Il ciclone

Sono un feticista del ciclo. Oddio, detta così suona piuttosto male. Ok, chiariamo: non c’entra (copincollo da Wikipedia) (ora farò la donazione di 2,65 euro, come farei senza) la menofilia – o menstruofilia -, cioè la parafilia consistente nell’eccitazione sessuale maschile nei confronti delle donne nel loro periodo mestruale. No dico, come avete solo potuto pensare una roba del genere? Di me? Intendevo solo dire che amo dividere la stagione dell’Inter in cicli, tutto qui. Di solito approfitto delle pause per la nazionali per creare la discontinuità, oppure raggruppo una serie di partite particolarmente difficili o importanti. E così vado avanti a cicli, mini cicli e maxi cicli finchè la stagione finisce e inizia per ma il ciclo della disintossicazione (va bene per qualche settimana, poi ricomincia l’astinenza) (vabbe’, son problemi complessi).

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Ieri è iniziato per l’Inter un micidiale ciclo di 9 partite in 29 giorni, dal 30 marzo (Udinese) al 27 aprile (Roma), passando per Milan, Parma, Bayern, Cagliari, Bayern, Bologna, Milan, una serie di partite tutte decisive per qualcosa da giocarsi ogni 3-4 giorni. La cosa bella è che sei (vabbe’, una sarebbe in trasferta) sono a San Siro e tre fuori casa. La cosa brutta (in realtà emozionalmente parlando è bella anche questa, allora no, diciamo spaventosamente eccitante) è che a) ci giochiamo la Champions contro una squadra fortissima; b) ci giochiamo la Coppa Italia contro una squadra ridicola contro cui quest’anno non ne abbiamo azzeccata una, e c) ci giochiamo il campionato contro una squadra che in questo breve lasso di tempo, 29 giorni appunto, giocherà quattro partite meno di noi.

Dopo la Roma, il nostro calendario prevede una settimana buca (nel senso che si giocherebbe normalmente il sabato o la domenica in campionato contro il Verona sempre a San Siro (una rara coincidenza di sette partite su dieci nello stesso stadio, il nostro). Ma se per caso (se maschi, potete toccarvi i coglioni) (si chiama pallofilia) dovessimo passare il turno col Bayern, la due semifinali si giocherebbero il 29/30 aprile e il 6/7 maggio, allungando a dismisura la serie della partite giocate ogni tre giorni dal 30 marzo all’11 maggio, una cosa ai limiti della Convenzione di Ginevra.

Ma a questo eventualmente penseremo a tempo debito. Il ciclo attuale – vista la durata e l’importanza lo definirei ciclone – è iniziato bene. Benissimo nel primo tempo, un po’ meno bene nel secondo, ma non ci si deve più formalizzare sul come e sul perchè: abbiamo vinto (dando spettacolo finchè ne abbiamo avuto voglia e testa) e il resto sticazzi. Vale la pena ricordare che quel popò di primo tempo – sembravamo il Brasile di Zico e Socrates – l’abbiamo fatto senza Lautaro, Barella, Bastoni e Dumfries, una circostanza che dovrebbe darci una bella botta di autostima. Hanno segnato due non-titolari, Sommer è tornato a fare miracoli. E’ andata così, cioè bene. Avanti la prossima.

La prossima è il Milan. Più che dei conti da regolare (quelli ci sono sempre) ci sono delle gerarchie da ristabilire e qualche solenne minchiata da dimenticare. Io alla Coppa Italia ci tengo. Io tengo a tutto. Forza Inter, diamoci dentro, poi tutti alle Maldive e vaffanculo*.

* (Maldive un cazzo, c’è il Mondiale per club. Ma non diciamoglielo, magari si sono dimenticati)


(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #117, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Belli capelli

C’era da temere, oltre all’Atalanta stessa, la legge dei grandi numeri. Le sette vittorie consecutive con loro. I sette anni dall’ultima volta che ci abbiamo perso. E i quasi tre mesi dall’ultima vittoria in casa dell’Atalanta (3-2 all’Empoli il 22 dicembre). Sembrava, alla vigilia, una congiura di cifre e di statistiche. La prospettiva di un all-in. Una congiura teorica. Perchè poi la pratica ha consegnato a noi la vittoria più importante di tutta la stagione, una partita straordinaria che vale in un colpo solo tre punti presi all’Atalanta e due al Napoli. E dire che l’Atalanta aveva perso in campionato solo 1 delle ultime 22 partite. E dire che il nostro, finora, era stato il campionato degli scontri diretti a fondo perduto (con Napoli, Juve e Milan 4 punti in 6 partite), a parte proprio quel 4-0 all’Atalanta ad agosto, che scontro diretto ancora non era (loro avevano perso 3 delle prime 6) Ma queste sono solo cifre. Una sola cosa conta, adesso: che a Bergamo si è rivista la migliore Inter, in tutti i sensi.

16 febbraio: Juve-Inter 1-0. 16 marzo: Atalanta-Inter 0-2. Un mese, anzi, 28 fottuti giorni intercorrono da una delle peggiori a una delle migliori (e probabilmente la più deteterminante) partite della stagione. Dopo Juve-Inter abbiamo giocato sette partite in un continuo crescendo fisico e prestazionale – 6 vittorie e un pareggio – uscendo praticamente indenni dalla sequela di infortuni settoriali (le fasce decimate) che potevano darci il colpo di grazia, e invece no. Sette partite in 28 giorni, passando gli ottavi di Champions con due vittorie, passando i quarti di Coppa Italia, pareggiando la sfida al vertice col Napoli: un mini-ciclo strepitoso, quasi un percorso netto.

Ascolta “Free Mandela e free Settore” su Spreaker.

Ma proprio le ultime quattro partite, tutte vinte – Feyenoord, Monza, Feyenoord, Atalanta -, ci restituiscono l’immagine dell’Inter che vorremmo sempre vedere: matura in Champions, dove ha gestito in scioltezza la doppia sfida senza strafare pur con problemi di formazione; fisicamente e mentalmente ritrovata in campionato, dove ha rimediato una partita complicatissima con il Monza e dove è andata a Bergamo a giocarsi a mente sgombra la partita dell’anno (se avesse vinto l’Atalanta, che aveva il match point in casa, la classifica ora sarebbe Atalanta, Inter e Napoli 61) (e invece è Inter 64, Napoli 61, Atalanta 58).

Abbiamo nettamente sorpreso l’Atalanta nei primi 15′, poi abbiamo gestito con tranquillità il loro ritorno e nel secondo tempo abbiamo affondato i colpi (cosa che avremmo potuto fare prima, se non avessimo fatto sempre un passaggio in più del necessario). Partita da grande squadra, corale, quasi perfetta considerando il valore e il momento degli avversari: ok, la Juve fa ca-ca-re a spruzzo, ma questi avevano pur sempre vinto 4-0 a Torino, una sconfitta che non si registrava dal 1967.

Curioso che la Juve, due settimane fa, sia stata data come sicura scudettata dopo aver vinto 5 partite di fila e adesso è bollata come una squadraccia da vomito guidata da un incapace. E curioso che l’Atalanta, una settimana fa, sia stata data come sicura scudettata dopo aver vinto 4-0 a Torino e adesso è tornata a -6 in un batter d’occhio. Siccome anche il Napoli era dato come sicuro scudettato a fine gennaio, e poi ha vinto solo una delle ultime 7 partite, ecco, forse è meglio continuare a guardare avanti e a non farci troppo caso, se ti danno o non ti danno come sicura scudettata. Mancano 9 partite, che sono tante. Noi ne abbiamo minimo quattro in più da giocare (tutte ad aprile). Poi chissà.

L’Inter è tornata l’Inter che vogliamo. L’abbiamo aspettata tanto ed è arrivata. La sosta interrompe un sogno ma è anche utile per recuperare qualche pezzo. Quindi, facciamo che va bene così. Tiriamo un bel respiro e restiamo sul pezzo. Oggi da perfetto bauscia eleverei un monumento al Demone e spargerei nove in pagella con parole grondanti amore. Non ho più parole per Barella, e che dire di Lautaro e di quel capellone di Carlos? Ma quasi tutti hanno fatto un partitone clamoroso. Mi piace sottolineare quello di Acerbi, 37 anni, che ha bullizzato il capocannoniere Retegui, 26 anni ancora da compiere, non facendogli toccare un pallone. Oltre a quella scivolata chirurgica su Samardzic, 23 anni, anticipato in area di quella frazione di secondo che separa il campione dall’aspirante tale.

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Duecento di questi Inzaghi

Per quanto lo possa mai essere uno che da 30 anni bazzica nel mondo del calcio professionistico, ciò che più colpisce di Simone Inzaghi è quanto sia normale. Sfogli decenni di articoli e ritagli e niente, mai che salti fuori un eccesso, una lite, una polemica. Guardi le sue foto di 10, 15, 25 anni prima e niente, è sempre uguale, stesse espressioni, stessa pettinatura (che se non fosse per qualche accenno di ruga, ci sarebbe da tirare in ballo Dorian Gray). E infine lo senti parlare e niente, un rosario di cento vocaboli che si rincorrono, facile prevedere che non finirà nel girone dei grandi oratori o dei medi affabulatori. In quanto essere umano, insomma, Simone Inzaghi è davvero uno normale. (cit.)

Ascolta “Uno scontrino lungo 6 metri” su Spreaker.

Ma adesso che ha collezionato la sua panchina numero 200 in nerazzurro (quando alla fine della sua quarta stagione mancano ancora due mesi e mezzo) (il Mondiale manco lo conto) (il che dà l’idea della mostruosità di partite che giochiamo ogni anno), ecco, adesso possiamo dire che il normale Simone non è ufficialmente più normale, almeno per noi. Prima di andare in vacanza a stagione finalmente conclusa, Simone Inzaghi (che in questo momento è sesto) diventerà il quarto allenatore di sempre della storia dell’Inter per presenze in panchina (gli rimarranno davanti solo Herrera, Mancini e di poco il Trap); il secondo per presenze nella competizioni Uefa; il terzo nella competizioni internazionali nel loro complesso. Quanto ai trofei, è già ora terzo perchè ne ha davanti solo due: ne basterebbe uno per diventare primo a pari merito con Herrera e Mancini, due per diventare il primo assoluto nella storia.

Continuerà la sua, di storia? Sarà il nostro allenatore anche l’anno prossimo? Non cederà all’ambizione di andarsi a misurare altrove? Magari in un posto dove (tanto per citare uno dei suoi candidi, placidi, teneri sfoghi; l’ultimo, quello di martedì sera) ogni tanto gli facciano un complimento?

In questi quasi quattro anni, per dirla à la Facebook, abbiamo avuto con il nostro Demone una relazione a tratti complicata, rimproverandogli errori e omissioni con una puntualità e una leggera protervia che – forse ha ragione – non abbiamo sempre avuto nel sottolineare i suoi meriti. Tipo l’altra sera, che aveva da giocare un ottavo di Champions certo non impossibile ma comunque insidioso, aveva un po’ di giocatori fuori e altri traballanti ed è riuscito nell’impresa di farci trascorrere una serata tutto sommato serena facendo un turnover quasi occulto in vista di Bergamo. Per un’ora (poi è entrato il Basto) non erano contemporaneamente in campo Lautaro, Barella, Bastoni e Dimarco, cioè quattro nei nostri migliori sei-sette giocatori, quelli cui non rinunceresti mai. Lautaro e Barella non sono nemmeno entrati un minuto, un evento miracoloso. Gli ultimi dieci minuti li ha fatti giocare a due ragazzi all’esordio. Per 90 minuti il capitano è stato Dumfries, uno trattato per un po’ da sottosviluppato (da noi tifosotti) e diventato di recente il Papa Nero (per noi tifosotti). Così, sottotraccia, in un ottavo di Champions comodo ma non scontato, Inzaghi ha festeggiato le sue 200 panchine.

Prima di vincere lo scudetto, il Demone rischiava di passare alla nostra storia come un collezionista di coppette che aveva regalato uno scudetto al Milan. Il che non si può negare, certo. Ma quel che ogni tanto gli piacerebbe fosse fatto notare è ciò che ha messo nel frattempo sull’altro piatto della bilancia: un impianto/sistema di gioco che ci ha fatto venire i lucciconi, noi storicamente abituati all’essenziale; un ritorno all’élite europea, con una finale di Champions e un profilo ormai stabilmente prossimo all’eccellenza (Bayern-Inter è di fatto il quarto di finale più equilibrato della Champions 2024/25, e non è il Bayern a essere sceso di livello); lo scudetto della seconda stella vinto come meglio non si sarebbe potuto, un capitolo indelebilmente eccelso dell’interismo.

E poi c’è un bene immateriale: la gestione del gruppo che ha avuto via via a disposizione, di alto livello ma valorizzato complessivamente con alcuni strabilianti picchi riguardanti certi singoli. In questi quattro anni ha avuto a disposizione un ottimo materiale umano (Lautaro, Barella e Bastoni se li è trovati lì belli e pronti) sapendo guidare certi meravigliosi percorsi di crescita (Calha, Dimarco, Dumfries), sfruttare la valangata di parametri zero (alcuni dati in premessa per persi/moribondi/già morti: l’elenco è lungo) e fare molte volte di necessità virtù. Il tutto sempre con uno spirito di servizio totale, con quel tono da uno che non vuole disturbare e che sembra perennemente passato di lì per caso, tipo quando si presenta ai microfoni nel dopopartita e 90 volte su 100 potresti anticipare quello che dirà parola per parola. Perché è uno normale, in fondo, pur non essendolo per nulla in quello che fa. E come lo fa.

E in effetti queste 200 partite se ne sono andate via in fretta, giocando ogni tre giorni, aspettando frementi quella successiva, in quell’entusiasmo bambinesco che noi tifosotti abbiamo di default e che qualche volta ci fa dimenticare da dove siamo venuti e cosa abbiamo passato. Non c’è nulla di eterno, e tra le cose meno eterne ci sono gli allenatori di calcio. Però spero di vedere ancora per un po’ Inzaghi spuntare dal lato inferiore del televisore mentre si sbraccia e saltella e urla cose e puntualmente esce dall’area tecnica, la sua vera e unica trasgressione tecnica e umana. “Cazzo Simo, ti ammoniscono!”, faccio io ogni volta uscendo dall’area tecnica del mio divano sventolando l’Orociok come un cartellino. Lo ammoniscono. E io ogni volta lo abbraccerei, perché gli voglio bene.

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Dentro a tutto, nonostante tutto

Ci si muove perennemente su un terreno pieno di insidie. Succede anche se hai vinto all’andata in trasferta 2-0 contro una squadra, come dire, non tra le più forti d’Europa. E quindi ti siedi sul divano dominando l’agitazione e pensando tra te e te “primo obiettivo, che nessuno si faccia male” e nell’esatto momento in cui i tuoi glutei incontrano il cuscino vieni a sapere che De Vrij si è fatto male nel riscaldamento. La modalità “dieci piccoli indiani” quando si innesta non la togli più. Per fortuna poi la serata è andata via piuttosto liscia. C’è spazio anche per i buoni sentimenti: Dumfries capitano (la fascia sulla maglia n. 2), i due bambini messi dentro nel finale, cori, applausi, sollievo.

La sensazione generale è di una squadra che sì, per carità, continua con una certa costanza a perdere pezzi, ma sembra contemporaneamente stare meglio, il che potrebbe sembrare una contraddizione ma non lo è, o comunque è un’evoluzione affascinante. Thuram, che è uno di quelli che dovrebbe stare così così, risplende di luce propria. A centrocampo i più bolsi stanno ritrovando ossigeno. Sulle fasce i superstiti viaggiano che è una meraviglia. Boh, a rovistare con un po’ di impegno le sensazioni positive si trovano eccome.

Siamo ai quarti di Champions con il Bayern, una sfida proibitiva che ci spaventa ma alla quale arriviamo con un ruolino di marcia che dovrebbe spaventare un po’ anche gli altri. Nel frattempo domenica ci giochiamo il campionato a Bergamo, in attesa di rigiocarcelo ogni volta nelle nove partite che mancheranno alla fine. Con fatica, sudore e stampelle siamo dentro a tutto. Che potrebbe diventare niente, certo. Ma intanto ci siamo, siamo qui, ancora dentro a tutto ed è bellissimo (provate a chiederlo al Liverpool se non è così). Siamo così dentro che, in teoria, potremmo giocare a Monaco due volte in un mese: non è, in teoria, meraviglioso?

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Zero-due

Oggi mi è capitata una cosa incredibile: ho visto tre partite (due un po’ a spezzoni, una intera) (indovinate quale) vinte tutte per 3-2 dalle squadre che erano andate sotto 0-2. E’ pazzesco. Ci sarebbe anche una quarta partita quasi uguale (ne ho visti solo 5 minuti), vinta 3-1 dalla squadra che era andata sotto 0-1, una partita speculare alla nostra, la prima contro l’ultima, Liverpool-Southampton. Ma si giocava quasi in contemporanea alla prima di quelle che volevo vedere e quindi ne ho raccolto solo qualche frammento facendo zapping. Il Liverpool (con due partite in più) è a +16 sull’Arsenal e sono contento.

La partita che volevo vedere nel primo pomeriggio era Bayern-Bochum. Lo so, non si dovrebbe fare, noi il turno non l’abbiamo ancora passato e nemmeno loro, ma mi sono detto: perché no? Stadio strapieno, atmosfera da festa annunciata (il Bochum è terzultimo, il Bayern primo ha 8 punti di vantaggio sul Leverkusen secondo), tutti molto rilassati in campo e sugli spalti, vanno avanti 2-0 e pure con un rigore sbagliato, forse pensano di vincerla 10-0 con quattro o cinque dei migliori tenuti in panca, poi un tizio si fa sbattere fuori per un fallo un po’ casuale ma molto brutto e bòn, 2-1, 2-2, 2-3. Il Bayer Leverkusen, per par condicio, perde in casa con il Werder. Martedì sera, in Champions, ci sarà Bayer-Bayern. Uhm, mi sono detto.

Ascolta “Fonetica polacca” su Spreaker.

Poi vabbe’, ho visto il Milan. Cioè facevo altro, ma avevo la tv accesa. Mi piaceva osservare El Sigaro soffrire di brutto (i gol annullati per qualche centimetro, poi i due presi dal Lecce), mi pregustavo la scena di lui che svuota l’armadietto e la contestuale rinvincita di Giampaolo, ma poi hanno ribaltato e vinto. Uhm, mi sono detto.

Poi ho visto Inter-Monza. Sullo 0-2 ho avuto pensieri di terrore, morte e distruzione (cit. ex padrone del Monza). Capita di prendere due gol della madonna da chi proprio non te l’aspetti (il Monza in generale e il Correa nero in particolare), capita (a noi spesso) di creare opportunità e non sfruttarle. Poi tutto si riallinea e la vinciamo. Porca puttana, mi sono detto.

Abbiamo perso il solito anno di vita e aggiunto tre punti alla classifica, per cui adesso è inutile stare qui a discutere su quanto siamo stati distratti prima e bravi poi, o a farci le pippe sugli highlights. A questo punto della stagione – meglio: a questo punto di questa stagione micidiale e anomala – non esistono più Monza o Real, Lecce o City, Bochum o Barcellona: esistono partite, punto. Da vincere, punto. E perciò, in questo senso, tutte uguali, che tu abbia davanti Salah o Baschirotto, Vinicius o Birindelli. Cambia solo il copione delle difficoltà. Una partita che fili liscia dall’inizio alla fine sarà solo un gran colpo di culo. La fatica, invece, sarà la regola.

Per portare a casa tre punti in casa con l’ultima in classifica, già placidamente rassegnata alla retrocessione, abbiamo speso tanto, troppo, e questo è il costo extra che si rischia di pagare anche quando meno te lo aspetti. Abbiamo tre punti in più ma abbiamo perso Zielinski (per quanto?) e siamo tutti qua a messaggiarci come quindicenni in ansia: hai visto Lautaro? Si toccava la coscia, vero? Non si è fatto niente, vero? VERO?

E siamo solo all’8 marzo. Anzi, al 9. Cioè, prendete me: ormai ho una certa. E’ vita?*

(*sì)

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La Champions ci fa belli

E’ il 5 marzo e l’Inter gioca a Rotterdam la sua quarantesima partita stagionale. E la vince: è la vittoria numero 27. Poi 8 pareggi e 5 sconfitte. Vinciamo 2 partite su 3, ne perdiamo una ogni 8. Non è un cammino immacolato ma è un cammino notevolissimo: 17-7-3 in campionato, 2-0-0 in Coppa Italia, 1-0-1 in Supercoppa d’Arabia, 7-1-1 in Champions.

7-1-1 in Champions, con una sola rete subita (al 90′) in 9 partite. Dopo quelli con City e Arsenal, possiamo aggiungere anche il clean sheet di Rotterdam alle imprese di questa Champions fin qui strepitosa: un clean sheet in una partita piena di pressioni, in emergenza di formazione e in uno stadio torrido. E con una squadra fortissima, che aveva addirittura eliminato il Milan!

(dai, scherzavo)

E alla quale non avevamo nemmeno comprato il centravanti per indebolirla!

(questo è vero)

A parte queste quisquilie, è stata una prova di maturità e anche di prestanza fisica. La maturità di non perdere mai la testa nella bolgia e la prestanza fisica da dimostrare quando ormai stai per diventare l’icona europea della stanchezza. La maturità, anche, di non fare troppo caso allo stato d’emergenza e di occuparsi di cose immediate e importanti: tipo vincere.

Ascolta “Puntata jaja jaja” su Spreaker.

Peccato per il rigore, poteva essere un 3-0 che ci avrebbe lasciati ancora più tranquilli e avrebbe reso a cifra tonda il conto complessivo dei gol subiti in casa dalle due squadre che agli spareggi avevano ridicolizzato Juve e Milan. Niente, dovremo far tesoro di soli due gol. E’ il primo tempo, ha detto il Demone, e dobbiamo giocare il secondo. In mezzo ci sarà il Monza (mentre a loro è stato concesso di rinviare il match di campionato), partita fondamentale (una specifica ormai inutile: sono tutte fondamentali le partite che ci restano, tutte).

Una menzione per Bastoni, che ha fatto il Dimarco con giudizio e con crescente efficacia (Bastoni è un top player). E poi per Thuram, che ha giocato con una gamba sola. E per i due olandesi, che nella loro Rotterdam hanno fatto un figurone. E per Barella. E per Lautaro. E per (aggiungi un nome a tuo piacimento).

Da domani si resetta e si riparte. Non è la solita banalità del tipo che da qui in poi sono tutte finali. E’ proprio così, succede ormai da un mese e mezzo che ci capita di fare tutto e il contrario di tutto anche a distanza di poche ore. Resettare diventa una necessità per ripartire. Fino alla pausa bisogna andare dritti all’obiettivo. Dopo la pausa, ci aspetta un mese di aprile che al confronto l’ironman è ‘na passeggiata de salute.

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La corsa (scudetto) all’indietro

Napoli-Inter si presterebbe a così tante considerazioni che per fortuna è finita in pareggio, concedendo – a chi la vuole – l’impressione che non sia successo niente. Non sarebbe proprio così se l’Atalanta, come da pronostico più che ovvio, oggi avesse vinto col Venezia: la classifica adesso sarebbe Inter 58, Napoli e Atalanta 57, la classifica cioè di un campionato che imbocca la fase finale con scenari indeterminati ed equilibri tutti da trovare. Ma non è andata così a Bergamo, e per ora l’Atalanta resta gradino sotto. Lo strano trio continua così la sua corsa, anzi no, la sua passeggiata verso lo scudo. L’Inter che procede a sbalzi, si ferma e poi riparte. Il Napoli che non vince da fine gennaio (4 pareggi e una sconfitta nelle ultime 5). L’Atalanta che non vince in casa da prima di Natale (22 dicembre). Queste sono, oggi, le prime tre in classifica. No, non è una corsa scudetto. E’ una gita scudetto. Un trekking scudetto. Un hop-on hop-off scudetto. Queste tre disgraziate hanno fatto persino rimontare in classifica una delle Juventus più oggettivamente sconclusionate degli ultimi decenni, travolta in Champions dal Psv e scherzata in Coppa Italia dall’Empoli. Se questa squadraccia lunedì vince con il Verona, blinderà il quarto posto e salirà a tre punti dall’Atalanta. Colpa delle prime tre che da settimane cincischiano.

Ascolta “Il bicchiere mezzo boh” su Spreaker.

E noi, noi tifosotti, cosa diciamo di questa Napoli-Inter? Dopo il penultimo scontro diretto (ci resta l’Atalanta il 16), a 11 giornate dalla fine, restiamo ancora davanti a tutti. Si giocasse con gli algoritmi, il Napoli da qui in poi avrebbe solo l’imbarazzo della scelta su come e quando superarci: incontrerà solo squadre dal sesto posto in giù, sei in casa e cinque fuori, in un calendario che sembra un red carpet. Ma proprio il Napoli, che non vince da sei partite, così come l’Atalanta, che in casa continua a pareggiare contro chiunque, ci insegnano che da qui in avanti le partite vanno giocate e non c’è più nulla di scontato.

E quindi, ‘sta Napoli-Inter? Andando direttamente alla sezione “bicchiere mezzo vuoto”, dobbiamo prendere nota dell’ennesimo gol preso nel finale, della benzina che a un certo punto scarseggia, dei pezzi che continuiamo a perdere, del fatto – lo ha detto il Demone – che gli altri sono quasi sempre più freschi di noi. Il secondo tempo è stato un calvario: uscito Dimarco e finiti, con lui, i laterali sinistri, Inzaghi ha ridisegnato la squadra in un assetto d’emergenza in cui almeno 4/5 giocatori non erano al loro posto. Nella sezione “bicchiere mezzo pieno”, io personalmente mi sono appuntato alcune cose sullo spirito e l’abnegazione della squadra (capolavoro Dimarco, strepitoso Bastoni) nella partita-chiave forse dell’intera stagione: missione quasi compiuta, peccato. Ma non si molla niente: certo, in questo remake di “Dieci piccoli indiani” diventa difficile fare progetti a lungo termine. Bisogna andare avanti partita dopo partita, fare la conta tra abili e ammalati e guardare a quello che accade altrove: è durissima, ma le difficoltà non sembrano ancora spaventarci.


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La Grande Cautela

13 Roma
12 Juventus
11 Atalanta
10 Milan
10 Udinese
8 Lazio
8 Bologna
8 Torino
7 Inter
7 Genoa
7 Verona
6 Napoli
6 Fiorentina
6 Como
5 Lecce
4 Cagliari
3 Parma
1 Empoli
1 Monza
1 Venezia

Questa è la classifica del campionato italiano di Serie A relativa alle ultime 5 partite giocate. Come da etichetta, ho messo prima il cartello perché nessuno potesse essere impressionato da una visione così, de botto, senza avvertenza. Arriviamo da una decina di giorni meravigliosi, in cui abbiamo assistito ai disastri altrui (due, epocali, della Juve) (due anche del Milan, anzi tre) e ci siamo ritrovati primi in classifica quando eravamo al solito sull’orlo del moriremo tutti. Ma, appunto, ora è meglio posare i pop corn e ritrovare un po’ di sano realismo. Questa classifica è un piccolo ma significativo bagno di realtà.

Ascolta “Trovate i biglietti su Ticket One” su Spreaker.

Una classifica che ci vede al nono posto insieme a Genoa e Verona, vabbe’, è piuttosto straniante. Del resto lo è anche il fatto che le prime due della classifica siano nona e dodicesima, che una (il Napoli) non vinca da un mese e l’altra (l’Inter) abbia perso più partite nelle ultime cinque che non nei nove mesi precedenti. Lasciamo perdere, tra quelle che ci precedono, le squadre che fanno un campionato a parte (Roma, Milan, Udinese, Lazio, Bologna e Torino), e dominiamo gli istinti nell’osservare che la Juve a febbraio ha fatto 5 punti più di noi (nelle coppe fa sganasciare dal ridere, ma in campionato ha vinto le ultime 4 ed è rientrata alla grande in zona Champions). Bene, occupiamoci dell’Atalanta.

Sabato alle 15 l’Atalanta affronta il Venezia in una tipica partita da 1 fisso, mentre noi e il Napoli ci scanneremo al San Paolo. Sabato sera alle 20 il duello, con tutta probabilità, sarà diventato ufficialmente un triello.

In questo triello, Napoli e Atalanta giocheranno minimo 4 partite meno di noi tra marzo e aprile, che diventeranno 6 se noi passeremo gli ottavi con il Feyenoord (il mese di aprile, in caso positivo, sarà folle: due partite col Milan e due tipo col Bayern). Il Napoli, dopo il big match, avrà un calendario molto ma molto morbido (quello dell’Atalanta fino alla metà inoltrato aprile è bruttarello, prima di un finale in netta discesa). Il nostro, di calendario, non ho parole per definirlo (le avrei, ma non le dico).

Vabbe’, siccome sono dieci giorni che spargiamo il nostro seme ogni dove, mi sembrava giusto ricondurre tutti all’ordine. Sono cazzi, ma non si molla niente.


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Glielo ha messo lui

Cioè, ci sono rimasto secco. Glielo ha messo lui. E la palla respinta dai difensori della Lazio sul cross di Dimarco è finita proprio lì e lui, nemmeno con piede preferito, tac!, ha fatto il gol dell’anno.

Mentre scorrevano i replay del golazo di Arnautovic, a un certo punto mi sono chiesto: “Ma che cazzo ci faceva lì Arnautovic, su un’azione da calcio d’angolo, lui, una punta da 1.92, vagolante a venti metri dalla porta invece che al limite dell’area piccola a tirare spallate, prendere posizione, cercare l’incornata, la spizzata o un bel tagliafuori?”.

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E niente, me ne sono fatto una ragione nel giro di qualche secondo. E’ un gol perfettamente intonato a quanto è cazzone Arnautovic – mi sono detto – nel bene e nel male, nel talento e nella farloccaggine, nei colpi da campione e nella sua tenera inaffidabilità, come quando si era fatto rubare la Bentley che gli aveva prestato Eto’o. Passeggiava, ha incrociato la palla vagante, tiro al volo a occhi chiusi, gol. Meraviglioso. Non ci ho più pensato fino alle interviste post-partita, quando Massimo Mauro ha fatto a Simone Inzaghi la stessa identica domanda che gli avrei fatto io: “Scusa, ma cosa ci faceva Arnautovic appostato a 20 metri dalla porta su un calcio d’angolo? Ci è andato lui o glielo hai messo tu?”. E il Demone, che è tutto tranne che uno sborone, gli ha risposto candido: “Gliel’ho messo io. Stamattina abbiamo provato le palle inattive e gli ho detto di mettersi lì dove di solito sta Barella”.

E lì ho capito che Inzaghi, dietro quella sua aria da bravo ragazzo passato di lì per caso, non molla un cazzo. No, perchè in questi giorni si era aperto un dibattito tipico da tifosotti: ok, usciamo alla Coppa Italia che ci frega il giusto e concentriamoci sul resto, ci manca solo che adesso ci infogniamo a fare altri due derby, ma manco morti, eh! E invece no, anche con 9 undicesimi della formazione tipo dispersa tra panca e infermeria, e con tutte le difficoltà annesse e connesse, compresa quella di affrontare una squadra che il turnover non l’ha fatto, abbiamo onorato l’impegno.

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C’era lo stadio pieno, c’era voglia di Inter, la voglia che c’è sempre. Non si poteva che fare così, giocarsela e cercare di vincerla. E l’hai vinta con Arnautovic che fa il fenomeno e con Correa che si procura il rigore, una formidabile risposta del gruppo nel suo insieme, dal primo all’ultimo. Con Martinez che fa il suo terzo clean sheet su tre, con Frattesi e Taremi che giocano con l’antidolorifico (e rischiando il linciaggio, l’iraniano), con Darmian che allunga la lista ormai strabordante di quelli infortunati o che comunque non stanno molto bene. Tutto questo a quattro giorni dalla sfida scudetto e con davanti le due settimane in cui ti giocherai tutto.

Siamo l’unica squadra italiana ancora in corsa per tutto. E si può essere laceri e/ contusi, stanchi e quasi in riserva, ok, ma se sei ancora in corsa per tutto non puoi essere depresso. E questo è un lusso per pochi.

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Facce

A me più di tutto, alla fine di Inter-Genoa, restano impresse le facce. Facce affaticate, preoccupate, tese, stravolte. Quando a Lautaro hanno dato la coppetta del migliore in campo, ha posato per il fotografo senza sorridere, come se gli avessero consegnato una multa per divieto di sosta. Dimarco sembrava lo zio di Dimarco. A Calha hanno fatto un primo piano che sembrava sfinito, ma era entrato da dieci minuti. Quando è finita la partita, Inzaghi pareva più vecchio di due anni. Abbiamo vinto, ma poteva anche non andare così: perché il Genoa corre ed è in forma, ha una classifica tranquilla e la mente sgombra. Cioè, era una mina vagante sul nostro già incerto cammino. Non è un caso che la si sia vinta con un gol sporco. Un gol accidentato, intonato alle facce.

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Ora, perché quelle facce? Sarà stata la pressione di dover vincere dopo aver perso due delle ultime tre? O quella di giocare il giorno prima del Napoli, con il terrore di stendergli il tappeto rosso in caso di risultato negativo? O sarà che siamo stanchi davvero, nonostante si arrivasse da due settimane senza turni infrasettimanali, due settimane per noi cioè inconsuete, per non dire di tutto riposo? Ognuna delle ipotesi porta con sè le sue inquietudini, ma l’ultima parecchie di più. Perchè stiamo per entrare nel ciclo di partite più difficile che ci sia capitato finora, probabilmente decisivo per il campionato ma anche per le coppe (dentro o fuori, tertium non datur). Tra il 25 febbraio e il 16 marzo – sono venti giorni tondi tondi – giocheremo sei volte: Lazio (Coppa Italia), Napoli, Feyenoord, Monza, Feyenoord, Atalanta.

Il tipo di partite come Inter-Genoa diventerà sempre più la norma. Partite da giocare con i nervi, sperando che le gambe reggano. Partite sempre più difficili da classificare, perché a livello di tensione e di dispendio fisico inizieranno ad assomigliarsi un po’ tutte, con l’asticella che salirà sempre più in alto. Partite in cui aver pazienza mentre il tempo passa e il pubblico mormora, in cui tenere botta mentre le energie si disperdono, in cui restare lucidi dentro una bolgia. Forse non è un caso che le ultime tre partite a San Siro le abbiamo vinte (Monaco, Fiorentina, Genoa), attingendo dal tifo le energie in più. Ne abbiamo giocata una quarta a San Siro, il derby fuori casa, e anche quella è stata comunque una partita sopra le righe, rimediata all’ultimo respiro dopo tre pali a portiere battuto. Non è un caso che le ultime due fuori casa (Fiorentina e Juve) siano state un disastro: forse è un momento così, abbiamo bisogno di una comfort zone mentre le certezze vacillano.

Non è un discorso incoraggiante a sei giorni dal big match con il Napoli che giocheremo laggiù, a 800 km dal nostro nido. Forse è lì che il Demone deve lavorare, in quell’emisfero del cervello dove orgoglio, concentrazione e un po’ di sana garra devono tornare a fare corto circuito. Quando alla fine i conti tornano, certe facce fanno un po’ meno impressione. Anzi, sono facce da film. I film venuti bene, che poi ti ricordi e rimugini sulla trama e pensi che vabbe’, per 90 minuti sei saltato sulla sedia ma ne è valsa la pena.

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