
Adesso cosa rimane da vedere? Forse un oro della nazionale di basket alle Olimpiadi (livello di impossibilità: over the top). Forse un italiano che vince il mondiale di F1 sulla Ferrari settanta e passa anni dopo Ascari. L’Inter (vabbe’, si può sempre replicare, eh?) e la Nazionale: siamo a posto. L’atletica – 100 e 200 metri, la maratona, l’alto – pure (vabbe’, se capita altro è tutto ben accetto, eh?). Un tennista italiano che vince a Wimbledon è una roba epocale: temevo che la foto qui sopra la potesse fare solo l’intelligenza artificiale. O, addirittura, temevo de morì prima.
Trattandosi di uno come Sinner, certo, si poteva mettere in conto che prima o poi potesse accadere. E negli ultimi quattro anni abbiamo anche avuto un altro finalista, Berrettini (contro il più inarrivabile degli avversari, Djokovic), e un altro semifinalista, Musetti (contro il più inarrivabile degli avversari, Djokovic), in un torneo che per gli italiani è sempre stato una chimera. Insomma, il momento sembrava avvicinarsi. Ma, appunto, non era mai successo.
Io fino a ieri sera soffrivo ancora della sindrome di Pat Du Prè. E’ il 1979, sono al mare ad Arma di Taggia (dove Fognini sarebbe nato 8 anni dopo), e sulla Rai trasmettono la diretta di Panatta-Du Prè, quarti di finale di Wimbledon. Panatta non era neppure testa di serie. Al primo turno batte lo spagnolo Gimenez, uno che forse schifava più di lui l’erba. Al secondo turno batte al quinto uno sconosciuto inglese, Smith, una wild card con cui stava sotto di due set a uno e 5-5 al quarto. Al terzo turno batte con tre tie break Bengston, il compagno di doppio di Borg, un cristone che sa fare solo serve and volley. Al quarto turno Panatta, cazzo, prende a pallate Sandy Mayer. E va ai quarti con ‘sto Du Prè, statunitense nato in Belgio, buon giocatore ma niente più, che vincerà un solo torneo in carriera, a Hong Kong, mica a Flushing Meadows. La partita inizia a metà pomeriggio, io faccio un bagno, saluto gli amici e dico: vado a casa a vedere Panatta-Du Prè. Panatta sembra in giornata più che discreta, ha davanti a sè un’occasione d’oro, nella sua parte del tabellone sono già caduti McEnroe e Gerulaitis (che ha perso al primo turno proprio con Du Prè). E’ avanti due set a uno, poi nel quarto paga sanguinosamente un paio di leggerezze e l’altro ne approfitta. Si va al quinto, quando accade una cosa inaccettabile:
“Linea al Tg2”.
Porca troia, sono già le otto meno un quarto? Mi accascio disperato davanti al televisore. Non c’erano mica le app, non c’era mica internet. Non c’era un cazzo di niente. Mi metto a tavola in stato catatonico. Quando arriva il momento delle notizie sportive, dicono che Panatta ha perso al quinto.
Ecco, io ero rimasto là, al 1979, a Panatta-Duprè, partita simbolo dell’incontrovertibile fatto che un italiano non avrebbe mai vinto Wimbledon (per inciso, se Panatta avesse battuto Duprè avrebbe trovato in semifinale Roscoe Tanner, quel tizio biondo con la permanente che tirava mine spaventose di servizio, e in finale Borg, che con Tanner vinse il quarto dei suoi cinque Wimbledon di fila. Borg era stafavoritissimo, ovvio, ma Panatta era il giocatore che Borg soffriva di più nell’intero universo). E quindi che Sinner abbia vinto Wimbledon per me personalmente è un fatto liberatorio. E poi sono molto contento per Sinner. “Ma scusa, proprio tu che hai scritto bla bla bla contro Sinner?” No, aspetta: io ho sempre fatto il tifo per Sinner, solo che avevo molta paura per lui. Molta paura che tutte le enormi aspettative e tutto l’enorme carrozzone che gli hanno creato attorno (mega sponsor, mega team ecc. ecc.) finissero per giocargli contro, per fargli perdere il senso della realtà. Ero contro il sinnerismo, mica contro Sinner. Il fatto che lui mi abbia smentito due volte – è davvero il campione che tutti pronosticavano, è impermeabile a tutto – non può che rendermi felice.
C’era poi una questione tecnica che mi attizzava, e che continuerà ad attizzarmi. Per me Alcaraz, che è pure due anni più giovane, ha più talento di Sinner. Questo non vuol dire molto: non è detto che chi ha più talento sia il più forte, anzi. E poi il talento che intendo io nel tennis – il tocco, il braccio, una certa sensibilità, una certa visione, una certa locura anche – è roba un po’ di nicchia. Tutto questo per dire che fino a un mese e mezzo fa lo schema mi sembrava chiaro: Sinner più testa, Alcaraz più talento; Sinner superiore sul veloce, Alcaraz sulla terra e sull’erba (che non a caso sono le due superfici dove serve più talento). E invece Sinner ha perso il Roland Garros al quinto dopo aver avuto tre match point, e poi ha vinto Wimbledon. Questa cosa frantuma i miei schemi, e forse anche quelli di Alcaraz: Sinner è il più forte, punto, per fare meglio di lui bisognerà (sempre) fare meglio di lui. C’è stato un momento, ieri, in cui si è colta quella frase in spagnolo tra Alcaraz e Ferrero (del tipo “tira sempre più forte di me, che cazzo faccio?”), che mi ha fatto volere tantissimo bene a entrambi: sono giovani, bravi, positivi, fortissimi, sportivissimi. E’ una gioia per questo sport. Godiamocela, giodiamoceli.