2 al Bologna, 4 al Torino, due alla Roma). Questo vuol dire che ha poi segnato la miseria di 8 gol in due mesi quasi pieni, tra il 2 settembre e il 26 ottobre, praticamente uno alla settimana. Anche noi avevamo segnato 8 gol nelle prime tre di campionato, e quindi 20 (16 in campionato e 4 in Champions) tra settembre e ottobre contro i loro 8. 20 contro 8. Ok, in Champions loro ne pagano le conseguenze. Ma in campionato, cazzo? Tra settembre e ottobre, loro si sono presi 5 pere nel derby, poi ci hanno rimontato, ci hanno superato e li abbiamo superati solo qualche giorno fa dopo Milan-Juve. Tutto questo segnando la metà dei nostri gol, 8 contro 16.
Sarebbe troppo banale dire che le vittorie per 1-0 o per 4-0 (o per 5-1) valgono tutte la stessa cosa, cioè tre punti. Meno banale – per quanto certamente poco sorprendente – è sottolineare come buttare partite nel wc (Sassuolo e ancor più Bologna, due gol avanti, non mi ci fate pensare) abbia un peso letale sui destini e sugli equilibri del campionato. L’Inter ha un punto di vantaggio su una squadra in cui non segna più nessuno e due punti di vantaggio su una squadra che gioca di merda. La quasi sempre bella e divertente Inter di questo inizio di stagione sente sul collo il fiato di due squadre che hanno oggettivamente più problemi di noi. Eppure, sono lì. Vuoi per culo, vuoi per cinismo, ‘sti due cessi non riusciamo a schiodarceli da dietro. Nei momenti clou serve cattiveria. Non distraiamoci a fischiare un marcantonio che fa parte del nostro passato, who cares? Vinciamo le partite, il resto frega un tubo.
Sull’effetto dei cambi giusti (o sbagliati) su una partita di calcio potremmo scrivere un’enciclopedia e studiarne all’infinito le dinamiche senza mai arrivare alla formula o all’algoritmo giusto: noi interisti – come un po’ tutti, credo – ne abbiamo viste di tutti i colori nel bene e nel male. Quello di Torino-Inter è un piccolo caso di scuola, quasi banale: dopo un primo tempo di tiki-taka ammorbante, presi nella rete del Toro e privi di quel pizzico di inventiva/voglia in più per provare a uscirne, è apparso a tutti chiaro che solo dopo i cambi avremmo forse visto qualcosa di diverso. E non è un caso che il gol di Thuram sia arrivato 3 minuti dopo l’ingresso in campo di Dumfries e Frattesi, che nel gioco delle rotazioni erano i due pezzi migliori che avevamo in panchina per spezzare gli equilibri dalla metacampo in su.
Se oggi siamo passati da un primo tempo deprimente a un secondo tempo più brillante (e chirurgico negli obiettivi) lo dobbiamo ai cambi e alla panchina lunga. A un certo punto abbiamo messo dentro quel vice-Barella che non abbiamo mai davvero avuto nelle scorse stagioni e quel dirompente e un po’ scomposto incursore che, in una mai dissolta diffidenza generale, sta vivendo un periodo scintillante e sa essere sempre più spesso un giocatore determinante. Metti due giocatori così a giocare gli ultimi 30/40 minuti e spacchi la partita. Certo, magari non va sempre così. Ma in teoria (e oggi, come visto, nella pratica) è una mossa quasi a colpo sicuro.
Inzaghi questo giochino lo organizza con risultati alterni, ma può essere la nostra arma vincente. Abbiamo una rosa completa (a parte l’attacco): dosando le forze e tenendo tutti sotto pressione possiamo sempre avere – anche qui, a rotazione – almeno un paio di mosse a disposizione per sparigliare davvero le partite in corso d’opera. Il nostro allenatore, a differenza di molti colleghi che lo hanno preceduto, può girarsi verso la panchina e pescare sempre un jolly. Ok, certo, Guardiola e Ancelotti e Klopp sono messi un po’ meglio, eh, d’accordo. Ma noi (a parte l’attacco) (due titolari meravigliosi e due vecchie glorie come rincalzi) non ci possiamo lamentare. Non ci dobbiamo lamentare.
L’Inter di Inzaghi ha schemi inderogabili e alcuni giocatori irrinunciabili. Il turn over spinto ci manda in tilt. Ma anche spremere sempre gli stessi non è un metodo sostenibile. Il meccanismo non è facile da far funzionare. Abbiamo qualcuno che deve giocare sempre, qualcuno che vuole giocare sempre, qualcuno che giocherebbe volentieri un po’ di più. Serve una coralità anche nel centellinarsi, nell’alternarsi. No, non è facile. Ma è il terreno su cui Inzaghi può giocare la sfida forse più creativa. E decisiva, chissà.
Esaurita la premessa fondamentale – i bilanci al 9 di ottobre sono quantomeno prematuri, alla fine della stagione mancano una quarantina di partite, ecc. ecc. -, per aggiungere un mattoncino alla ricerca “Di che pasta è fatta l’Inter 2023/24?” vale la pena fare un raffronto alla stessa data con l’Inter 2022/23.
Se l’Inter quest’anno al 9 di ottobre ha perso una partita su 10 (8 di campionato e 2 di Champions, il bilancio finora è 7-2-1), l’anno scorso ne aveva perse già 5 su 12 (il calendario era più compresso per i noti motivi: 9 di campionato e 3 di Champions, bilancio 7-0-5). Diciamo che se quest’anno si cede a qualche lamentazione, l’anno scorso avremmo dovuto mettere a ferro e fuoco Milano e minacciare un suicidio collettivo dall’ultimo piano del Pirellone.
L’analisi dei calendari conduce a qualche ulteriore riflessione. Le cinque sconfitte dello scorso anno furono in ordine cronologico con Lazio, Milan, Bayern, Udinese e Roma. Come tutti ci ricordiamo, si diceva che stavamo fallendo sistematicamente gli scontri diretti (l’Udinese di quel periodo era in zona Champions). Questo al netto del fatto che tra quelle 12 partite e quelle 7 vittorie c’era anche l’1-0 col Barcellona, partita che si rivelerà decisiva per l’intera stagione (e quello era un signor scontro diretto). E che la tredicesima partita stagionale sarebbe stata l’altrettanto decisivo 3-3 al Camp Nou. Insomma, come quest’anno – e come spessissimo nella nostra storia di squadra un po’ pazza – anche l’anno scorso stavamo alternando buonissime partite ad altre pessime. Però, perdendo molto di più. E con modalità praticamente opposte.
Quest’anno di scontri diretti non ne abbiamo avuti molti, ma in campionato abbiamo dato 5 gol all’attuale capolista e 4 alla terza in classifica, in due delle nostre partite migliori. E nell’altra partita top di questo inizio di stagione, col Benfica, il risultato “vero” sarebbe stato con tre/quattro gol di scarto. Quest’anno, insomma, è lo scontro diretto a farci tirare fuori il meglio. Mentre è abbastanza chiaro che le partite più scontate ci ammorbano: Sassuolo, Bologna, Empoli (pur vinta), Salernitana (il primo tempo moscio)… andando avanti nella stagione, si è allargata la distanza tra i match di cartello e quelli no, come se nei primi fossimo tutti sul pezzo di default e nei secondi un po’ meno. Con Milan, Fiorentina e Benfica ci siamo fermati giusto perché l’arbitro come da regolamento a un certo punto ha detto stop. Con Sassuolo e Bologna – in casa, per giunta – l’abbiamo ritenuta finita in largo anticipo, ci siamo fatti rimontare, abbiamo perso la cattiveria (il secondo gol del Bologna è simbolico) e la concentrazione, abbiamo puntato tutto sull’assalto finale che una volta va bene e cinque no, specie se posteggiano un pullman di traverso (mica sempre ti stendono la passatoia mentre vai in contropiede, eh).
La bellezza di questa Inter, che sta molta (o tutta) in quella attitudine positiva che alla lunga sgretola gli avversari (3 gol nel secondo tempo alla Fiorentina, 3 gol nel secondo tempo al Milan, 4 gol nel secondo tempo alla Salernitana, 5-6 gol che potevamo tranquillamente fare al Benfica in quella meravigliosa mezz’ora di secondo tempo), è sempre in bilico sulle nostre paturnie. Che non sono mai le stesse: il turnover, i cambi, le scelte tecniche hanno avuto un certo effetto, ma anche – ohibò – l’effetto contrario. Non c’è una casistica solida, non ci siamo costruiti una certezza. Se non una – che pure è legata agli umori del momento -: se vogliamo, giochiamo meravigliosamente; se vogliamo, battiamo chiunque.
E questa, proprio questa, non è solo la speranza che nutriamo tutti, ma anche una sensazione piuttosto accentuata. Certo, un po’ bauscia lo siamo nel dna, ma non stiamo parlando di semplici episodi: parliamo della metà almeno delle partite che abbiamo visto finora, e che ci danno una misura attendibile delle potenzialità dell’Inter.
Ora, senza disfattismi, non si possono nascondere anche le potenzialità in negativo di questa squadra. Nelle ultime tre partite a San Siro abbiamo dato 5 pere al Milan e poi abbiamo fatto un punto tra Sassuolo e Bologna, il che non avrebbe una spiegazione logica. L’anno scorso al 9 ottobre eravamo messi peggio, 4 sconfitte in 9 partite di campionato, quindi non mettiamoci un turbante in testa per una bottarella da nulla. Però aver perso 5 punti su 6 con Sassuolo e Bologna ha i suoi estremi di inquietudine. Purtroppo siamo qui a guardare il Milan da dietro: dopo l’umiliazione del derby loro ne hanno vinte 4 su 4 in campionato subendo un gol. E siccome i nostri cugini hanno più culo che anima, mi piacerebbe che la minaccia fosse presa più sul serio: loro ne vincono 4 su 4 nei modi più assurdi, noi facciamo un punto in casa con Sassuolo e Bologna e li legittimiamo a pensare che quel derby da incubo è già passato in cavalleria e che noi buttiamo punti nel cesso che è una meraviglia.
(per l’angolo Podcast, vi ricordo che io e il mio socio attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Si sta facendo strada anche un argomento evergreen: chi è il vostro interista di sempre? Ma potete anche fare commenti alla sostituzioni di Inzaghi, alle azioni personali di Sanchez o alle prospettive di Bisseck. Insomma, esprimere verbalmente quel cazzeggio interiore che ci tiene impegnati fin da quando eravamo bambini)
(il podcast, giunto al settimo episodio, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Apple Podcast e tutte le principali piattaforme. Oppure, potete non ascoltarlo. Ma poi non venitevi a lamentare)
Quello in cui un tennista italiano sarebbe salito ai livelli di classifica di Adriano Panatta (cioè numero 4 del mondo) è un giorno che, come tutti gli appassionati di tennis di una certa età, ho pazientemente atteso per 47 anni. 47 anni, poi puff!, succede davvero, in diretta tv, dalla Cina, in un primo pomeriggio di un giorno feriale. 47 (quarantasette) anni.
Cosa vuol dire aspettare una cosa 47 anni? Beh, un po’ lo sappiamo: quando abbiamo vinto la Champions nel 2010 ne avevamo aspettati 45, quel paio di generazioni in cui i racconti si trasformano inevitabilmente in leggenda, “eh, la Grande Inter”, eh sì. Comunque, contestualizzo. Nella magica estate del 1976, quando Panatta vinceva uno dopo l’altro i tornei di Roma (30 maggio) e di Parigi (13 giugno) (e a dicembre avrebbe vinto anche la Coppa Davis, quella vera, non questa robaccia ridicola di oggi, un insulto al tennis e alle nostre intelligenze), io mi godevo le vacanze tra la seconda e la terza media e l’Inter era appena arrivata quarta nello storico campionato vinto dal Torino. Un’estate densa. Su Seveso stava per calare la nube tossica della diossina, Gimondi vinceva il Giro, Van Impe vinceva il Tour, Borg stava per vincere il suo primo di cinque Wimbledon consecutivi, a Montreal si aprivano le Olimpiadi boicottate da 28 paesi africani, Lauda rischiava di morire bruciato al Nurburgring, Fraizzoli vendeva Boninsegna alla Juve.
E io alternavo estenuanti partite di pallone a lezioni di tennis sui campi di terra rossa dove spargevo gesti armonici e, al solito, poca cattiveria agonistica (bello da vedere, facile da sconfiggere). Il mio modello, come quello di migliaia di tennisti in erba che prendevano lezioni sui campi di terra rossa
(Proust aveva quello delle madeleine immerse nel tè di tiglio, io ho il ricordo visivo e tattile dei calzini corti di spugna, che da bianchi diventavano rossi e ruvidi, quasi solidi)
era Adriano Panatta, una specie di semidio, bellissimo, alto, altero eppure popolano, un’abbondante spruzzata di indolenza romana su un talento cristallino e infinito, idolatrato dalle donne e dai tennisti in cerca di ispirazione, un campione vero, trasversale a tutti gli sport, quelle stelle comete che passano una volta ogni tot. Panatta, all’epoca 26enne, fu numero 4 al mondo in una stagione in cui se la doveva vedere con Borg, Connors, Vilas, Gerulaitis, Nastase, Orantes, ‘sta gente qui. Nella sua seconda stagione d’oro, il 1978, alla concorrenza si era già aggiunto McEnroe.
Jannik Sinner, 22 anni, 47 dopo Panatta si è issato al numero 4 del mondo. I primi tre – Djokovic, Alcaraz, Medvedev – sono parecchio più su nel punteggio Atp – parecchio -, ma quello che ha fatto è comunque straordinariamente significativo: è oggi il primo dei tennisti top ma non toppissimi, e comunque per vincere il torneo di Pechino ha battuto due dei tre che lo precedono, trasformando un trofeo Atp 500 (nè carne nè pesce) in un’impresa vera, molto più preziosa del Master 1000 che ha vinto qualche settimana fa. Ha battuto non solo Alcaraz, di cui è una specie di bestia nera (e con il quale fa sempre dei partitoni, comunque vada), ma anche Medvedev, con cui aveva perso 6 volte su 6, sfatando finalmente una costante negativa della sua carriera: quella di fare quasi sempre 30 e quasi mai 31, perdendo sistematicamente – a parte con Alcaraz, un simpatico mistero sportivo – con i toppissimi e, in generale, con quelli sopra di lui in classifica, andando a sbattere sempre sullo stesso muro.
In tutto questo, Sinner ha solo 22 anni, 4 in meno di quel Panatta. Oddio, Alcaraz (e anche Rune, che è al suo livello) ne ha due di meno, ma 22 sono comunque pochi. Ha un’autostrada davanti: che non percorrerà da solo, per carità, ma ora sappiamo che ha il piede pesante per farsi largo. Sinner ha molte doti tra cui anche il culo: non solo per quei tabelloni facili che spesso si trova ad affrontare (finalmente, a Pechino ha potuto dimostrare di saper vincere anche senza culo), ma perchè gli capita in sorte un momento di trapasso generazionale del tennis. Ha smesso Federer e ha praticamente smesso anche Nadal, il tuttora dominante Djokovic ne ha 36 e mezzo (cioè 14 più di Sinner e 16 più di Alcaraz) e prima o poi si arrenderà. No, intendo dire che a un Murray o a un Wawrinka è andata molto peggio, costretti a raccattare le briciole che lasciavano ogni tanto quei tre mostri nel pieno delle forze. Sinner, e Alcaraz su tutti gli altri, possono invece passare all’incasso nei prossimi 10 anni, giocandosela tra di loro in un tennis che sarà un po’ meno inaccessibile.
Vabbe’, ma veniamo al punto. Chi è più forte tra Panatta e Sinner?
E’ la solita domanda impossibile, che ti costringe a paragonare due atleti a 50 anni di distanza, con attrezzi diversi, allenamenti diversi, campi diversi, pressioni diverse eccetera eccetera. Quel tipo di domanda a cui ci si sforza di rispondere sapendo comunque di muoversi sul filo dei sentimenti, delle opinioni e anche un po’ dell’assurdo. Augurando un decennio di successi a Sinner (che mi piace, ma Musetti mi piace molto di più: solo che per lui, per certi versi così panattiano, è più difficile), e considerando alla sua portata l’impresa di entrare presto nei primi tre (e quindi di diventare il tennista italiano con la miglior classifica di tutti i tempi) mi aggrappo a quello che è stato Panatta in quel 1976: quando Sinner vincerà in sei mesi il più importante torneo italiano, uno Slam e la Coppa Davis vera, sarò il primo a fargli tutti i miei complimenti. Anche se dalle pareti della mia cameretta il poster di Adriano non lo staccherò mai.
E quindi siamo qui a parlare di una vittoria per 1-0 come fosse un 5-0 o forse anche un 50-0, ancora con gli occhi pieni dell’Inter del secondo tempo e della sua mezz’ora da paradiso del calcio, l’1-0 più stretto della storia, il duello senza senso tra Lautaro e Trubin e quello tra Lautaro e i pali, la fatica di trovare il migliore in campo in una squadra che a un certo punto imperversava così compatta che boh, siamo tutti un po’ confusi da tutto ‘sto bendiddio.
Anche perché vorresti che una partita così non finisse mai, e al contempo che finisca quanto prima, perchè quando fallisci 73 volte il gol della sicurezza si alza forte il vento della potenziale beffa, quello che all’Alfama chiamano enculadinha, che per fortuna – e giustizia divina – non si è concretizzata.
A San Sebastian era stata un’Inter in edizione dimessa, grata alla fortuna per aver portato a casa un punto che quasi non meritavamo. A Milano col Benfica meritavamo 6 punti e 12 gol e accontentiamoci di aver visto una squadra che quando vuole può farci sognare davvero. Se qualcuno in giro per l’Europa stasera ha visto il secondo tempo di Inter-Benfica, avrà notato che la squadra che quattro mesi fa ha giocato la finale di Champions non è proprio una meteora e nemmeno un club che ha solo culo.
Io lo so – tutti noi sappiamo – che chiedere la replica di ‘sta magnificenza è un po’ eccessivo, e che sperare di rivedere questa stessa Inter in altri campi e altre situazioni è un po’ aleatorio. Ma serate come questa servono a dimostrare che ci siamo, che certe partite le sappiamo fare, che la squadra ha le sue belle potenzialità. Grazie Inter, adesso mi prendo 15-20 minuti per rivedere gli highlight più densi che ci potevamo immaginare dopo un primo tempo un po’ sminchio. Ma le partite vanno così: a volte si cambia marcia e non ce n’è per nessuno.
(per l’angolo Podcast, vi ricordo che attendo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. L’Inter vi è piaciuta? L’Inter non vi è piaciuta – cioè siete pazzi -? Noi rispondiamo a tutto: on topic, off topic, total topic, ti-tic-e-ti-topic)
Vincere 4-0 in trasferta e andare a dormire molto preoccupati si può, ed è una cosa molto interista. La colpa è tutta di Lautaro.
Allora, parliamoci chiaro (gli uomini che stanno leggendo, all together, si tocchino i coglioni. Le donne non so, ma adesso non starei qui a inoltrarmi in un pippone gender): l’Inter senza Lautaro e l’Inter con Lautaro sono due Inter molto diverse, molto. Questo inizio di stagione lo dimostra in termini quasi drammatici. Ha segnato 10 dei nostri 20 gol. Se non gioca bene (Empoli, Sassuolo) facciamo una gran fatica o perdiamo. Se non incide (Real Sociedad) stiamo sotto, poi gli capita un pallone in 90 minuti (Real Sociedad) e la riprendiamo.
Veniamo a Salerno, dove facciamo un primo tempo simil-Sassuolo (10 tiri, uno nello specchio) e non usciamo dalla palude. Poi togliamo Ehi Amigo, un giocatore un po’ anemico, mettiamo il Toro al minuto 54′ (cambio anticipato di 10-15 minuti rispetto al solito: metterlo era una necessità assoluta, inderogabile, improcrastinabile) e lui ne fa quattro, stabilendo un record storico (primo giocatore subentrato a segnare 4 gol) e gettandoci nel più cupo imbarazzo: sì, insomma, senza Lautaro noi come faremmo?
(Uomini, touch your balls) Insomma, affrontiamo l’argomento: se a Lautaro viene il mal di pancia, l’influenza, il ginocchio della lavandaia, il gomito del tennista, noi come facciamo?
Mi sono beccato del mezzo piangina quando ho buttato lì la cosa alla fine di Empoli-Inter, quando il 25% del nostro reparto d’attacco è andato in frantumi al primo cambio di direzione. Considerando che l’altro 25% over 34 per adesso non è che brilli di luce propria, come gestiamo i due splendidi 26enni che costituiscono la coppia titolare, considerando che Lautaro fa metà dei nostri gol ed è la nostra star? I primi 40 giorni della stagione se ne sono andati così – bene, senz’altro – ma poi? Come la gestiamo ‘sta cosa?
Che Iddio ce lo conservi in salute, garra e interismo. La società gli assicuri muscoli, ossa e articolazioni. Gli altri tengano il suo passo e prendano meglio la mira. Siamo primi e contemporaneamente sul filo di una dipendenza pericolosa. Speriamo almeno nello spirito di emulazione. Noi vogliamo undici Lautari.
(per l’angolo Podcast, vi ricordo che attendo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa dovete dire? Quello che vi pare. Noi rispondiamo a tutto: on topic, off topic, cazz topic, total topic)
Al primo esame contemporaneamente fisico (quarta partita in 12 giorni) e psicopatologico (Sassuolo, solo 2 volte nelle ultime 9 – ora 10 – sconfitto a San Siro) l’Inter è franata piuttosto miseramente. E, al contempo, in maniera piuttosto spettacolare. Nel senso che in soli 90 minuti è riuscita a organizzare un passo indietro univoco e generale, su tutti i singoli comparti/uomini/schemi/criticità, da consentire a tutti noi di preoccuparci improvvisamente un casino. Al netto del fatto che quando arriva il Sassuolo ormai tutti cediamo a una sorta di rassegnazione che, forse, aleggia anche ad Appiano con congruo anticipo (non è un grandissimo atteggiamento, ecco).
Le statistiche ci aiutano molto a districarci in questo marasma. Il primo dato a inchiodarci è quello del possesso palla, di cui nel magico inizio di stagione ci eravamo bellamente fottuti – anzi, era tutto un “muahahahahah, tenetevela pure ‘sta palla” – e che ieri sera ci ha ben fotografati con un 63% speso soprattutto a fare quel ti-tic e ti-toc di cui ci eravamo dimenticati. Anche il dato dei cross è suggestivo: 23-9 per noi in una partita finita 1-2 per loro. Non c’è il dato dei non-tiri sui cross, ma sarebbe terribilmente elevato.
Proprio i non-tiri (oh, manco sfiorata la palla) su cross molto invitanti a cinque metri dalla porta alla fine hanno fatto la differenza: potevamo chiudere nel primo tempo e invece no, abbiamo perso meritatamente. E quei non-tiri per questione di centimetri sono la statistica-ombra più impietosa. Tutta la spensierata cattiveria che ci abbiamo sempre messo in zona gol almeno fino al derby si è già trasformata in un’altra cosa. E cioè in quella supponenza – tranqui, tifosotti, prima o poi la mettiamo, fidatevi, tzè – a cui nel recente passato ci siamo spesso abbandonati con risultati drammatici.
Ci sta che giocare 4 volte in 12 giorni (tra cui un derby e una trasferta duretta di Champions) comporti qualche ripercussione fisica. Ci sta meno che la gestione del turnover sia un pochino improvvisata (o forse siamo noi che non capiamo un cazzo, ovvio), con qualche giocatore già spremuto senza che ce ne fosse un reale bisogno, con qualcun altro centellinato e con qualcun altro ancora cui il termine turnover provoca eruzioni cutanee e sbalzi di umore. Ci sta anche che tra i più spremuti ci sia Lautaro, che non è uno che si risparmia. Ci sta meno che in attacco, parlando di turnover e di gestione delle forze, siamo già alla canna del gas.
E io che mi ero tanto speso a sottolineare come l’Inter di questo inizio di stagione comunicasse con naturalezza la sua voglia di giocare – di giocare bene -, mi trovo già in braghe di tela concettuali dopo un’Inter-Sassuolo in cui non siamo stati sufficientemente cattivi per allungare la gamba di un centimetro di più, in cui non siamo stati sufficientemente sereni per fare cinque passaggetti indietro di meno e uno avanti in più, e in cui è bastata la nostra bestiolina nera a farci perdere di brutto il controllo delle operazioni.
Peraltro, non è un mondo possibile quallo in cui le vinci tutte facendo contropiedi meravigliosi. Il mondo vero è un girone infernale in cui hai Milan, Juve e Sassuolo appesi con i denti al tuo scroto. Questo è meglio ricordarselo tutti, dai malmostosi fino a Inzaghi.
(per l’angolo Podcast, vi ricordo che se volete lamentarvi – di qualsiasi cosa, anche se sull’Inter siamo più preparati – attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355. Se invece siete più propositivi, attendo i vostri vocali al numero Whatsapp 351 351 2355)
A parte il veloce e temporaneo affaticamento muscolare del turco (che a 29 anni e mezzo è ancora un ragazzino), i primi acciacchi/problemi stagionali dei giocatori dell’Inter – e non siamo ancora arrivati nemmeno alla fine di settembre – hanno riguardato molti dei nostri Grandi Anziani. Sanchez in Cile l’hanno trovato un po’ sbattuto (anemia, ma sembrerebbe essersi rimesso in bolla), Cuadrado ha male al tendine e ora ad Arnautovic è saltato il primo muscolo 2023/24.
Se la questione in generale la possiamo definire meno che sorprendente (gli anziani sono sempre pieni di malanni) (io per esempio ho la sinusite a mesi alterni), mi piacerebbe sapere se all’Inter pensavano seriamente di sfangarla con un reparto attaccanti composto da quattro giocatori, due dei quali 34enni e piuttosto usurati. Al 25 settembre abbiamo già il primo lungodegente (Arna starà fuori due mesi, forse) (il geriatra lo rivaluterà a inizio novembre) e quindi la panchina degli attaccanti si è già ridotta del 50 per cento: l’unica riserva dei due splendidi 26enni è un 34enne anemico e permaloso.
Mentre da fuori ci dicono che in Italia abbiamo la rosa migliore di tutti e noi un po’ ce ne convinciamo, la realtà è che ci sono delle magnificenze e delle criticità. Tra le prime, spicca una fascia destra (Dumfries, Cuadrado, Pavard, Darmian) che non ce l’ha manco il City, seguita da un centrocampo piuttosto extralusso, diciamolo, nonostante la cessione di Gagliardini. Tra le seconde, spicca l’attacco. E dove si concentrano gli infortuni? Eh, indovina.
La cosa sta generando una situazione piuttosto divertente, perchè è partito il toto-quarto attaccante. Soluzione svincolato (smentita, pare, dalla società): spiccano i nomi del Papu Gomez (diciamo non proprio la controfigura fisica di Arna), Stefano Okaka (34 anni, età che porta male), Fabio Quagliarella (40), Felipe Caicedo (abbiamo già dato, comunque ne fa 35) e Simone Zaza (32). C’è anche un’ipotesi Emilio Butragueño (60), ma sembra piuttosto fantasiosa.
Poi ci sono due soluzioni interne. La prima: usare alla bisogna Mkhitaryan (oh, 34), Klaassen o Frattesi in attacco, visto che hanno una certa propensione naturale a centrare la porta. La seconda: coprire il buco con un Primavera, nel caso specifico Amadou Sarr, classe 2004.
Sarà che sono anziano (ho anche la spina calcaneare), ma l’ipotesi Sarr mi riporta indietro di molti e molti anni, quando le rose delle squadre arrivavano max a 16-18 giocatori e se un reparto andava in crisi si pescava davvero nella Primavera e si davano chance a ragazzi che oggi manco se le possono sognare. Da bambino ho assistito a San Siro ai debutti di attaccanti sconosciuti: Cesati (gol all’esordio), Serena (gol all’esordio), Chierico (niente gol, ma un testone di riccioli rossi che spiccava sulla fascia), per non dire del mio amico Cerilli, non all’esordio ma quasi, Mvp di un’Inter-Lazio da leccarsi i baffi. Emozioni forti, semplici, belle.
L’opzione Sarr, in combinazione con l’opzione “nel frattempo metto uno che magari tira in porta”, consentirebbe al nostro amico del 2004 di fare esperienza con la prima squadra, cioè accomodarsi in panchina, vedere la partita gratis e sperare in quello 0,1% di probabilità che Inzaghi gli faccia giocare 5 minuti. Oh, magari mi sbaglio (e ne sarò contento). Ma il calcio non è un paese per i troppo giovani, e l’Inter ancora meno.
Equivoco numero 1. In albergo, Simone Inzaghi per portarsi avanti e distrarsi un po’ prepara anche la distinta per la partita di Empoli. Ok, il turco non sta bene, oggi faccio un turn over ridotto, è la prima di Champions, meglio andare sul sicuro. Domenica a Empoli, invece, ne cambio almeno quattro. Fa due conti, scrive le due formazioni. Poi va allo stadio, dà la distinta a Farris che la porta all’arbitro. Mentre gliela dà, Farris legge “Empoli-Inter”. O cazzo. “Ops! Could you…”. L’arbitro Oliver dice: “What’s Empoli?”. Farris dice: “Minchia, i’m sorry, have you a biro?”. Cancella Empoli, ma la formazione è ormai quella. Quando torna negli spogliatoi, trova Inzaghi che sta mangiando la distinta giusta.
Equivoco numero 2. Sommer, a partita appena iniziata, viene pressato e deve rinviare in fretta con i piedi. Alza gli occhi e vede delle maglie bianche un po’ a righe e delle maglie arancioni. “Ma che cazz…”. Va anche capito, è appena arrivato. Vestire la squadra come gli ultras di Verstappen non è stata una grandissima idea. Poi Bastoni ci ha messo del suo, “ok, li dribblo tutti e…”. Anche questo, in fondo, un equivoco.
Tutto ciò nei primi quattro minuti: ha ragione Pioli, all’inizio facciamo cagare. Poi, però, per smentire Pioli, facciamo cagare anche per un’altra oretta. I baschi fanno un partitone (due traverse, un miracolo di Sommer, l’uomo che ha scambiato i guanti con Gianni Morandi), grande corsa e grande garra, oltre che una grande propensione ad accentuare e simulare che me li rendono insopportabile quanto, per dire, una Roma o una Juve.
Poi vabbe’, anche Jakob Ingebrigtsen se va troppo forte nei primi giri alla fine non riesce a sprintare. E la geniale mossa di Inzaghi – tolgo i peggiori, metto i più forti che ho – consente all’Inter di tornare a vedere la luce mentre i baschi vanno progressivamente in debito d’ossigeno. Fino a che Lautaro (pensavo l’avesse lui l’anemia, non Sanchez) dopo una partita anonima si dimostra il campione che è trasformando in gol l’unico pallone che arriva dalle sue parti. Se ne sarebbe meritato uno anche Thuram, che tra i moribondi della Sociedad sembrava Haaland in un’ipotetica amichevole Pavia-City. Ma va bene così, visto che sarebbe potuto andare ben peggio.
Squadra stanca? Boh, dopo aver dato il peggio, il meglio l’ha dato alla fine. Buon risultato? Boh, avrei detto di sì, ma non so come giudicare la situazione alla luce del fatto che il Salisburgo ha vinto a Lisbona. Quindi il mio commento finale è boh. *
*) se il vostro commento non è boh, cioè se avete qualcosa da dire di più significativo, fatelo con un vocale al 351 351 2355, che così ci faccio un podcast.