Due alla volta

In serie A, dopo 7 giornate, c’è una sola squadra che non ha mai vinto, il Monza; una sola squadra che non ha mai pareggiato, Verona; una sola squadra che non ha mai perso, la Juve. La Juve, in più, è la squadra che ha subito meno gol: uno, su rigore. Quindi, in 7 giornate non ha mai perso nè preso gol su azione. Eppure è un punto dietro di noi, dietro la sgarrupata Inter che ha segnato sei gol in più ma ne ha anche presi otto in più, cioè nove. La preoccupante Inter che ha 4 punti in meno rispetto alla stessa giornata dello scorso campionato (4-2-1 rispetto a 6-0-1) e 9 gol in meno di differenza reti (16-9 contro 19-3).

Ora, sempre tenendo conto che siamo alla settima di 38 giornate (sospiro) e che i paragoni con la nostra scorsa stagione vanno presi con le pinze (fare meglio sarà impossibile, quindi saranno quasi sempre paragoni in negativo, quindi perchè continuare a farli?), la questione dei gol è curiosa in generale e per noi interessante (meglio, inquietante). La Juve champagne di Motta non prende gol – oh, non ne prende proprio – però ne segna pochi e vince poco (3 vittorie in 7 partite, una sola in casa su 4 partite). Se noi siamo un po’ phsyco, loro sono quasi da Tso, perchè fanno 0-0 oppure vincono 3-0, non hanno mezze misure (a parte Juve-Cagliari 1-1-).

Ma chi se ne frega della Juve, parliamo di noi. Parliamo dei gol fatti, 16: 7 di Thuram (tre di testa, quattro di destro), 2 di Lautaro, 1 ciascuno di Darmian, Barella, Calhanoglu, Dimarco, Dumfries e Frattesi, più un autogol. Ma chi se ne frega dei gol fatti – quelli non sono un grosso problema -, parliamo dei gol subiti.

I gol subiti sono 9, che in sette partite non sono pochi. Ma la cosa peggiore è che per 4 volte su 7 ne abbiamo subiti due, di cui tre volte nelle ultime tre. La scorsa stagione (ok, va bene, ma qualche paragone bisogna pur farlo) abbiamo subito due gol in una partita per quattro volte IN TUTTO IL CAMPIONATO, non nelle prime sette giornate. La quarta volta che abbiamo subito due gol nella stessa partita era il 14 aprile (Inter-Cagliari 2-2). Quest’anno è successo il 5 ottobre.

L’altro fatto terribilmente inquietante è la ripetitività dei gol subiti. Quattro sono praticamente identici: cross da destra (zona tre quarti), colpo di testa, difesa ferma, gol: Genoa (quello dell’1-1. Variazione: colpo di testa, tutti fermi, traversa, ancora tutti fermi, arriva uno, gol), Monza, Milan (Gabbia) e Udinese (quello dell’1-1). Altri due molto simili: Pulisic e Zapata (palla persa, percussione centrale, maglie larghe – le nostre -, gol). Poi due rigori (Genoa e Torino) concettualmente e temporalmente simili: finale di partita (a Genova al 97′), movimenti goffi da pura deconcentrazione. Resta il secondo gol dell’Udinese, realizzato grazie a una prodezza (Lucca si è fatto 40 metri in contropiede resistendo al difensore e tirando in precario equilibrio) ma comunque originato da una palla persa male a centrocampo.

E infine il tempo: cinque gol su nove presi dall’80esimo in poi (quattro tra l’80’ e l’88’, uno al 97′), uno spicchio di partita in cui l’anno scorso eravamo praticamente invulnerabili. Gli altri: 10′, 20′, 34′, 35′. Quindi: nei 45 minuti tra il 35′ e l’80’ (praticamente un tempo) restiamo vergini (e abbiamo invece segnato sette volte. A proposito, dei 16 gol: 9 nel primo tempo e 7 nel secondo). Due soli clean sheet (l’anno scorso cinque) (ah già, i paragoni. Basta paragoni).

Quindi, al netto che mancano 31 partite (più altre circa duecento nelle restanti competizioni), la difesa è un problema che bisogna serenamente affrontare. Nelle 4 partite in cui abbiamo subito 2 gol abbiamo fatto 7 punti, che non è un disastro ma nemmeno una media scudetto. In proiezioni ti garantisce 65-66 punti: l’anno scorso con 65-66 punti arrivavi sesto dietro il Bologna e davanti alla Roma. E noi non siamo da sesto posto, e neanche da quinto, e neanche da quarto, e neanche da terzo.

Cioè, siamo da primo posto, ma con chi ce la giochiamo? A parte Juve e Milan, quest’anno c’è il Napoli. Ora, va detto che il Napoli ha avuto un calendario abbordabile (unica partita difficile la Juve fuori casa, 0-0), in casa è l’unica ad averle vinte tutte e avrà ora altre tre partite facili che potrebbero spingerla anche più in su (Como, Empoli, Lecce). Scusa, ma quando avrà quelle toste? Praticamente tutte in una volta: dall’11esima alla 17esima giornata affronterà Milan, Atalanta, Inter, Roma, Torino, Lazio e Udinese, un discreto ciclo che bisognerà vedere come supererà: se le vince tutte, chapeau. Sennò vediamo.

Noi abbiamo anche le coppe e il peso lo sentiremo tutto, anche se Inzaghi sta usando il bilancino come mai aveva fatto nelle precedenti stagioni. La nostra prova della verità sta tutta nei 21 giorni tra il 20 ottobre e il 10 novembre, sette partite tutte d’un fiato (Roma fuori, Young Boys fuori, Juve casa, Empoli fuori, Venezia casa, Arsenal casa, Napoli casa) prima i fermarsi ancora per le nazionali. La notte tra il 10 e l’11 novembre, al termine di Inter-Napoli, sarà il momento giusto per fare il primo vero bilancio della stagione 2024-25. Forse il momento in cui l’aggettivo prematuro lascerà il posto a realistico.

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Thu-Thu-Thuram

Il concetto di clean sheet sistematico ce lo dobbiamo dimenticare: per la quarta volta in nove partite stagionali – e, soprattutto, la quarta su sette partite di campionato – anche stasera con un Torino in dieci dal 19′ abbiamo preso due gol, un’enormità rispetto all’andazzo della scorsa stagione. C’è di buono che nell’ultima settimana ci siamo messi a segnare di brutto: 10 gol nelle ultime tre partite, alla media di 3,33 a partita che è proprio l’ideale per una squadra che spesso ne prende due. L’Inter è sempre un po’ malaticcia – ha le difese basse – ma gli anticorpi hanno preso a funzionare. Prendiamo due gol? E chi se ne frega, se ne segniamo tre.

Ascolta “Monsoni e distrazioni” su Spreaker.

Alla settimana-no (Monza, City, Milan: tre partite, due punti, due gol fatti, tre subiti) abbiamo fatto seguire la settimana sì (Udinese, Stella Rossa, Torino: tre partite, nove punti, dieci gol fatti, quattro subiti): mini-serie forse imparagonabili, visto che nelle prima c’erano due top team – il City e il Monza -, se non per la sensazione che l’Inter si stia finalmente calando nella nuova realtà, quella di una stagione in cui tutto va resettato e si deve ragionare diversamente, a cominciare dal coinvolgimento totale della rosa dove ormai non ci sono (quasi) più titolari e riserve nel senso tradizionale del termine.

Sotto un certo punto di vista, è un’esperienza interessante e appagante (se le cose vanno bene, ovvio). Vediamo in ogni partita un’Inter uguale nei meccanismi ma diversa nelle facce, il che ci allontana piacevolmente dall’idea di un undici titolare che magari nelle nostre povere menti resta quello, ma che ormai non vediamo più. Nella settimana precedente ‘sta cosa non era andata benissimo, in questa molto meglio. Si procede per amnesie (puntualmente punite con un gol preso: perchè, cosa abbiamo fatto?) ma ora ci si sta attrezzando, si rimedia, si ritrova il gusto del gol. La sensazione è che le cose stiano tornando a funzionare. E, naturalmente, al momento più opportuno, arriva la pausa per le nazionali.

Stavolta, però, la pausa segna uno stacco preciso tra il rodaggio e la stagione vera. Dal 20 ottobre al 10 novembre (prima, cioè, della successiva pausa) ci aspettano 7 partite, una ogni tre giorni: inframmezzate da Young Boys, Empoli e Venezia avremo Roma, Juve, Arsenal e Napoli e lì si vedrà di che pasta siamo fatti. Sette partite con sette Inter diverse: impanicato, ma non vedo l’ora.

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Fricchettoni e no

Quando nell’antistadio, mangiando un monumentale panino alla salamella con Max, ho visto apparire le formazioni ufficiali sul telefono e ho comunicato al mio socio di podcast che la coppia d’attacco da opporre alla Stella Rossa sarebbe stata composta da Taremi e Arnautovic, a entrambi è venuto istintivo prendere la birra e tirarne giù un paio di decilitri. In realtà, la suddetta coppia sarà la protagonista quasi assoluta della mia serata in termini emozioni, qualche santo (colpa di Arna) e considerazioni profonde sull’Inter: futuro, prospettive, criticità, valore intrinseco e arte del turnover.

Cambiare la coppia d’attacco è cambiare mezza squadra, così, come impatto visivo. Che poi la squadra in campo fosse stata davvero cambiata per (più di) metà da Inzaghi rispetto a tre giorni prima, ecco, questo per me era un fatto che non sussisteva: ero distratto da Taremi e Arnautovic e dalle loro gesta. La mia personale Arna-cam mi ha consentito di vedere all’opera un giocatore forse con qualche rotella fuori posto, ma che può dare il suo apporto alla causa (tradotto: l’ho mandato un paio di volte a quel paese, però non ha giocato male, per niente). Mi spiace non avere acceso più spesso la Tare-cam, ma va bene così perché alla fine ho rivissuto certe situazioni tipiche del basket, quando ti chiedono come ha giocato Tizio e tu dici “mah, si è visto poco” e loro ti fanno notare che “veramente ha preso 12 rimbalzi, servito 6 assist, subito 8 falli, recuperato 3 palloni” e tu dici “ah”.

Ascolta “La banda degli onesti” su Spreaker.

Queste partite di pura sostanza, quelle di Taremi, sono il vero potenziale valore aggiunto dell’Inter, che un giocatore così non ce l’aveva e adesso ce l’ha. Un Taremi in squadra ti consente di riconsiderare il peso di Arnautovic, un fricchettone col senso del gol, un’opzione creativa e sostenibile perchè c’è anche Taremi. Cioè, l’anno scorso con due personaggi borderline – un gangster sudamericano e un fricchettone austriaco – non potevamo dormire sonni tranquilli. Ma quest’anno c’è Taremi, ecco. E a me piace anche Zielinski, mi piace dai tempi di Empoli. Mi piacciono quelli che entrano e si sentono subito parte di un meccanismo.

Alla fine abbiamo vinto 4-0 una partita di Champions schierando un’Inter molto alternativa, con quattro dei giocatori migliori fuori (Lautaro, Barella, Thuram, Dimarco) eppure senza quasi accorgercene, perchè il meccanismo di cui sopra funziona più o meno bene sempre, soprattutto se le teste sono ben sintonizzate sull’obiettivo, e l’altra sera lo erano. Io allo stadio mi metto quasi sempre dietro la porta perchè voglio vedere l’Inter da una visuale alternativa rispetto al divano. E da lì sì, mi sembra che giri tutto bene, che ci si trovi a meraviglia. Che poi le mie tre ultime partite a San Siro siano tutte finite con le stesso risultato – 4-0 per noi – mi mette in pace con il mondo. Non so che questa serie sia destinata a continuare, e per quanto: se però siete scaramantici e volete a tutti costi cedermi il vostro abbonamento al primo rosso, beh, contattatemi in privato.


(è ormai riaperto da giorni e giorni – vabbe’, non proprio: diciamo giorni, qualche giorno – l’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #78. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. L’Inter soprattutto, poi la Juve, il Milan. Anche che moriremo tutti, per dire.

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Il gambino (e il cervelletto)

Tutto il buono e il cattivo che oggi l’Inter può esprimere si è visto a Udine, come fosse stato mostrato in diretta tv il catalogo dei nostri pregi e dei nostri difetti attuali. Soprattutto il buono, perchè una partita teoricamente non facile (e complicata dalle paturnie post-derby) è stata sostanzialmente dominata e se il primo tempo fosse finito 3-0 non ci sarebbe stato niente da dire. E anche il secondo tempo è stato buono, a tratti ottimo, e se la partita fosse finita 5-0 non ci sarebbe stato niente da dire.

Ma è finita 3-2.

L’abbiamo vinta, e questo è l’importante. Lautaro finalmente è tornato a segnare, è questo forse lo è anche di più. Sulla difesa – meglio, sul come difendiamo – invece non ci siamo: 7 gol subiti in 7 partite (non è un disastro, per carità, ma questa squadra sa fare mooooolto di meglio) ci dicono che non siamo più la corazzata che eravamo la scorsa stagione.

Ascolta “Doppio scoop!” su Spreaker.

In tre di queste sette partite (tre su sei, la metà, restando al campionato) abbiamo subito due gol (1 vinta, 1 pareggiata, 1 persa), un’altra cosa che l’anno scorso era rara e invece oggi si sta ripetendo quasi al ritmo di una partita sì e una no. E oggi, per vincere, abbiamo dovuto segnare tre volte: che è un bel vedere, ma non è detto che ci riesca sempre.

Ammetto: al gol dell’1-1 ho pensato male. La quasi-replica del gol di Gabbia, tutti fermi, una roba brutta. E’ anche la riprova – guardando e riguardando l’azione – che c’è davvero un qualcosa di mentale a frenare certi meccanismi. Qualcosa simile al braccino. In questo caso, il gambino. I movimenti giusti che non partono. Quell’attimo in cui decidi di stare a guardare invece di intervenire, sperando di sfangarla. Eh, a volte non la sfanghi.

Anche questo va sottolineato: non la sfanghiamo quasi mai. La percentuale di errori puniti duramente è molto alta. Cioè, il fattore C non ci ha salvato quasi mai. Anche in questo possiamo pensare di migliorare (anche se non dipende da noi). Sul resto ci dobbiamo sbloccare: Lautaro ci ha messo un po’, adesso tocca all’ingranaggio generale. Se qualcuno ha dello Svitol cerebrale, please, lo porti direttamente ad Appiano.


(è ormai riaperto da giorni e giorni – vabbe’, non proprio: diciamo giorni, qualche giorno – l’angolo Podcast, giunto all’episodio #77. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Volete che vi suggerisca un argomento a caso? Boh, tipo l’Inter.

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Non essere sul pezzo

Assistere alla metamorfosi di due squadre nel giro di quattro giorni è un evento piuttosto raro. Il Milan visto con il Liverpool sembrava una squadra di morti, un’accozzaglia di gente disperata in attesa che l’arbitro finalmente fischiasse la fine. L’Inter di Manchester aveva dato una lezione di calcio, di organizzazione, di estrema confidenza nei propri mezzi. Si potrebbe concludere che è il bello del calcio e che per fortuna non sempre le cose vanno come da pronostico, sennò sai che due coglioni. Purtroppo, però, era il derby. E purtroppo lo ha perso l’Inter, resuscitando il Milan, un contro-filotto da tragedia.

Ascolta “Da derby a derby” su Spreaker.

Anche aver subito 12 tiri, di cui 8 in porta, in una sola partita è un evento piuttosto raro per l’Inter. Così come aver visto Inzaghi sostituire tutti e tre i suoi centrocampisti – quelli super ultra iper titolari -, un evento davvero simbolico, estremamente indicativo di quanto problematica sia stata la serata. Un’ora prima della partita, quando sono arrivate le formazioni ufficiali e ho visto che il Milan si schierava con quattro punte mi sono detto: vabbe’, Fonseca vuole accelerare i tempi. E quando la partita è iniziata, e il Milan è partito a velocità doppia e ha segnato mi sono detto: questi rifanno Milan-Liverpool, poi scoppiano e noi passeggeremo sui loro cadaveri.

Ok, mi sono detto un po’ di stronzate, questo è chiaro.

Ma a parte questo: cosa ci è successo di preciso? In quattro giorni, poi. Perchè con il Milan abbiamo fatto l’esatto contrario del match con il City: poco mordente, idee confuse, atteggiamento a tratti passivo, sbandamenti difensivi, un disastro. E l’avremmo anche potuto vincere, ‘sta partita, perchè il miracolo di Maignan su Thuram ci ha impedito di andare al riposo sul 2-1 e chissà. Ma se già nel primo tempo era stata un’Inter inspiegabilmente fuori fuoco, nel secondo tempo è stato un mezzo disastro.

In questo primo mese di stagione ci siamo già smentiti un sacco di volte, alternando grandi partite a prestazioni un po’ così. Sembrava che fossimo sul pezzo più nei match importanti che non contro le piccole, ma aver fallito in questo modo un derby giocato in casa rimescola ulteriormente le carte. Anche le nostre facili ironie (occhio al Milan, è una piccola) ci sono tornate indietro tipo boomerang: con una piccola puoi anche perdere, ok, ma non in questo modo. E quindi?

Beh, ragazzi, nel premettere che non moriremo tutti – almeno a stretto giro – e che siamo ancora a settembre (quindi suicidarci collettivamente mi sembra un’iniziativa quantomeno prematura), restiamo ai fatti e alle crude cifre: su 6 partite stagionali (5 di campionato e 1 di Champions) ne abbiamo vinte solo 2. In campionato siamo sesti. Forse quella cosa là che ci aveva un po’ offesi – la cosa della fame che non abbiamo più – magari non è vera, ma non è nemmeno così da prendere sotto gamba. Perdere un derby ci sta, la legge dei grandi numeri iniziava a chiederci il conto. Ok, perdere un derby ci sta, quindi. Ma perdersi, perdersi in un derby fa girare assai le palle.


(si riapre l’angolo Podcast, giunto all’episodio #76 e varcato l’anno di vita così, senza dire nulla. Con il mio socio ex aspirante pensionato (ora pensionato ebbasta), il mitico Max, attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355. Avevamo iniziato con un derby – vinto 5-1 – e ripartiamo con un derby. Vabbe’, non è che tutto può sempre andare benissimo.

(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)

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Essere sul pezzo

Secondo schemi tecnici e mentali che, come ho scritto due post fa, quest’anno (con una stagione lunga quasi 11 mesi e quasi 60 partite) sono improvvisamente invecchiati, dovremmo dire che l’Inter a Manchester, col City (!), ha giocato facendo ricorso a un ampio turnover, schierando quattro giocatori (tre per scelta tecnica, uno per infortunio) che non appartengono a quella che tutti consideriamo la nostra formazione-tipo, l’unica teoricamente adatta ad affrontare Rodri e compagnia bella. E invece, appunto, Simone Inzaghi ha applicato a Manchester City-Inter – la partita più difficile della prima fase di Champions e una delle partite più difficili in assoluto che si possano giocare oggi, in casa di una delle due squadre più forti del mondo – il sistema di gestione della rosa che cancella quello che normalmente chiamiamo ancora turnover. Il turnover esisterà ancora, solo che dobbiamo alzare l’asticella: ne cambi setto o otto, allora sì, è turnover. Il resto non lo è più e non lo dobbiamo più considerare tale. Con 60 partite da giocare, la formazione tipo è solo una carta da giocare, ma non è più la regola e non la deve più essere.

La cosa più bella della partita con il City è che i quattro presunti non-titolari hanno fatto tutti una buona partita, alcuni ottima. Il confine tra passare per un genio o per un coglione, in questi casi, è molto labile. Ma quello che è certo è che le scelte di Inzaghi sono state tutte azzeccate: Carlos Augusto – scelta obbligata – e Bisseck hanno fatto il loro, Taremi e Zielinski hanno fatto un partitone. I due nuovi, in particolare, ci regalano la bella sensazione di avere non due semplici opzioni in più, ma due titolari fatti e finiti. E il non-più-turnover passa esattamente da qui: da non avere 11 titolari e 11 riserve, ma 22 giocatori da ruotare tutti pronti e da ruotare il più possibile. Ne è uscita una bellissima serata: rischi di perdere ma anche – più volte – di vincere sul campo di una squadra che in coppa non perde lì da 4 anni, giochi alla pari, non segni – è un fatto non casuale, con Lautaro non (ancora) pervenuto – ma non prendi gol, fai una grandissima figura giocando un match di grande consapevolezza, di elevatissimo autocontrollo, insomma, una sciccheria.

L’inizio della stagione ci ha detto cose molto contrastanti tra di loro: c’è un’Inter che prende a pallate l’Atalanta e se la gioca alla stragrande col City, e un’altra Inter (che poi è la stessa) che si incarta col Genoa e si intristisce col Monza. Ma anche tutte le altre stanno andando avanti tra sensazioni e dimostrazioni contrastanti. Quindi l’unica cosa di cui mi preoccuperei è diluire gli sforzi, bilanciare la fatica e tenere tutti sul pezzo. E di Inzaghi ci possiamo fidare. Il fatto che poi si faccia una miglior figura contro Rodri e De Bruyne rispetto a Pessina e Dani Mota, boh, a suo modo la trovo una cosa affascinante. Forza Inter.

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Chiedi chi era Totò

Ci sono cose divertenti e faticose. Parlando tra boomer: vi è mai capitato di spiegare a un ragazzo, chessò, chi erano e cos’erano i Beatles? O cos’era Carosello? O com’era entrare in un negozio e comprare un disco (“un cosa??”)? O che i programmi in tv a un certo punto finivano (“cioè??”)? O che se eri in giro si telefonava con i gettoni? O che le partite erano tutte lo stesso giorno alla stessa ora? E che quando c’era la Coppa dei Campioni (“la cosa??”, sì, scusa, la Champions) non è detto che la trasmetteressero? E’ un esercizio estremamente divertente (la parte del racconto) e faticoso (la parte del riuscire a farsi capire, o dell’accettare che non ti capiscano, o che capiscano ma non si rendano conto della grandezza o della specialità di determinate cose). E’ un po’ frustrante, a volte. I nostri vecchi ci raccontavano solo (o soprattutto) delle guerra e di quanto erano poveri, ed erano racconti affascinanti ma un po’ monocordi. Noi, che avremmo un sacco di cose da raccontare (oh, sai che quanto ero piccolo non esistevano i computer? “E Netflix?” No, nemmeno Netflix) (silenzio), facciamo molta più fatica.

Stasera, prima di Manchester City-Inter, farò la solita pizza Champions e le mie figlie, forse, a tavola, con un occhio alla tv in attesa che entrino le squadre a scaldarsi, potrebbero chiedermi chi fosse Schillaci. Che per loro era un tizio con uno statuario parrucchino che ha fatto l’Isola dei Famosi e Pechino Express, quindi sanno che era un vip, un ex calciatore, anche importante. Che ha addirittura giocato nell’Inter (quindi molto importante). E qualcosa di quei Mondiali di Italia ’90, da qualche parte, l’avranno visto, letto o orecchiato. Può darsi che gliel’abbia raccontato io, certo. Però, forse, sarò chiamato a rispondere a qualche nuova curiosità. Mi preparo.

Dunque. Io penso che quella di Schillaci sia una vicenda tecnica e umana più unica che rara nell’intera storia del calcio. Direi, essenzialmente, che era un ottimo giocatore e un ragazzo semplice, molto semplice, un piccolo alieno che per un mese ha avuto il mondo in mano e l’Italia ai suoi piedi, una sensazione da cui credo non si sia mai più ripreso. Era un semplice, un umile, anche troppo per poter gestire tutto questo. Uno che faticava a mettere una parola dopo l’altra e a sistemarla nella giusta casella, ma a un certo punto ha avuto il mondo in mano e l’Italia ai suoi piedi come a pochi è riuscito dalla notte dei tempi.

E’ uno che ha vissuto un sogno e ce l’ha fatto vivere con lui, da pari a pari. Il sogno di arrivare in Nazionale, di quasi vincere un Mondiale, di quasi vincere un Pallone d’Oro, tutto in quel mese in cui abbiamo sognato insieme e ci siamo identificati in questo eroe per caso, in questo ragazzo normale che in quei 28 giorni, come per magia, si è trovato sempre al posto giusto nel momento giusto, ma in Mondovisione, davanti a miliardi di persone, soprattutto ai sessanta milioni di italiani che a un certo punto sono impazziti per quegli occhi strabuzzati che erano anche un po’ i nostri, increduli di quello che stava accadendo.

Schillaci ha giocato solo 16 partite in Nazionale, di cui 7 (quasi la metà) ai Mondiali di Italia ’90, segnando 6 volte, diventando capocannoniere della competizione. Frattesi, per dire, che domenica compie 25 anni, in Nazionale è arrivato a quota 7 anche lui, e ha già 21 presenze. La storia di Schillaci rimarrà unica proprio per questo, perchè non ricapiterà più a nessuno di vivere un’avventura così, uno stato di grazia così, giusto nel mese che serviva, a lui e a noi. E’ stata una favola vissuta coralmente, la dimostrazione che certe cose possono accadere, che non è tutto già scritto, magari sarebbero potute accadere anche a noi. Però sono accadute a lui, che quel mese pazzesco l’ha sfruttato alla stragrande – gli arrivava il pallone, lui lo toccava, gol, nei modi più vari, dalle posizioni più diverse, gol, sempre gol – ed è rimasto nella memoria del mondo che ama il calcio.

Schillaci è stato anche all’Inter una stagione e mezza, un secondo posto e una quasi retrocessione (con Coppa Uefa, ma lui era già andato via da un mese, in Giappone): non era vecchio ma già in declino, perchè il raffronto con il mese di Italia ’90 è rimasto per lui un parametro calcisticamente impietoso: forse la definizione stessa di cosa irripetibile, per chiunque a partire da lui. Con l’Inter ha giocato 36 partite e segnato 12 gol, vinto niente (anche alla Juve non ha vinto quasi niente, un paio di coppette, e l’unico scudetto l’ha vinto in Giappone). Alle mie figlie, giusto per dare un’idea della cosa, potrei dire che Gagliardini ne ha giocate quasi duecento di partite con noi, sei volte quelle di Schillaci, e segnato 16 gol, più di Schillaci. Però Gaglia è Gaglia e Schillaci e Schillaci. Totò rimarrà nei cuori di chi ama il calcio per la totale unicità della sua avventura. In quel mese ha fatto cose che non umani non abbiamo più visto. Troviamoci qui tra venti o trent’anni e facciamo un esperimento: ci ricorderemo di Mbappè o di Totò Schillaci?

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Il turnover e l’arte di non rompere le palle

Due pareggi in due trasferte, quattro punti lasciati per strada, la vetta della classifica già ceduta al Napoli di Antonio Conte che, non a caso, non farà le coppe. Nessuna crisi, nessun allarme, soltanto un messaggio per Simone Inzaghi: col turnover l’Inter non è più la squadra ammazzacampionato.

E’ l’inizio di un articolo del Fatto (dell’altro ieri: nel frattempo la testa della classifica se l’è presa l’Udinese, un’altra che non a caso non fa le coppe) e mi ha incuriosito la sentenza: col turnover l’Inter non è più la squadra ammazzacampionato. Nel senso che il campionato lo vinceremmo solo schierando la formazione tipo per 38 partite, più tutte quelle di coppa (sicure, fino a gennaio compreso, sono tipo altre 13 o 14) (e gennaio è solo a meta stagione)?

Sulla faccenda del turnover bisognerà intendersi, anche tra noi tifosotti. Se vogliamo arrivare vivi fino a luglio, il turnover dovremo farlo eccome, sempre sperando che nessuno si faccia seriamente male. Quindi, il turnover diventa in un certo modo strutturale. Noi – noi tifosotti, intendo – dobbiamo cambiare modo di pensare. A cominciare da “e che cazzo, ma proprio col Monza vai a fare il turnover!” che, giuro, ho sentito risuonare al bar qui sotto. Al che stavo per andare al banco, a torso nudo, a dirgli

“Hai ragione, dovevamo farlo col City o col Milan, due squadracce, perchè il Monza va trattato con rispetto. Correa lo devi mettere col Milan, non col Monza. Juve merda, hip hip urrà!”

e avrei preso il boccale della sua birra media e me lo sarei scolato in un sol gollone, uscendomene insalutato ospite e ruttando battendomi il petto tipo Tarzan. Ma non l’ho fatto. Perchè ecco, nel tris di partite Monza + City + Milan, fossi stato Inzaghi avrei fatto la stessa cosa: il turnover, pesante, nella prospettiva di dover affrontare due partite toste nei successivi sette giorni. E molte altre volte succederà. E forse, a rosa completa, il turnover – se per turnover intendiamo almeno 2-3 varianti alla ipotetica formazione tipo – dovrebbe diventare la regola e la formazione tipo l’eccezione.

Se proprio, da puro tifosotto, un consiglio mi venisse richiesto, ecco, io eviterei di lasciare fuori tutti insieme i pilastri della squadra. Considerando che Lautaro è come se non ci fosse stato, il fatto che a Monza mancassero anche Barella e il turco ha tolto all’Inter tutti quei go-to-guy che sono il naturale punto di riferimento in campo. Se hai il pallone, alzi la testa, pensi di darlo a uno di loro tre e loro tre non ci sono, beh, è un problema.

Però faccio quest’appello: basta parlare del turnover come fosse un pegno da pagare o una maledizione biblica. In una stagione come questa, che terminerà a luglio, è l’unico modo per rimasere in piedi. Va fatto con criterio e va accolto – parlo di noi – senza isterismi. Se poi fosse un problema insormontabile cambiare due, tre o quattro giocatori a partita, beh, allora un po’ ha ragione il Fatto: il campionato non lo ammazzeremo.

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Dietro Brodovic

Mercoledì, scrollando non mi ricordo più cosa, mi appare sul telefonino un post dell’Inter che avverte che i biglietti di Inter-Atalanta sono in vendita. Grazie al cazzo, penso io. Guardo a quando risaliva il post – sarà di 15 giorni fa, ho pensato – e mi accorgo che era stato pubblicato tipo qualche ora prima. Ci clicco sopra, vado a finire nell’area ticketing e mi accorgo che ci sono ancora posti. Ma tipo qualche centinaio (il venerdì sera non è comodissimo per tutti, a fine agosto poi). Due giorni prima della partita: irreale. Mi ci fiondo. Tre primo arancio, tendente blu. Clic. Salasso. Ok, fatto. Al che, in un attimo di lucidità, mi ricordo che l’ultima partita vista allo stadio era Inter-Atalanta di sei mesi esatti prima, 28 febbraio, il famoso recupero, il superamento dell’asterisco, forse il colpo di grazia al campionato. 4-0. Eh vabbe’, non è che può sempre andare bene.

Quando finalmente mi siedo – come documentato dalla foto – dietro Brodovic, un personaggio di fantasia tipo Nembo Kid o Gabigol, mi accorgo con disagio che nel primo arancio tendente blu, sedili comodi e visuale ottima (a parte da dalla fila 9 in su non si vedono i tabelloni, e io ero alla fila 9, mortacci loro), la temperatura percepita è di 47 gradi, con il 128% di umidità. Il pensiero di dover trascorrere le successive due ore lì, in questa atmosfera solida e bollente, mi provoca pensieri di morte. Per un attimo mi dico: spero che almeno l’Inter giuochi bene, certo, eggià, ma non è che vinci sempre 4-0 contro questi, porca miseria, ho pure letto che sono i veri favoriti del campionato insieme alla Juve, giuro che l’ho letto.

Per il quarto d’ora che manca all’inizio della partita spero intensamente che passi accanto a me un bibitaro (categoria che ho sempre evitato come la peste), per il quale sarei stato disposto a spendere cifre elevate come corrispettivo della cessione di qualsiasi bevanda fresca: acqua, birra, chinotto, cedrata, gin fizz, spuma, Borghetti Ice, eau de cornèt sdelinguè. Niente, aboliti come i raccattapalle. Mentre penso intensamente al suicidio, inizia la partita.

E come per magia, l’Inter gioca 20 minuti di calcio champagne, gol, golazzzzi, pali, colpi di tacco, rabone, no look. Lo splendore di una squadra che gioca a memoria – il valore aggiunto che dobbiamo inseguire, quello di aver cambiato poco o nulla – e l’entusiasmo di uno stadio che si è fatto trascinare con il cuore oltre l’ostacolo, cioè la canicola. Nel mio logisticamente confortevole sedile, oltre alla insopportabile temperatura percepita rilevo anche un altro difetto: il rimbombo. Non si sente un cazzo, che segna, chi entre, chi esce, lo speaker è un farfugliamento indistinto. In compenso, il boato della folla ti passa da parte a parte. Brodovic, davanti a me, esulta e fa foto a manetta.

Durante l’intervallo penso: con ‘sto caldo, bisognerà stare attenti che questi scarsoni dell’Atalanta magari non trovino un golletto casuale che li rimetta in partita, vai a sapere. Ma quanto torniamo in campo facciamo come nel primo tempo: dopo 7 secondi un contropiede con cui sfioriamo il 3-0, poi venti minuti in cui non gliela facciamo vedere, segnamo due gol grotteschi – giuro, se l’Inter avesse preso da chiunque due gol così mi sarei andato a incatenare ad Appiano Gentile chiedendo l’acquisto di 17 difensori centrali -, ne sbagliamo di altri, siamo in controllo, ci divertiamo, eccetera.

Oh, se questa Inter doveva dare una risposta alla tiritera della fame, beh, l’ha data. Magari avrà appetiti più controllati, ma li coltiva bene. Dalla mia angolazione (dietro la porta, un po’ di sguincio) ho apprezzato cose bellissime. Tipo quando chi dei nostri inizia l’azione alza la testa, vede gli altri muoversi – sa già dove sono – e ogni volta ha due o tre opzioni possibili. L’Inter è un meccanismo meraviglioso: lo si deve soltanto oliare bene, fare manutenzione. Inzaghi ha creato la sua Inter, ora la gestisca con serenità – soprattutto le forze. Squadre migliori di noi, non ne vedo. Ce ne saranno di buone, magari anche ottime. Ma migliori non credo. E quindi sta a noi gestire la nostra superiorità.

Quando esco dalla stadio, mi rendo conto di aver visto due 4-0 all’Atalanta nel giro di sei mesi e mi sento migliore. Sono così estasiato che passo davanti a 30 paninari e manco mi fermo a prendere 14 coche zero, così, per placare la mia sete. Quando sono in macchina e punto verso Pavia, ripenso a Pavard e Dimarco che aizzano la folla dopo due minuti, poi al tiro al volo di Barella e, in generale, alla fortuna di essere interisti. Pensieri che penso abbia condiviso anche il mio nuovo amico Brodovic.

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Il fattore cooling break

Le statistiche parlano di partite gemelle di Inter e Milan quanto a possesso palla: 61-39, uguale. Poi dicono che l’Inter ha tirato poco (6) e meno del Lecce (!) (7), mentre il Milan ha tirato tanto (15), il doppio del Parma (7). Hanno vinto le squadre che hanno tirato di meno. Ha fatto ca-ca-re la squadra che ha tirato di più. Vabbe’, è la dimostrazione che le statistiche servono fino a un certo punto. Non esiste la voce “Difesa che si impanica ogni volta che parte il contropiede avversario” e nemmeno la voce “Vado in porta con il pallone perchè gli avversari sono impanicati però poi non tiro mannaggia” che avrebbero meglio dipinto Parma-Milan, nè la voce “Squadra che non si sbatte alla morte perchè così basta e avanza e tra l’altro ci sono trenta gradi” con cui analizzare meglio Inter-Lecce. Queste sono partite da vincere e basta, il resto – ad agosto – sono solo particolari. Queste tre partite da giocare boccheggiando in campo e con il mercato ancora aperto sono un festival dell’assurdità, cui seguirà la mortifera pausa per la Nazionale di inizio settembre, un calcio nei coglioni. Giovedì c’è il sorteggio Champions, venerdì l’Atalanta, poi ciao, due settimane di nulla. Non vedo l’ora che sia il 15 settembre: prima, non è stagione. Prima è ‘sta roba qua.

Intanto, continuano a chiedere a Inzaghi se l’Inter ritroverà la fame, dando per scontato che l’Inter la fame l’abbia già persa, tutto questo dopo due partite con Genoa e Lecce e 36 ancora da giocare. La fame, quella vera, arriverà: adesso fa troppo caldo per il brasato con la polenta. Dopodichè dovremo abituarci tutti a un altro andazzo. L’estate 2024 (estate di competizioni internazionali, quindi un’estate a rate per la preparazione) è una novità nella storia recente dell’Inter: non abbiamo rifatto mezza rosa, non abbiamo venduto pezzi forti, abbiamo lo stesso materiale umano che ha dominato l’ultimo campionato. Invecchiato di un anno, ok, ma con gli innesti mirati potenzialmente più forte. Non può esserci l’atmosfera frizzante e/o spiazzante di quando reimposti una squadra o vai alla caccia spasmodica di obiettivi: abbiamo lo scudetto sul petto e la modalità è diversa da quando lo scudetto lo vai a prendere.

Quindi ok, la questione fame è importante (meglio avercela) ma non basilare. L’Inter deve imparare piuttosto a gestire la consapevolezza: in Italia siamo i più forti, con tutto ciò che questo comporta. E niente, bisogna dimostrarlo di volta in volta. La bellezza dello sport è che ogni anno resetti e riparti: per gli altri è un’occasione, per noi è una sfida. Il problema dell’Inter non è la fame (che arriverà, tra campionato e coppe, figuriamoci se non arriverà). Il problema è la noia. Quella, la dobbiamo scacciare. Stesso mister, stessi schemi, stessi compagni, stesse gerarchie: la noia è un rischio. Ma è anche facile scrollarsela di dosso. Non c’è nulla di acquisito, i punti si dovranno andare a prendere dovunque e contro chiunque (oh, è una regola che c’è da cento e passa anni) e la chiave del divertimento – anche quella della fame – è tutta lì. Scavalliamo questo perioso afoso di calcio fake e andiamoci a prendere tutto. Finchè c’è il cooling break non è calcio: è beach soccer su erba.

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