Dovendo morire tutti – perché voi sapete che andrà così, moriremo tutti, senza offesa – si potrebbe dire che il quinto strafottuto derby stagionale è stato l’inizio della fine. Cioè, letteralmente: il primo atto del finale (di stagione), che terminerà tra un mese quasi esatto, il 25 maggio, o nella più orgasmatica delle ipotesi sei giorni più tardi. Come primo atto, ecco, non è andato benissimo. Tanto che al concetto di inizio della fine potremmo rassegnarci a dare un senso un filino più apocalittico: insomma, non solo moriremo tutti – perché è umano che vada così, in un futuro più o meno prossimo – ma (rumore prolungato di tuoni) siamo già morti.
Nel mio cervellino da tifosotto, un significato supremo io davo al derby di Coppa Italia: quello del trampolino. Mi auguravo, anzi, beata ingenuità, proprio mi immaginavo un derby finalmente vinto, un derby booster di energie e vitalità in vista di impegni ancora più importanti nei sette giorni successivi, prima in campionato (in quell’Inter-Roma che ieri nel giro di un paio d’ore ha cambiato giorno e orario tipo diciassette volte) e poi in Champions a Barcellona. Non era la semifinale di ritorno della Coppa Italia con il match point in casa, no, alla Coppa proprio non pensavo. Inter-Milan era una partita trampolino.
Purtroppo è andata come peggio non poteva andare, se consideriamo che questa partita l’abbiamo stradominata per mezz’ora, per poi prendere gol al primo tiro, prenderne un altro per un misto di ignavia e di sfiga, vagare per il campo storiditi per una decina di minuti e poi riprendere inutilmente a macinare gioco e occasioni prima del colpo di grazia. Ci si può arrabbiare per una partita così? Sì, certo, ma anche no. Ce l’abbiamo messa tutta. Il problema è che quel “tutta” è da quantificare con realismo.
In tre giorni abbiamo perso due partite basilari. Quel che spaventa è che le abbiamo perse senza segnare un gol e non mi ricordo da quanti mesi, anni o lustri l’Inter non segnava gol in due partite di fila, boh, forse c’era ancora la lira. Anche Inzaghi a fine partita era seriamente preoccupato. Forse, come tanti di noi, avrà pensato ai due significati di inizio della fine e gli sarà venuto un brivido.
Ora che inizia la fine (della stagione) dobbiamo rimandare la fine (nostra). A essere oltremodo ottimisti, dopo quella che abbiamo visto stasera, si corre il rischio di sembrare un po’ ridicoli. Preoccupiamoci, invece. Con sobrietà. Per la prima volta da otto mesi a questa parte non siamo più dentro a tutto. Non so – non credo – che tolto il peso della Coppa Italia ci sentiremo più leggeri, non dopo uno 0-3 col Milan. Di sicuro, abbiamo altre sette partite da giocare (e il sogno di una ottava). Proviamo a pensarla così: sono poche. Proviamo a raccogliere tutto ciò che resta in energie e orgoglio. E a ripartire.
E’ l’inizio della fine, con quale significato ancora non si sa. Fosse quello peggiore, ringrazio sin d’ora l’Inter per la meravigliosa emozione protratta otto mesi. E se c’è ancora voglia e forza di protrarla ancora per un po’, ragazzi, non siamo qui con voi, tutti, sempre.
Le stronzate che si dicono da tifosi – e tra tifosi – sono così innumerevoli ed ecumeniche che potremmo limitarci a trattare quella di Roberto Saviano, appunto, come una stronzata qualunque di un tifoso qualunque. Nel giorno in cui è morto il Papa potremmo qui, adesso, osservare intimamente un minuto di silenzio e riconoscere i nostri peccati – quelli commessi in qualità di tifosi: non basterebbe un minuto, penso, perchè ognuno di noi ha una rispettabilissima vita da cui prende 90 minuti (più recupero) di licenza ogni settimana (anche due volte la settimana) (gli interisti, in questo periodo, si trasfigurano spesso) e niente, fa o dice cose di cui un giorno potrebbe pentirsi, pur nella consapevolezza generale che il tifo sia una zona franca per i cervelli di chiunque.
Non è detto che ci si trasformi per forza in esseri mostruosi: a seconda delle occasioni si torna bambini o ci si avvicina alla morte, poi si riprendono sembianze umane e via così, fino alla successiva licenza. Per dire: la sera di Inter-Bayern noi interisti eravamo creature eteree a spasso per il paradiso, dopo Bologna-Inter (tre giorni dopo, parevano tre mesi) sembravamo gremlins che sparavano ai santi per tirarli giù uno a uno come al luna park. E’ il tifo, non possiamo farci niente. Cioè, potremmo. Ma non lo facciamo.
Non lo fa nemmeno Saviano, pensa un po’. Saviano, però, non è un tifoso qualunque. E soprattutto la stronzata che ha detto non è una stronzata qualunque. E’ una stronzata terribilmente specifica e dannatamente autorevole.
Voglio dire: se il mio amico Pippo dell’Inter club Borgoratto Mormorolo sul pullman che va a San Siro mi dicesse che “Caravaggio fa cagare perchè sicuramente tifava Atalanta”, io gli direi “sì, certo” e mi periterei di non sedermi con lui nel viaggio di ritorno (cioè, non avrei voglia di stare lì a dirgli “a parte la cosa dell’Atalanta, vabbe’, vieni con me una mezz’ora a Roma in San Luigi dei Francesi e poi ne riparliamo”, anche perchè mi direbbe Roma merda, Francia vaffanculo, forza Inter, vabbè, i tifosi dicono un sacco di stronzate). Se però fosse Sgarbi a dirlo con una storia sui social o in tv a reti unificate, “Caravaggio è un assassino mezzo matto e i suoi quadri fanno cagare”, il pesante e circostanziato giudizio su Caravaggio assumerebbe un rilievo un po’ diverso. Una stronzata, certo. Ma una stronzata d’autore. Un autore tanto autorevole che qualcuno potrebbe prenderla per buona, la stronzata.
A Saviano la storia delle infiltrazioni ‘ndranghetiste nella curva dell’Inter è piaciuta molto, professionalmente. Ci ha dedicato tempo, ne ha scritto, parlato, raccontato. E non mi stupisce, perchè Saviano si occupa di malavita organizzata e quella delle infiltrazioni ‘ndranghetiste nella curva dell’Inter è una storia di malavita organizzata, che ci piaccia o no. Non credo sia piaciuta a nessun interista, così come non sarà piaciuta nemmeno a nessun milanista per la loro quota parte. Figurarsi ai tifosotti come me, a cui non piacciono mafiosi e camorristi ma nemmeno le curve, a prescindere da qualsivoglia infiltrazione.
Ora, matchando il tifoso che c’è in noi con il professionista che c’è in noi, posso anche capire che in un attimo di black-out cerebrale tipico del tifoso a Saviano (che quindi stava occupando il suo tempo a gufare l’Inter: interessante, lo umanizza) sia scappata una frase sgradevole. Una frase che poggia su una realtà altrettanto sgradevole, anche se mettere in relazione la mezza rovesciata di Orsolini con la mafiosità della curva dell’Inter è piuttosto acrobatico, tipo la suddetta mezza rovesciata. Ma facciamo che tutto questo possa essere definito concepibile, nell’ottica di un tifoso del Napoli che sta guardando Bologna-Inter sperando che l’Inter perda e in effetti al 94′ prende un gol. Non posso garantire, per onestà intellettuale, che a parti rovesciate sarebbe filato tutto liscio, e che 7 milioni di interisti avrebbero detto tutti “ohibò, i partenopei hanno perso, bene, me ne compiaccio” e non magari “Aaargh! Forza Vesuvio!”, no, non lo posso garantire.
E’ la seconda parte della frase che non è accettabile. Perchè se “la curva più ‘ndranghetista del paese” può essere il giudizio di un esperto che poggia su circostanze purtroppo reali, dire che l’Inter “fa dell’ambiguità con i clan la sua cifra” è un’enormità diffamatoria cui spero che la società reagisca con fermezza nelle dovute sedi. Il rispetto che merita Saviano non è sconfinato, il credito che vanta per il suo impegno e per la sua rinuncia a una vita normale non gli può consentire di dire qualsiasi cosa impunemente. La cifra dell’Inter – tratto distintivo, impronta, segno, traccia, stile – è essere ambigui con la ‘ndrangheta? Ma che cazzo dici, Saviano? Parli della cifra dell’Inter come se parlassi della cifra di Genny Savastano. Tu, che di certi argomenti te ne intendi, più di chiunque altro, non puoi dire ‘ste cose. Non sei un curvaiolo del San Paolo. Sei Roberto Saviano.
La parole sono importanti e chi riveste un ruolo non può non sapere che le sue pesano molto di più. Se io dico che la carbonara fa schifo esprimo l’opinione scomposta di un signor nessuno, se lo dice Cannavacciuolo cambia la storia della cucina italiana. L’Inter, caro Saviano, ha un’altra cifra. E sai che ti dico? Tra le tue stronzate da tifoso e i piagnistei del tuo allenatore, vincere questo scudetto adesso diventa una questione di principio.
La prima certezza è che non siamo (più) capaci di giocare per lo 0-0. Abbiamo preso gol appena prima di andare a fare la doccia, come a Leverkusen, convinti di avercela fatta. Non è che abbiamo giocato male. Anzi a Bologna, più che a Leverkusen, ci siamo calati bene nel clima della partita. Ma di sicuro non abbiamo provato seriamente a vincerla. Anche a Torino con la Juve era andata così: ci saremmo accontentati di uno 0-0 e ce lo siamo presi in quel posto. Non siamo (più) una squadra da 0-0, non è il nostro pane. L’ultimo 0-0 in campionato è un Samp-Inter del febbraio ’23, 26 mesi fa. Da allora abbiamo fatto solo tre 0-0 tutti in Champions (Real Sociedad a San Siro, partita ininfluente, e Porto e City in trasferta, partite in cui uno 0-0 aveva un senso). Gli ultimi tentativi di accontentarsi di uno 0-0, o addirittura di programmarlo, sono dunque miseramente falliti.
La seconda certezza è che ultimamente – da quando cioè giochiamo a ciclo continuo – siamo parecchio vulnerabili rispetto alle nostre medie recenti. C’è solo un clean sheet nelle ultime dieci partite, nelle altre nove abbiamo subito 1 (6 volte) o 2 (3 volte) gol. Ne consegue, dunque, che per vincere dobbiamo sempre segnare due gol, oppure tre (tipo col Monza, mentre con Parma e Bayern è finita 2-2). A Bologna due gol non li avremmo segnati mai. Forse uno. Ma bisogna tirare in porta.
La terza certezza è che al 20 aprile, pur sconfitti a Bologna con un gol al 94′, siamo ancora dentro a tutto. Compreso il campionato, dove siamo ancora primi. Purtroppo ora a pari con il Napoli, che ha capitalizzato al 100% un turno favorevole (noi in trasferta contro la quarta in classifica in gran forma, loro con l’ultima depressa). Spoiler: sarà un turno favorevole a loro anche il prossimo, noi contro la Roma lanciatissima e loro contro il Torino, una delle squadre (con tutto il bene che posso volere al Toro) più inutili della serie A.
La quarta certezza è che, dopo la visione di Monza-Napoli e di Bologna-Inter, direi che noi non usciamo minimamente ridimensionati dal duello a distanza. Il Napoli ha avuto i suoi problemi a venire a capo di una partita ovvia, non è squadra che dia l’impressione di una particolare vena o di una grande sicurezza. E pensare che questa squadra possa vincere lo scudetto – una squadra che gioca la metà delle nostre partire e sembra sfinita uguale – è veramente agghiacciante (cit.).
La quinta certezza è che noi sfiniti lo siamo davvero e che è oggettivamente difficile che in questa spaventosa sequela di partite si possa tenere un rendimento elevato e uniforme. Ci saranno partite che andranno meglio e altre peggio. Dobbiamo sperare anche in un po’ di fortuna, che oggi per esempio ci avrebbe consentito di portare a casa un punto, non fosse altro che la partita era ormai finita. La fortuna, anche, che nessuno si faccia male. Oggi con Thuram invece di un Correa innocuo e di un ormai irritante Taremi sarebbe stata un’altra partita. O la fortuna di non dover fare per forza certi cambi: tipo tirare fuori Bastoni ammonito e mettere dentro Bisseck che sembrava essersi appena fatto una canna nei bagni del Dall’Ara. Un po’ di fortuna ce la meriteremmo, e che cazzo.
E’ successo meno di 10 anni fa. 31 ottobre 2015: allo stadio Presidente Peron di Avellaneda, provincia di Buenos Aires, vicino a dove la linea di centrocampo interseca perpendicolarmente quella laterale, viene scattata la foto che contiene tutto un destino. Diego Cocca, allenatore del Racing, sul punteggio di 3-0 chiama il cambio nel finale della partita con il Crucero del Norte, ultimo in classifica. E’ il 79′. Il tabellone luminoso si accende sul numero 22: esce Diego Milito, autore di una doppietta, per una meritata standing ovation. Il display vira sul 32: entra il 18enne Lautaro Martinez, per i suoi primi undici minuti da professionista.
Il Principe è il campione al passo d’addio, tornato nella sua squadra del cuore per chiudere la carriera dopo una lunga – e da noi gloriosa – avventura europea. Il Toro (il soprannome, azzeccato, gliel’ha dato un compagno di squadra) è invece al debutto assoluto, il ragazzino promettente a cui viene fatta assaggiare l’emozione della prima squadra in uno stadio strapieno. Un rito alla sua milionesima rappresentazione negli stadi di tutto il mondo. Ma riletto e rivissuto in chiave interista è un momento clamorosamente evocativo. Nessuno avrebbe potuto immaginare che razza di passaggio di consegne si stesse realizzando in quel momento nello stadio dell’Avellaneda.
L’Inter doveva ancora mettere seriamente gli occhi sul ragazzino – un po’ piccolo, in effetti, ma tosto. Lo farà nei mesi successivi, di fronte a relazioni sempre più interessanti. Già agli inizi della stagione 2017-18 l’affare viene intavolato e poi concluso. L’imberbe, acerbo, semisconosciuto Lautaro Martinez arriva a Milano a 21 anni, nel luglio 2018, si prende la maglia numero 10 (minchia, che faccia tosta) ma siede diligentemente in panca come riserva di quell’Icardi che da febbraio in poi, in collisione con il club e con Spaletti, gli lascerà parecchio spazio. Forse fin troppo per uno paracadutato dall’Argentina in un’Inter piena di casini. Era ancora un giocatore imperfetto, sbagliava molti gol, non parlava italiano (ci metterà un paio d’anni ad abbandonare lo spagnolo nelle interviste), tanta buona volontà ma boh, chissà, vabbe’, vediamo.
Il resto, ormai, è storia. Nella nostra, Lautaro si è già ritagliato un posto che forse neppure osava sognare. Ma che certamente, mese dopo mese, gol dopo gol, ha inseguito e voluto oltre ogni cosa. Poteva essere una meteora e invece è diventato il capitano. Non solo una stella (questo lo dicono le cifre, ma noi vogliamo andare oltre le cifre), non solo il frontman, ma il condottiero. E’ questa caratteristica è impagabile, inestimabile, e va oltre le infatuazioni da highlights o gli incensamenti da statistica. Lautaro, più di ogni altra cosa – un grandissimo centravanti, un giocatore generoso, un punto di riferimento dentro e fuori dal campo -, è diventato interista.
Questo passaggio non è così scontato. Non sarà magari per l’eternità – anche se piacerebbe a tutti – ma la dichiarazione d’amore di Lautaro per l’Inter è una delle cose più belle che ci siano capitate negli ultimi decenni, sentimentalmente parlando. E vaffanculo, non scordiamoci mai dei sentimenti in quest’epoca di bonus, big money ed expected goal. Non sottovalutiamo il fatto che ci sia ancora gente che si emoziona per una bandiera o per uno stadio, e non solo quando accede all’home banking. E che ci siano ancora campioni che apprezzano di mettersi una fascia sul braccio sinistro, non perché è un simbolo di prestigio o perché spicca bene sul fondo nerazzurro ma per quella certificazione di appartenenza – appartenenza vera – che resta vanto di pochi e patrimonio di pochissimi.
Icardi diventò capitano perché in quell’Inter un po’ così era il più forte, il più prospettivo, il più spendibile, il più fascinoso. Potremmo fare copincolla per Lautaro, ma questa non è un’Inter un po’ così, e soprattutto lui non è Icardi. Lautaro ci ha messo il cuore, il sudore, le lacrime, l’orgoglio. Lautaro si è infilato quella fascia con una solennità che fa quasi tenerezza, in un mondo arido e senza valori. Lautaro è capitano di un’Inter che gli piace, che ama. Un’Inter per la quale farebbe qualsiasi cosa, sapendo – altra immane differenza con Icardi – che questa Inter farebbe qualsiasi cosa per lui. Lautaro è capitano di se stesso: il Lautaro giocatore non tradirebbe mai il Lautaro capitano, il Lautaro giocatore vuole andare a dormire con la coscienza a posto al cospetto del Lautaro capitano. Il Lautaro giocatore e il Lautaro capitano lasciano il campo avendo speso tutto. Il Lautaro giocatore e il Lautaro capitano sono proprio la stessa cosa.
E’ meraviglioso vederlo giocare così – vedergli fare il capitano così – in quella che a conti fatti è la sua stagione più difficile, iniziata con troppe tossine nelle gambe, con qualche infortunio da stress, con pochi gol e relativi malumori, con qualche dubbio da parte di noi stolti tifosotti che non lo concepiamo in versione ridotta (sotto i 25-30 gol a stagione, per dire) (che ingrati). Quando è tornato lui al 100 per cento è iniziata la fase-2 della stagione dell’Inter, perchè con un Lautaro a questo livello, di lotta e di governo, di gol e di sacrificio, di pennellate e di randellate, nulla ci è precluso. Negli anni ha cambiato postura, grazie anche alla fascia. Il quel petto in fuori, in quella fronte alta, in quello sguardo che da tenebroso si è fatto maturo (spaventoso, per gli altri) c’è tutta la sua voglia di giocare in nerazzurro, di trascinare un popolo intero verso l’obiettivo. C’è la sua gratitudine verso l’Inter. Le sue prestazioni non sono il corrispettivo di un lauto stipendio. Sono altro. E finchè resteranno altro, ecco, nulla mai ci dividerà.
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #129, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto, è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
Fort Knox è un’area militare nel Kentucky che una volta era la principale base dei mezzi corazzati e ancora oggi ospita lo United States Bullion Depository, cioè le riserve auree (4.500 tonnellate in lingotti, dicunt) e monetarie dei fottuti States. Fort Knox è sinonimo di inviolabilità (il deposito è considerato l’edificio più sicuro del mondo). Fort Knox è sinonimo di riserva, di luogo cioè dove sono state stoccate cose preziose cui attingere in estremo caso di necessità.
Dove sarà il Fort Knox dell’Inter? In un bunker sotto San Siro? Nel caveau del grattacielo di viale della Liberazione? In un locale segreto ricavato nella cantina di Moratti? In un sotterraneo blindato alla Pinetina?
Nel Fort Knox dell’Inter (che avrà senz’altro un nomignolo più simpatico, chessò, Fort Giacinto) non ci sono riserve auree nè monetarie (ormai esaurite), ma sentimentali. Ci sono vari scomparti: amore per la maglia, palle, gambe, cuore, testa, personalità. La porta blindata viene aperta solo in occasioni speciali, per evitare che il patrimonio si disperda inutilmente. Sei sotto di due gol con il Monza? Beh, cazzi tuoi, pedalare. Giochi un quarto di finale di Champions con il Bayern? Ok, ecco il foglietto con la combinazione (poi, mi raccomando, ingoialo).
Amore per la maglia, palle, gambe, cuore, testa, personalità. In misura variabile, a dosaggi personalizzati, l’Inter oggi ha attinto dal suo Fort Knox spirituale per resistere all’assalto del Bayern e gestire le proprie emozioni. Le forze no, quelle ormai non si gestiscono più: si fa con quel che c’è, finchè dura. Le palle sguainate fanno parecchio. Il resto risiede altrove, nel campo dell’impalpabile, dell’etereo. In quello spicchio di cervello dove abitano la voglia e la cazzimma. O in quello scomparto di cuore (atrio o ventricolo, non è chiaro) dove aleggia l’amore: amore per la maglia, per lo stadio, per il calcio, per se stessi. Era il 16 aprile, mentre rileggo è già il 17 e siamo ancora qui, dentro a tutto.
Le chiavi di Fort Giacinto te le fai dare solo quando servono, va bene. Ma nelle prossime tre settimane bisognerà andarci spesso. Non so cosa resterà di noi la sera del 6 maggio, dopo aver giocato con Bologna, Milan, Roma, Barcellona, Verona e ancora Barcellona, io proprio non lo so. Ma questi ragazzi meritano un monumento e il loro allenatore la nostra gratitudine eterna. Guardate dove ci stanno portando. E’ pazzesco. E magari tra tre settimane non avremo più in mano niente. E’ pazzesco.
Forza Inter, cogliamo l’attimo. Cose del genere non capitano quasi mai. E quando capitano bisogna dare tutto, provarci fino all’ultimo secondo, all’ultima stilla di sudore, all’ultima goccia di glicogeno. E’ una grandissima fortuna, e la fortuna non va sprecata. Bologna, non so come ma arriviamo.
Grandissimo upgrade: una settimana fa il pareggio con il Parma ci ha fatto trascorrere due pessime giornate ad aspettare che giocasse il Napoli, tra le più fosche previsioni; avendo battuto il Cagliari, invece, trascorreremo due giornate serene ad aspettare che giochi il Napoli, che al massimo potrà fare tanto quanto noi. A proposito: ma quanto dev’essere squallida la vita dei napoletani? Una sola partita a settimana, in campionato, con avversari senza arte nè parte. Dio mio, che noia.
Noi, invece, la sera del 12 aprile, a poco più di un mese e mezzo dalla fine della stagione (mondiale per club escluso), siamo ancora dentro a tutto. E giochiamo a getto continuo, ogni tre o quattro giorni, partite tutte decisive. Le prossime tre, per dire: Bayern, Bologna, Milan, in sette giorni, dentro o fuori (anche Bologna un po’ lo sarà).
E decisiva la era anche quella col Cagliari, per un sacco di ragioni, non ultima quella di gestire la sbornia bavarese tornando con i piedi per terra. Missione compiuta, anche piuttosto bene: squadra vitale, propositiva, sempre proiettata in avanti e (quasi) sempre sul pezzo. Sempre che su certi particolari valga poi la pena soffermarsi: serve solo vincere, il resto (il come) ormai conta quel che conta, cioè poco.
Comunque, l’Inter arriva al prossimo micidiale tris di partite con 12 risultati utili consecutivi: dopo la sconfitta con la Juve (meno di due mesi fa) abbiamo giocato 12 partite vincendone 9 e pareggiandone 3. Sì, certo, potevamo fare meglio, ma il ruolino di marcia è notevole. E’ sicuramente un’Inter un po’ stanca, un po’ claudicante e soprattutto un po’ vulnerabile (nelle ultime 10 partite solo un clean sheet), ma che sta reggendo alla stragrande il peso delle sue responsabilità. E’ una grande Inter, che si lascia trasportare dalla sua voglia di giocare e di giocarsi tutto. Due mesi fa, la sera di Juve-Inter, sembrava tutto così terribilmente in bilico che avrei firmato per molto meno. E stanotte vado invece a dormire in preda alla schizofrenia del momento: la voglia che le partite durino il meno possibile e che questa stagione non finisca mai.
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #129, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
alla fine della partita col Bayern, invece di stappare una bollicina e spalancare la finestra e agitare la bottiglia come Verstappen e innaffiare i passanti gridando Forza Inter – così come il momento avrebbe richiesto -, sono rimasto un attimo lì a fissare il soffitto. Avevo appena visto una di quelle partite che ogni tanto ti auguri di vedere e già – sono fatto così – mi immalinconivo pensavo a quella successiva, contro il Cagliari, immaginandomela più difficile e insidiosa di quella di München, eh sì, a causa dell’asticella stagionale in costante ascesa e della testa che ci vuole per passare dal Bayern al Cagliari and treat those two impostors just the same, avrebbe detto Kipling. Cagliari (sospiro). Fissavo il soffitto e mi sono chiesto: “Ma perché a Cagliari fischiano sempre Barella?”.
In tv scorrevano gli highlights e i commentatori si lasciavano andare a considerazioni sempre più strabiliate sull’Inter, mentre io compulsavo il telefono cercando “Cronistoria Cagliari calcio” per capire la ragione di quei fischi. L’Inter, benedetto sia quel giorno, ha acquistato il tuo cartellino nell’estate del 2019. Dal 2019 a oggi il Cagliari senza di te, caro Niccolò, ha fatto 5 campionati in serie A e uno in B (retrocessione e immediata promozione), miglior piazzamento in A un quattordicesimo posto. Con te, caro Niccolò, quando eri poco più di un bambino e avevi i capelli molto più folti (io lo so che a pranzo ti siedi vicino a Carlos e gli fai delle domande, così, per sapere), il Cagliari ha giocato tre campionati in A, miglior piazzamento un undicesimo posto. Te ne sei andato dopo 13 anni in rossoblu, pagato oltre 50 milioni (prestito oneroso a 12 milioni, obbligo di riscatto a 25, più un bonus di 13). Non sei scappato di notte, non ti sei marranamente defilato a parametro zero, sei sardo fino al midollo. Insomma, cosa pretendevano quei quattro coglioni che ti fischiano? Che rimanessi a Cagliari? No, seriamente: è così? A Cagliari? Tutta la vita? Solo per aspirare a un posto in Conference? Solo perché Gigi non c’è più e ne hanno bisogno di uno nuovo?
Chissà se i quattro coglioni di cui sopra, dopo cinque anni e mezzo di ribalta nazionale e internazionale, passando per due scudetti e parecchie coppette, due finali europee (perse, e vabbe’) con l’Inter e un titolo europeo (vinto) con la nazionale, ti hanno visto giocare a Monaco. E se ti hanno scritto per chiederti scusa, e dopo una veloce colletta se sono andati a comprare in merceria una passerella rossa che la prossima volta posizioneranno sotto la scaletta dell’aereo a Elmas e strotoleranno per chilometri fino al bastione dalla cui balconata ti rivolgerai ai tuoi cittadini per un saluto, sorridendo e imponendo le mani. Ma, a parte quei quattro coglioni, mi piacerebbe tanto che l’Italia tutta che ama il calcio, al di là – lo so che è difficile – dei colori e delle appartenenze, si fosse accorta della fottutamente astronomica partita che hai fatto a Monaco di Baviera, dal primo minuto fino all’ultimo, passando per cento tocchi/movimenti saggi, eccelsi o spettacolari o tutt’e tre. E’ la solita ingiustizia, quella di chiamarsi Barella e non Barellinha o Barellingham o Barellé. E’ il solito darti per scontato e non riconoscere la tua vera essenza che è la grandezza espressa in Baviera, e tutti lì a guardare.
Che poi, non è proprio così. La gente guarda Lautaro (e lo guardo anch’io, e ogni volta sono avvinto dalla sua postura nel portare la nostra maglia e la fascia da capitano, e gli voglio bene), o Bastoni (ragazzi, ce l’abbiamo solo noi), o Thuram, o il turco, o l’armeno, o Cocoon Acerbi, o (aggiungi un nome a caso), e persino Carlos, che due anni fa giocava a Monza e oggi ara la fascia dello stadio del Bayern, che stanno rizollando in vista del big match col Borussia Dortmund. E alla fine – la Gazza se n’è accorta, il Corriere e Repubblica no – ti dimentichi di rendere il giusto merito a Barella, un giocatorone pazzesco che non ha eguali in Italia e – diciamolo – non ne ha moltissimi al mondo, uno che corre, randella e pennella con una disinvoltura imbarazzante (per gli altri), uno che non smette un attimo di pensare, uno che resta legato al cliché del giocatore totale e poi ti fa il lancio di quaranta metri a occhi chiusi o il tacco chirurgico che ti immagineresti in Brasile e non a Casteddu (dove lo fischiano, fischiano ‘sto demonio di giocatore da favola) (stolti).
Io guardo l’Inter con la Barella-cam innestata nel cervello, parleranno di me nell’ottava stagione di Black Mirror. Io so che quando non giochi bene è perché ti annoi, e lo capisco (non si può sempre illuminare il campo in Champions-lusso, ti tocca anche andare a Empoli e Lecce e persino a Young Boys, ti tocca tirare la carretta e poi leggere le belle pagelle degli altri, ti tocca giocare più di tutti e meglio di tutti per farti notare, notare davvero). Io so che quando ti rotoli dopo un fallo e urli e batti la mano per terra in realtà non ti sei fatto un cazzo di niente (mi spaventerò a morte il giorno in cui resterai a terra immobile), e io dal divano rassicuro gli astanti e aspetto che ti rialzi (“Tranquilli, non si è fatto un cazzo. Caffè?”). Io so che quando ti arrabbi perchè non ti hanno passato un pallone non è per cattiveria o per protagonismo ma perchè sei realmente convinto – e lo sono anch’io – che avrebbero fatto meglio a passare il pallone a te invece di incaponirsi in una iniziativa personale. Ti arrabbi perché non nascondi il bambino che c’è in tutti noi. Ti arrabbi perchè tieni a questa maglia, a questa squadra, a questa società. Ti arrabbi perché sei interista e fai a gara con Lautaro e con tutti gli altri a chi è più interista di tutti, perchè da ogni partita esca un distillato di interismo che innaffi la vittoria.
Ma forse è meglio così, per tutti, forse anche per te. Non è necessario finire sempre in copertina, alla fine ci si espone troppo, ci si stanca, si stanca. Anch’io disattivo ogni tanto la mia Barella-cam, non voglio esagerare (c’è un telecomandino, poi Black Mirror spiegherà). Il dispositivo prevede comunque un alert che riattiva il sistema quando riconquisti una palla materializzandoti sulla mediana (dov’eri prima?), o quando lanci in verticale i quinti i terzi o chi pare a te (chi siamo noi per giudicare?), o quando ti concedi una leziosità da leccarsi i baffi (quei tocchetti alla Roberto Bolle), o quando segni uno dei tuoi rari gol (rari rispetto alle nostre aspettative e alle tue potenzialità), tutti belli perchè fai solo gol belli, vaffanculo, vaf-fan-cu-lo!, ma l’avete visto Barella? No dico, l’avete visto davvero?
Vabbe’, adesso c’è Inter-Cagliari. I fischi a San Siro non si sentono. Ci sarebbe da vincere. Non ti annoiare. Parla ai tuoi compagni. Spronali. Rompigli i coglioni. Noi, come te, vorremmo tutto, vogliamo tutto. Grazie.
Questa, ragazzi, finisce dritta nella cartella “Capolavori”, perchè in effetti è stata un capolavoro. Il distillato dell’inzaghismo e anche la masterclass del gruppo – lo so che è una contraddizione, ma stasera il master non era un singolo ma un’intera squadra, e il mondo ha assistito alla sua lezione, di come si attacca e di come si difende, di come si propone e di come si resiste, una lezione recitata in coro come una tragedia greca, però allegrissima.
Considerati tutti i parametri – quarti di Champions, trasferta, qualità dell’avversaria che nelle coppe non perdeva in casa da 27 partite (quattro anni), una partita ogni tre giorni – forse è l’impresa sostanzialmente più bella della quattro stagioni di Inzaghi, che pure può vantare uno scudo, una finale di Champions e un po’ di coppette. Diciamo che dietro l’inestimabile e irripetibile serata del 22 aprile a casa del Milan (priceless) possiamo tranquillamente posizionare la magica notte di Monaco di Baviera, una città dove abbiamo storicamente fatto tutto e il contrario di tutto, grandi imprese e seratacce a non toccar palla. L’8 aprile 2025, invece, semplicemente, un capolavoro.
Proprio questi ricorsi storici spero aiutino l’Inter a non considerare chiuso il discorso, come successe alla meravigliosa Inter del Trap nel 1988 dopo la notte della galoppata di Nicolino Berti, 2-0 e qualificazione in tasca, non fosse stato per il particolare che il Bayern nel ritorno vinse 3-1 a San Siro e l’Inter dei record uscì scornata da quella Coppa Uefa (che poi vinse il Napoli di Maradona).
Intanto, godiamoci ‘sta meraviglia di vittoria ottenuta con una personalità impressionante, che si è sublimata nell’andare a segnare il gol vittoria all’87’, quattro minuti dopo aver subito la rete del pareggio di Muller arrivata dopo 15-20 minuti di assedio. Andarla a vincere, invece di far passare alla bell’e meglio i 7 minuti che restavano da giocare, è stata una roba da groppo in gola. Due gol strepitosi, corali, perfetti, dal primo passaggio fino all’esecuzione finale passando per una serie di tocchi impeccabili. Le perle di una partita giocata bene da tutti e con alcune prestazioni mostruose – Lautaro, Barella (stratosferico), Bastoni, Mkhitaryan, ma vogliamo parlare di Sommer, della difesa, di Carlos? E del Demone, che ‘sta ciurma l’ha messa insieme e organizzata tanto da farla giocare a occhi chiusi?
Andiamo a dormire sereni. Ricordatevi di programmare il reset durante la notte: domani dobbiamo svegliarci con un solo pensiero: il Cagliari.
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #119, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto, vinciamo a Bayern di Monaco: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
Peccato, certo, peccato. Tocca aspettare fino a lunedì per sapere l’entità dell’eventuale danno prodotto e tirare le somme dopo Bologna-Napoli (ultima partita veramente difficile del Napoli da qui alla fine) e decidere l’adeguata penitenza. Ma cambia poco o nulla in questa stagione che sta a metà tra la gara di sopravvivenza e la corrida. Ogni turno si fanno i conti e si resetta. Finchè la matematica non emetterà verdetti irreversibili, si gioca.
E quindi, intanto, prendiamo atto che siamo ancora qua in corsa per tutto, primi in campionato con 4 punti di vantaggio (lunedì aggiorneremo il pallottoliere), alla decima partita utile consecutiva, alla vigilia di un quarto di finale di Champions dalle suggestioni extralusso. Abbiamo pareggiato a Parma dilapidando due gol di vantaggio. Ok, moriremo tutti? Sì, ma a tempo debito: adesso abbiamo un sacco di impegni.
Abbiamo pareggiato a Parma dilapidando due gol di vantaggio. Ok, vaffanculo, si poteva fare di meglio, tipo vincere. Ma che novità è? Questa Inter non è quella in odore di santità dello scorso anno. Questa Inter è una squadra di peccatori: uomini di specchiata virtù ma anche, appunto, peccatori. E’ tutta la stagione che questa squadra pecca. Breve recap:
Genoa-Inter 2-2, ripresi al 95′; Inter-Milan 1-2, gol di Gabbia all’89’; Inter-Juve 4-4, fino al 70′ stavamo 4-2; Bayer Leverkusen-Inter 1-0, gol preso al 90′; Inter-Milan 2-3, fino al 51′ stavamo 2-0; Inter-Bologna 2-2, ripresi al 64′; Fiorentina-Inter 3-0; Juve-Inter 1-0; Napoli-Inter 1-1, ripresi all’87’; e ora Parma-Inter 2-2, fino al 59′ stavamo 0-2.
Peccato, sì. Ma del tutto coerente con i peccati che commettiamo da inizio stagione (sopra ne ho elencati dieci, tutti gravi, un paio mortali) e che non hanno impedito all’Inter di essere – aggiornamento al 5 aprile – primi in campionato, ai quarti di Champions e in semifinale di Coppa Italia. Ancora in corsa per tutto, il 5 aprile, nonostante si sia peccato parecchio.
A Parma abbiamo giocato un gran primo tempo (concedendo peraltro due occasioni colossali al Parma) e una pessima ripresa, in cui testa e gambe hanno a un certo punto detto stop. La stanchezza e l’ansia (quella cosa che stai giocando con il Parma ma hai la mente in Baviera) sono la combo che ha prodotto il peccato di Parma e altri ne produrrà, perchè il livello delle difficoltà è ormai è questo, che tu le veda oppure no, che tu ti attrezzi oppure no. Il meccanismo dell’asticella da alzare si è incastrato, la rotellina non scorre più all’indietro.
Si allarga oggettivamente la forbice rispetto al Napoli: giocano la metà delle nostre partite, dal punto di vista delle energie da amministrare hanno un vantaggio enorme. Noi abbiamo davanti un mese e mezzo atroce, senza alternative. Siamo umili peccatori, però con un grande cuore. Qualche cazzata la faremo sempre: l’importante è trovare il modo di farsi perdonare.
Tra il dire e il fare c’era di mezzo che non avevamo a disposizione Lautaro, Dumfries, Dimarco, Zielinski, Taremi, Asllani e Arnautovic e in più abbiamo fatto riposare del tutto o almeno un po’ Sommer, Pavard, Acerbi e Mkhitaryan. E forse dovremmo limitarci a considerare tutto questo: cioè che abbiamo giocato una semifinale di Coppa Italia contro il Milan facendo a meno di sette uomini e ruotandone altri quattro. E non l’abbiamo nemmeno persa. E che sottoponendoci a tutto questo abbiamo allungato di altri 3 giorni il nostro periodo del “siamo dentro a tutto e non si molla un cazzo di niente” e guardiamo avanti, step by step, una partita di campionato e una di coppa, avanti, ancora avanti, sempre avanti.
E quindi di preciso come dobbiamo reagire a questo 1-1 con la rappresentativa del circo Medrano? Essere soddisfatti o (eufemismo) recriminare un pochettino?
Sono giuste entrambe le cose. Di un pareggio in una semifinale d’andata in trasferta non si può non essere contenti, avendo fuori quasi un terzo della rosa, poi. Certo, è un 1-1 che lascia in sospeso un po’ di cosette. Tipo che niente, no, non ce la facciamo proprio a battere il Milan quest’anno, è il quarto derby che non vinciamo contro ‘sti scappati di casa che perdono con tutti tranne che con noi. E’ andato in scena il quarto copione diverso: dopo 1) il derby che abbiamo perso meritatamente, 2) il derby perso quando era già vinto e 3) il derby riacciuffato a tempo scaduto dopo tre pali a portiere battuto, è arrivato 4) il derby che riacciuffi a mezz’ora dalla fine e hai la possibilità di vincere ma non lo fai.
Una lenta escalation verso 5) il derby che vinci? Sono così avvinto da questa Inter impegnata in un’impresa sovrumana, nella quale avanza perdendo i pezzi ma a fronte sempre alta, che me ne fotto della scaramanzia. Quale scaramanzia, poi? Nel ritorno non avremo alternative, bisognerà vincere (non considero l’ipotesi di supplementari e rigori, non ce la potrei fare, al novantesimo potrei uscire con il cane e tornare a notte fonda chiudendomi in bagno a guardare gli highlight, forse). E poi il ritorno è così tremendamente lontano, 21 giorni, un’eternità nel corso della quale ci giocheremo il campionato e sfideremo due volte il Bayern. Ci penseremo a suo tempo, al ritorno. Nel frattempo abbiamo un sacco di impegni.
Non è spaventosamente meraviglioso? O preferireste andare al cineforum con i gobbi?