
* È una formula di saluto, simile a “arrivederci”, usata per augurare buon viaggio o benessere a chi si sta congedando, in particolare quando ci si aspetta di non rivedersi presto. “Salām” in arabo significa “pace” e ha un legame con la salvezza e la salute. In italiano, si potrebbe tradurre con “alla salute” o “sii prudente”.
Più ci penso e più vedo, molto prima dell’inspiegabile 0-5 di Monaco, cose assai più inspiegabili prima, sparse qua e là per la stagione (o situazioni incombenti, a colorarla tutta). Per dire: com’è stato possibile che l’Inter, questa imperfetta e un po’ bolsa Inter, fino al 23 aprile fosse in corsa per il Triplete? E non stiamo parlando di teoria: è stato proprio così, ci siamo andati a un pelo. Siamo usciti in semifinale in Coppa Italia (giocando il ritorno in casa e avendo pareggiato l’andata); abbiamo perso lo scudetto alla penultima giornata (e siamo stati campioni d’Italia per 20 minuti nell’ultima); abbiamo perso la Champions in finale dopo aver eliminato Bayern e Barcellona e dopo un percorso quasi netto (primi del ranking Uefa stagionale). Com’è stato possibile? Come è stato possibile, comunque che fino alle ore 21 del 31 maggio eravamo ancora lì lì per entrare nella storia? E come è stato possibile, quindi, che 20 minuti dopo ne eravamo già irrimediabilmente fuori?
Intendo dire, tornando alle cose inspiegabili: com’è stato possibile fare tutto questo – sognare oggettivamente un Triplete, buttare via un campionato, arrivare in finale di Champions dopo averla sostanzialmente dominata – con Lautaro fuori forma per mesi e che in campionato segna la metà dei gol dell’anno prima, con altri giocatori-chiave – su tutti Cahlanoglu e Dimarco, ma anche Miki – sotto tono per gran parte della stagione, con in panca tre attaccanti che non ne fanno uno, e poi buttando via tre partite in cui eravamo in vantaggio di due gol, subendo 18 gol dall’80’ in poi, giocando 59 partite senza poter mai tirare il fiato? Che razza di stagione abbiamo vissuto, nonostante tutto? Non è tutta inspiegabile, la stagione?

Ecco, se c’è una spiegazione che do all’inspiegabile, questa è Simone Inzaghi. E’ stato lui a tenere unito il gruppo e a mantenere la barra dritta attraverso i numerosi alti e bassi vissuti in nove mesi e mezzo, tra infortuni e imprevisti, distrazioni e cali di appetito, scricchiolamenti e dissipazioni. La macchina perfetta della seconda stella si è inceppata in un tot di occasioni ma Inzaghi ha evitato il crollo, ogni volta, almeno fino a Inter-Barcellona. Non è il Conte spremitore di limoni: Inzaghi è un fratello maggiore a cui non puoi non volere bene, è una brava persona a cui non puoi dire di no. Non è il Conte risultatista che trova il modo di esaltare i singoli: è un giochista per vocazione che si esalta attraverso la squadra. E lui per questi quattro anni ha continuato imperterrito a ringraziare, ringrazio i ragazzi, ringrazio questi giocatori, si vincesse o si perdesse, piovesse o tirasse vento. E’ un meccanismo virtuoso che si è inceppato un mesetto fa.
In fondo, da uno come Inzaghi è inspiegabile sentir dire alla vigilia della finale di Champions che sì, ci sono le offerte, che poi vedrà. Manco Mourinho l’aveva fatto, pur andando via un minuto dopo aver sollevato la Coppa a Madrid. Lo ha detto, Simone, alla fine di una stagione superiore alle sue forze e alla sua pazienza, rassegnato al fatto di non vedere mai troppo riconosciuta la bontà del suo lavoro, stizzito dal passare come perdente invece che come un Re Mida dei parametri zero e dei rifiuti altrui, oltre che dei bilanci risanati a forza di non-investimenti. Aveva già deciso molto prima? Inter-Barcellona è stato l’incredibile canto del cigno di una squadra che forse non c’era già più e del suo allenatore che più di così non poteva fare. Succede che una stagione meravigliosa – inspiegabilmente meravigliosa – si risolva così, perdendo su ogni fronte. E che tu, l’allenatore più talentuoso d’Italia, passi alla storia anche come il più perdente, così, de botto, che il 23 aprile avevi tutto e il 31 maggio non hai più niente, anzi, manco più la reputazione dopo averne presi cinque in finale di Champions.
Col campionato perso così, e con la Champions persa così, Simone Inzaghi non poteva più rimanere. Al primo inciampo l’avrebbero massacrato, alla prima partita deludente avrebbero iniziato il countdown del panettone. I suoi ragazzi forse non si sarebbe più fidati ciecamente. E d’un tratto non vale più niente tutto quello che hai fatto, i sei trofei, la seconda stella, e nemmeno la fascinosa (e inspiegabile) avventura di quest’anno, vissuta partita dopo partita, ogni volta spostando il traguardo più in là di una casella sperando che la baracca rimanesse in piedi. Il 5-0 di Monaco è la cosa più spiegabile di tutti: una squadra svuotata di energie e con i nervi a fior di pelle, con l’allenatore molto più di là che di qua, dopo 5 minuti di partita capisce che non c’è niente da fare contro una squadra che corre il triplo e ha un’altra faccia, un’altra postura, un’altra fame. E’ la cosa più spiegabile di tutte.
Quattro anni su una panchina di Milano sono un’eternità. Inzaghi l’ha riempita di uno storico scudetto e di cinque coppe. Gli toccherà essere ricordato soprattutto per due scudetti buttati via e per due finali di Champions non vinte. E’ crudele ma è così. Forse è anche per questo che se n’è andato via frettolosamente, per non girarsi troppo indietro. Dopo quattro anni a ringraziare i ragazzi, nel messaggio di addio quasi non li nomina. Va in Arabia sicuramente per soldi, ma anche per stare un po’ lontano da qui. Il sole e i dollari gli riscalderanno il cuore. Sparirà dai radar del calcio, gli verrà presto la voglia di tornare (non da noi, speriamo non con maglie avverse). Ma’aal salamah, ci mancherai. Ci hai fatto divertire come nessuno, ma un bel gioco dura poco: quattro anni, per noi, sono un’era geologica. Addio, ora insegna agli arabi a fare tre passaggi di fila.