Innanzitutto: forza Venezia. No, perché a questo punto contano anche i particolari minimi. Se lunedì alle 18,30 il Venezia batte la Fiorentina, si riduce di un punto il distacco tra il Parma e la zona baratro. E Parma-Napoli potrebbe diventare una partita con implicazioni un pochino più ansiogene. Si noti l’ampio giro di parole: non ci sono più partite facili o difficili, scontate o pericolose. Le due partite che restano di qui alla fine – anzi quattro, le due nostre e le due loro – sono tutte uguali: da giocare, intanto, e poi da vincere.
Il Napoli se n’è accorto proprio in quella che, delle tre che le restavano, era sicuramente la più (scegliere aggettivo giusto), anzi no, la meno (scegliere aggettivo giusto).
Qual è l’aggettivo giusto?
Non c’è e non proviamoci nemmeno a cercarlo. Il Napoli ha perso due punti giocando in casa contro una squadra tranquilla e già sapendo il risultato dell’Inter: in teoria, le condizioni migliori possibili. Anche l’Inter giocava con una squadra tranquilla, ma fuori casa, con la formazione B e con i postumi lisergici di 130′ leggendari con il Barcellona. In più, come direbbe Mazzarri, si è anche messo a piovere. Ma quale piovere, no no, diluviare. Tipo che a un certo punto non rimbalzava neanche la palla. Insomma, era un turno sfavorevole: eppure ha rimontato due punti.
E niente, che volete che sia? Ci toccherà riempire di emozioni e di speranze i prossimi 14 giorni, che già ne sarebbero stati densi per la sola attesa del 31 maggio. La prossima giornata è assolutamente decisiva: ci attende una partita vera a San Siro con la Lazio in corsa per la Champions, al Napoli tocca andare a Parma a casa di una squadra matematicamente non salva e che speriamo voglia sistemare le cose davanti al suo pubblico. L’ultima giornata boh, ci penseremo a suo tempo. E’ la penultima in cui dobbiamo giocarci tutto. In proiezione Monaco è tutta salute: o volevate passare tre settimane a pensare al Psg?
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #129, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, siamo in finale di Champions, è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
Dumfries (Denzel Justus Morris – Rotterdam, Olanda, 18 aprile 1996). Durante le numerose feste scudetto della scorsa primavera, Dumfries era quello che sorrideva meno o per nulla. Si dava per scontato (forse lo dava per scontato anche lui) che sarebbe stato il giocatore sacrificato sul mercato, al culmine di tre stagioni in cui lo avevamo amato molto ma non moltissimo, ancora abbacinati dalla leggiadria della meteora Hakimi e incerti su come giudicare un esterno destro assai diverso, un decathleta prestato al calcio con qualche tara e qualche limite. Poi accade che il suddetto giocatore rimanga per il quarto anno e si riveli il vero crack della stagione – 10 gol finora e assist, sgroppate e imprese al limite del possibile. Quando si infortuna, nel momento clou, per l’Inter è una mazzata. Poi torna, giusto per il Barça. Nella foto sopra, scattata prima dell’inizio della partita di ritorno, è rappresentata la situazione opposta a quella post-22 aprile: tutti sono seri, l’unico che ride è lui. Forse è un segno. Ha riso pochissimo anche il Barcellona: 6 dei 7 gol dell’Inter agli insopportabili blaugrana portano il sigillo del Papa nero (li ha segnati lui, o ha fatto l’assist, o ha dato il via all’azione). Con il settimo, quello di Frattesi, Dumfries non c’entra proprio nulla. Beh, nessuno è perfetto. Soprattutto se ti hanno sostituito 5 minuti prima allo stremo delle forze, un premio per avere arato il campo per un centinaio di minuti, su e giù, su e giù.
Sommer (Yann – Morges, Svizzera, 17 dicembre 1988). Sembra ancora di vederlo nel letto d’ospedale – era il 22 febbraio, mica dieci anni fa – dopo l’operazione al dito sorridere al fotografo a petto nudo, un’immagine che ha preoccupato i maschi interisti e sovraeccitato le femmine di ogni bandiera e i cui effetti potremo verificare solo a nove mesi di distanza, quindi indicativamente verso metà novembre, you know, quei picchi di nascite che scatenano la fantasia dei demografi. Da martedì sera non lo sognano solo le donne ma anche due uomini, Lamine Yamal ed Eric Garcia, che se lo vedono spuntare dappertutto, anche dalla tazza del cesso mentre si piegano nella prospettiva intima di evacuare – a entrambi sembra di vedere un guantone uscire dal water.
Eric penserà per tutta la vita a quella porta spalancata e a quella doppietta mancata (due gol in tre minuti, in semifinale di Champions, dio mio) per la noncuranza di tirare troppo centrale con tutto quello spazio a disposizione proprio mentre Sommer si librava nel meno speranzoso dei voli. Yamal di tiri a giro scoccati all’improvviso ne farà altri seimila in carriera, più o meno precisi. Non gli capiterà spesso, invece, di vedere partire dal nulla uno svizzero così handsome e così chirurgico, un Clark Kent vestito da portiere che gli toglie la gioia di un gol che sembrava automatico, oggettivamente automatico, e invece no.
Dimarco (Federico – Milano, Italia, 10 novembre 1997). Quanto sarà che Dimash non fa una partita veramente ma veramente con i controcazzi? O, in subordine, da quant’è che non ne fa due consecutive da 7,5 in pagella? Quest’inverno si è preso un’influenza pesantuccia e non è più tornato davvero lui. Ora, nessuno più di me può capirlo: io a gennaio ho fatto l’influenza e mi sono ripreso a marzo, più o meno. Però io sono un boomer e Dimarco potrebbe essere mio figlio, santa madonna. Ma tutto ciò non conta niente quando al minuto 21 di una semifinale di Champions tu rubi palla sulla trequarti e servi l’uomo che farà l’assist dell’1-0. Questa descrizione però non rende l’idea dell’impresa: quando tra il rubare palla e il servire l’assist trascorre meno di un secondo – un lasso di tempo che ti basta per vedere il compagno libero e lanciarlo in porta – e i due gesti diventano un unico disegno criminoso (violenza/raggiro a squadra avversaria non consenziente), allora tutti noi dobbiamo levarci in piedi e niente, applaudire e basta. Lo farebbe anche De Gregori, pur costretto a riscrivere “La leva calcistica del ’68” perchè, porca miseria, è proprio da questi particolari che si giudica un giocatore.
Martìnez (Lautaro Javier – Bahía Blanca, Argentina, 22 agosto 1997). Per un’elongazione lieve (primo grado) dei flessori sono sufficienti 2-3 settimane di riposo, riducibili a 10-12 giorni nel caso l’atleta abbia particolari impegni e due coglioni così. E’ quindi probabile che la Nasa – e forse anche Elon Musk, e forse anche The Mask – proceda in questi giorni alla misurazione ufficiale dei testicoli del capitano, già, “I testicoli del capitano”, vabbe’, scusa De Gregori, anche tu sei sempre tra le palle. Lautaro ha avvertito dolore all’andata e non si è toccato la coscia, chiamato il cambio, steso per terra rotolandosi, no: si è portato la mani sulla faccia e si è semplicemente, totalmente, impudicamente disperato. E’ andato a casa e ha pianto per giorni, così racconta. Piangeva e giocava con i suoi figli e la madre lo chiamava dall’Argentina e lui non rispondeva per non doverle dire che no, non andava proprio tutto bene, e infatti piangeva. Tra una caragnata e l’altra andava alla Pinetina a fare terapie e doppie sedute di allenamento. E’ sceso in campo perchè col cazzo che avrebbe rinunciato a giocare per la fottuta elongazione di un fottuto flessore di merda. Ha segnato il primo gol, ha procurato il rigore del 2-0. Ha cantato e portato la croce. Capiremo la grandezza di questo giocatore quando ce lo venderanno a tradimento e noi piangeremo come se ci si fosse elongato un flessore.
Acerbi (Francesco – Vizzolo Predabissi, Italia, 10 febbraio 1988). Per capire il fenomeno Acerbi, basti pensare che 15 anni fa, quando l’Inter vinceva la sua ultima Champions, lui giocava a Pavia in C1. E ci stava giocando non per caso, ma per la seconda stagione di fila. Siccome 37 meno 15 fa 22, per capire il fenomeno Acerbi – e per capire il fenomeno Yamal – bisogna dunque considerare che Acerbi, quando aveva 5 anni più di Yamal, stava ancora giocando nella periferia del calcio. La storia poi la conosciamo, è maturato tardi e tutto d’un botto per una storia drammatica che lo ha reso un uomo diverso. E’ arrivato da noi in prepensionamento ed è invece diventato protagonista, a fine mese giocherà la sua seconda finale di Champions in tre stagioni e magari gli verrà in mente anche di quando brutalizzava attaccanti a Pavia e di quando a Roma, chez Lazio, volevano a tutti i costi che andasse via perché, tra le altre cose, era ormai finito (spoiler: non lo era). Del gol del 3-3 che lo spinge nei piani alti della storia dell’Inter vanno segnalate due cose, entrambe un pochino soprannaturali. Intanto, che uno di 37 anni al terzo minuto di recupero si fa tutto il campo e va a segnare come un attaccante, in più con il suo piede sbagliato. Ma è un’altra cosa che mi è piaciuta ancora di più, rivista al replay: nell’andare all’arrembaggio a un certo punto finisce in fuorigioco (gli avevano annullato un gol in fuorigioco in tutto di testa qualche minuto prima), se ne accorge, non smette un attimo di guardare l’azione sulla sua destra ma intanto rallenta e attende il rientro del difensore del Barça, torna in gioco, cross, ci mette il destro, gol. All’incrocio.
Barella (Nicolò – Cagliari, Italia, 7 febbraio 1997). Barella martedì ha giocato praticamente due partite, di cui una sbagliata. Ha perso palloni (perso? palloni??), ha sbagliato colpi di tacco (sbagliato? tacco??), creato casini ma anche sbrogliato matasse e sparso quel senso di sicurezza che distingue l’Inter con Barella (anche in versione fuzzy) dall’Inter senza Barella. L’Inter senza Barella, semplicemente, non esiste. Gli altri dieci in campo devono sempre potersi girare e vederselo vicino, oppure impegnato a fare sombreri, tiri al volo, salti carpiati, lanci di 75 metri, proteste plateali, miracoli e opere di bene. Gli altri dieci hanno il sacrosanto diritto di avere un Barella accanto, perchè noi vogliamo bene a tutti, a Barella e altri altri dieci. Barella va sempre bene, anche quando fa qualche cazzata che gli si perdona perchè è fatto così, non può fare cose normali, non ne è più capace. Le partite da 6 di Barella sono innaturali, una specie di tributo al fatto che c’è un pallone solo, devono giocare anche gli altri e che non ci si esibisce ogni volta a Monaco o Barcellona ma tipo chessò, a Catanzaro. Se non fossero già felicemente fidanzate, e se lui non avesse già moglie e un numero indeterminato di barellini – e se tutto ciò non fosse perfuso da un insopportabile senso vetero-patriarcale di cui mi vergogno e che solo in parte è perdonabile per interismo – gli offrirei in sposa una a caso della mie figlie. E poi andrei con lui all’Esselunga o portare in giro il cane, sapendo che farebbe sempre le scelte giuste, guiderebbe bene il carrello, parcheggerebbe bene la macchina, raccoglierebbe bene la cacca e infilerebbe il sacchetto nel cestino con un pallonetto da 47 metri.
Frattesi (Davide – Roma, Italia, 22 settembre 1999). Negli schemi mentali di Simone Inzaghi, la figura professionale e tecnica di Davide Frattesi non è prevista. E quindi, da un paio d’anni, conviviamo tutti con l’equivoco Frattesi, uno che – si dice sempre così – giocherebbe titolare in tutte le altre 19 squadre di serie A, oltre che in Nazionale (di cui è goleador), ma non in quella che lo ha profumatamente pagato e tesserato, cioè l’Fc Internazionale. Frattesi è un lusso: è come gestire un ristorante per matrimoni e avere preso Cracco, ti bulli con il mondo ma alla fine non sai che cazzo fargli fare. Frattesi, a proposito, una cosa la sa fare bene ed è segnare – mica pizza e fichi: per questo ce lo teniamo stretto pur non potendogli dare una maglia da titolare fisso perchè i tre che ha davanti sono imprescindibili per il Demone e lui non è il sostituto di nessuno dei tre, lui è uno a parte, uno specialista. Un lusso, ecco. Tipo che al culmime di un anno complicato, che a momenti se ne andava via a gennaio, segna lui i gol decisivi di Bayern-Inter e Inter-Barcellona, due vittorie storiche, storicissime, leggendarie. Sì, è come avere un ristorante per matrimone e poi esce Frattesi e mentre tutti si aspettano il vitello tonnato lui ti fa un uovo di Frattesi, anzi due. Cosa c’è di soprannaturale? Il gol di Monaco era un tipico gol alla Frattesi. Il gol di San Siro no, non è un gol alla Frattesi, è il gol di un altro, è un gol alla Cracco, una finezza che non ti aspetti anche se sai che il biondino seduto in panca è il tuo piccolo lusso e niente, si va avanti così, perché?, cos’è?, non possiamo trattarci bene?
Taremi (Mehdi – Bushehr, Iran, 18 luglio 1992). Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la camminata sulle acque nel lago di Tiberiade, la partita di Taremi con il Barcellona entra dritta nella galleria dei miracoli e qualche parroco spiritoso potrebbe presto raccontarla durante l’ora di catechismo agli alunni più svogliati. Non è chiaro – non può esserlo – come quello che fino a 15 giorni prima avevamo classificato come un bradipo vestito da calciatore sia stato l’unico uomo in campo a fermare sistematicamente Yamal, uno che ha la metà dei suoi anni e viaggia al doppio della sua velocità. Eppure niente, Taremi imponeva i suoi piedi al passaggio del giocatore più futuribile dell’intero universo e la palla rimaneva lì, ancorata a Taremi e non a Yamal com’era normale che fosse. A pensarci bene, questo è l’evento più soprannaturale di tutti. Evento a cui ho assistito dal mio divano senza proferire parola e incredulo, come se durante la partita avesse suonato il campanello il parroco e io aprendogli gli avessi detto “porca troia, ti sembra l’ora di venire a benedire le case?” e lui mi avesse risposto “scusa, mi hanno appena eletto Papa, non è che hai delle scarpe di velluto rosso da prestarmi?”.
Il calcio è anche questione di centimetri, millimetri forse. E forse è destino che nelle semifinali di Champions i millimetri contino tanto, come fossero chilometri. Mercoledì scorso il fuorigioco di un alluce ci aveva negato una vittoria epica, ma non è niente rispetto alle dita protese di Sommer verso il pallone liftato di Yamal, un tiro perfetto che solo una parata perfetta poteva neutralizzare. 22 anni fa un tiro non perfetto ma potenzialmente vincente di Kallon incocciò nell’estrema periferia di un polpaccio di Abbiati – un’uscita nemmeno perfetta – e in finale ci andò il Milan (che poi la vinse, quella Champions, contro la Juve, tu pensa che disastro per uno stinco). E quando Messi, nel 2010, esplose un sinistro che sarebbe stato vincente 99 volte su 100, fu Julio Cesar a stendersi in un tuffo irreale alla sua destra e a certificare che sì, quella era la volta numero 100, la volta che qualcuno decide che quel pallone non deve entrare, benchè difficilmente Messi potesse fare meglio – fu Julio a superare il muro del suono. E in finale ci andò l’Inter, a Madrid, tu pensa che beffa per il Barcellona.
Roba di millimetri e di talento, di fortuna e di sfortuna. Poi c’è il cuore, e quello è tutto un altro discorso. E’ un fattore trasversale che qualche volta cambia le carte in tavola, altrimenti basterebbero l’AI e gli expected goals, uh, meraviglioso. Il cuore è quel qualcosa in più che permette a una squadra come l’Inter – stremata e vulnerabile, a furia di inseguire sogni e di vederne svanire qualcuno – di eliminare dalla Champions in un mese Bayern e Barcellona, segnando 11 gol in 4 partite e senza mai perdere. Il cuore, in particolare, ti può consentire di trasformare un’impresa direttamente in leggenda, ciò che è successo la sera del 6 maggio 2025 a Milano, una partita che non dimenticheremo, una data che d’ora in poi celebreremo ogni anno e non solo perchè Facebook ce la proporrà tra i ricordi.
Quando l’8 aprile (meno di un mese fa) l’Inter sembrava essersi superata andando a vincere a Monaco, nessuno poteva immaginare che in Champions sarebbero seguite tre partite una più bella dell’altra, una più difficile dell’altra. Bayern-Inter, 8 aprile, 1-2, che sembrava il capolavoro dei capolavori, è stata la più semplice delle quattro, nettamente. Sarebbe stato molto più difficile il ritorno, e poi sarebbe stata più difficile la semifinale d’andata a Barcellona, e poi sarebbe stato terribilmente più difficile il ritorno con i blaugrana a Milano. Sempre più dura, sempre più complicata. Eppure l’Inter non ha mai perso. Che nei quattro match con Bayern e Barcellona abbia sfiorato la media dei tre gol a partita, beh, è stupefacente. La doppia sfida col Barcellona è stata un inno al calcio, che dovrebbe aver fatto divertire tutta l’Europa e forse, in un rigurgito di onestà intellettuale, avrà strappato un applauso anche alla batteria di gufi nemici, anche se non lo ammetteranno mai.
Due anni fa, prima della finale di Champions con il City, ci siamo accorti che l’Inter era tornata ai piani alti, finalmente. Dopo la finale, persa, abbiamo realizzato che l’esperienza ci aveva dato un dolore ma anche tanta consapevolezza. Oggi, dopo queste straordinarie quattro partite, e soprattutto dopo questa stratosferica doppia sfida con il Barcellona, l’Inter non ha più niente da dimostrare. Il calcio di Inzaghi, per mezzo del talento e delle qualità umane di questo gruppo, ha dato lezione all’Europa. Manca l’ultimo gradino, la lotteria di una partita secca alla fine di una stagione massacrante: potrebbe – lo sappiamo bene – anche finire come non vorremmo. Ma la partita col Barcellona resta e resterà per sempre. Rimarrà il simbolo dall’Inter del Demone, dell’affidabilità e dell’orgoglio di un gruppo provato e forse un po’ consunto, ma che così coeso, serio, compreso nel suo ruolo, fiero della sua appartenzenza non abbiamo mai avuto. Una partita in cui tutti hanno saputo superarsi. Lo stopper che segna come un centravanti al 93′. Il giocatore fuori progetto che segna i due gol decisivi delle due vittorie. Il capitano che recupera in sei giorni un infortunio da sei settimane. Il portiere che fa i miracoli, letteralmente. La seconda punta che fa una partita mostruosa. La riserva che fino a ieri avremmo accompagnato alla frontiera che fa la partita dell’anno.
Ecco, ditemi voi se tutto questo è normale. O è, semplicemente, leggenda.
Uno scontrino fiscale attesta che, pur non distante dal mio divano (direi 150 metri in linea d’aria), alle 21.10 di sabato 3 maggio ho saldato il conto di due esosi spritz con ricco aperitivo – esosi per colpa mia, va detto, all’aperitivo ho aggiunto cose in corso d’opera perché stavo bene, era una bella serata, c’era quasi freschino dopo un pomeriggio appiccoso e non avevo nessuna fretta tornare a casa. Inspiegabilmente.
Si stava giocando Inter-Verona. Dalle 20.45.
Praticamente stavo facendo turnover con me stesso. Non mi sono schierato sul divano, ci ho messo il mio avatar mentre io ero lì fuori, a 150 metri in linea d’aria, a sorseggiare lo spritz e a ordinare cose in sovrappiù senza nemmeno sbirciare più l’orologio. Stava giocando la vice-Inter diretta dal vice-allenatore e io, che avevo ceduto alla tentazione tossica di guardare 20 minuti di Lecce-Napoli, stremato y devastato mi sono messo in panchina tipo Dimarco, che sapeva che prima o poi sarebbe entrato ma non subito. Il risultato di Lecce-Napoli e le sua modalità (corto muso, culo, furtarello, pianeti allineati, finte frignate, vaffanculo) mi avevano messo nel seguente mood: Inter-Verona era troppo per il mio povero cervello in pappa. Poi, a un certo punto, il Farris che era in me mi ha fatto entrare sul risultato di 1-0: ho guardato il resto della partita sperando che finisse il più presto possibile. Non finiva mai. Per fortuna è finita 1-0. Del resto, come si può sopportare un’Inter-Verona dopo un Lecce-Napoli e prima di un’Inter-Barcellona? Non si può, dai.
No, perché non vorrei metterla sull’apocalittico, ma oggettivamente è l’ennesimo bivio tra il tutto e il nulla, situazione alla quale non ci si abitua abbastanza pur non facendo nient’altro ormai da settimane, acrobati sul filo di una stagione per la quale ormai scarseggiano gli aggettivi. Ok, ma non è proprio il solito bivio. Il problema è che domani sera non potranno che accadere sostanzialmente due cose – passiamo il turno e andiamo in finale di Champions, oppure non passiamo il turno e tanti saluti – davanti alle quali dovremmo – anzi, dovremo – comportarci da persone responsabili e consapevoli (risolini in sottofondo).
Siamo persone responsabili e consapevoli?
Beh, insomma, non è proprio il solito bivio. La nostra meravigliosa stagione potrebbe finire domani sera, martedì 6 maggio, verso le 23 oppure prolungarsi fino a sabato 31 – minchia, altri 25 giorni di passione, potrei non farcela (non è vero, ce la potrei fare). Sì, rimarrebbero tre partite di campionato in modalità agonia, ad aspettare di vedere il Napoli vincere 1-0 contro squadre inutili e preparare il pullman scoperto e festeggiare in piazza il nuovo miracolo blablabla. Cioè, una merda.
Quindi: domani dobbiamo vincere.
La qual cosa non sarà semplice. Cioè, col Barça dei bambini prodigio. E poi, chi cazzo ha cambiato il regolamento dei gol in trasferta? Dopo un 3-3 in trasferta avremmo avuto un piede a Monaco di Baviera. Invece quella meravigliosa partita di Barcellona non conta quasi più niente, si ricomincia da zero, non è eruttato nessun vulcano islandese, Puidgemont non ha esortato i catalani a uscire dall’Uefa con effetto immediato, Lewandowski è guarito. Si riparte daccapo. Quell’arbitro menarogna fischierà l’inizio e poi la fine. Rimarrà in campo una squadra a rotolarsi sull’erba ebbra di gioia e l’altra con i lucciconi a ringraziare la sua curva.
Ecco, sarà lì che – comunque vada – dovremo comportarci da persone responsabili e consapevoli. Questa è la notte prima del nostro esame di maturità: impermeabili ai giudizi esterni e ai gufaggi generalizzati, dobbiamo prepararci a ogni evenienza. Facciamo così: a quale evenienza prepararci, con precisione, ci pensiamo domani notte. Questa notte trascorriamola impazienti e sereni – sì, ok, mi rendo conto. Ma è così che dobbiamo essere: la fortuna di essere interisti alla vigilia di una semifinale di ritorno di Champions con il fottuto Barcellona, come dire, è una cosa in qualche modo da gustarsi come un pastis davanti a un tramonto in Camargue. Grazie ragazzi, a prescindere. E se vi va, trascinateci un po’ più avanti. Verso l’infinito (non oltre, ché non ne abbiamo più).
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #127, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto (ops, quasi tutto), è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
Giusto per mettere qualche paletto a questa stagione pazzesca, sennò si perde la nozione del tempo: sono passate tre settimane dalla magica notte di Bayern-Inter e due dalla altrettanto magica notte di Inter-Bayern. Poi, tra i quarti e le semifinali di Champions, una settimana in cui l’Inter ha giocato e perso tre partite senza segnare un gol, uscendo dalla Coppa Italia e compromettendo il campionato. Alla decima partita in un mese (30 marzo, Inter-Udinese – 30 aprile, Barcellona-Inter) e dopo tutto quello che è successo dopo il ritorno col Bayern, io non saprei spiegare dove l’Inter abbia trovato le energie – testa, gambe, tutto – per fare quello che ha fatto a Barcellona. E comunque vada, perché potrebbe andare in tanti modi – soprattutto male -, non si può che essere orgogliosi di questa squadra e nel contempo assistere stupefatti al finale di questa stagione tuttora in bilico tra il quasi tutto e il niente.
In una Champions dove le grandi favorite si sono inchinate alle quattro semifinaliste, l’Inter scavalla nel mese di maggio con un percorso quasi netto – una sola sconfitta, ininfluente, con un gol al 90′ – dopo aver pareggiato a Manchester, battuto a San Siro l’Arsenal, eliminato il Bayern vincendo a Monaco e pareggiando in casa e infine andando a giocare una folle partita a Barcellona, dopo tre sconfitte e un certificato di morte emesso magari frettolosamente ma non senza qualche pezza d’appoggio.
Barcellona-Inter è stata una delle più belle partite dell’anno e l’Inter ne esce con l’ennesimo figurone ai massimi livelli mondiali, una prova di talento (meravigliosi i primi due gol e meraviglioso il quarto, annullato per il fuorigioco di un alluce) e di incredibile solidità – incredibile per una squadra morta, questo va detto. Il secondo tempo di Barcellona, tenuto conto che era la nostra 53esima partita della stagione e la decima degli ultimi 30 giorni, ha un che di miracoloso. Un secondo tempo giocato senza Lautaro, con molti dei migliori sostituiti perché ammoniti e/o in riserva. Un secondo tempo in cui noi sembravano destinati al massacro e che invece ha visto il Barcellona andare spesso in confusione. Loro, non noi. Ma di brutto.
Loro sono fortissimi davanti e molto vulnerabili dietro. Il 3-3 è il risultato naturale della partita, se la settiamo su questi due parametri. Ma non era affatto scontato che noi facessimo tre gol – praticamente quattro – al Barcellona a casa loro, difendendoci dal loro assalto e dalle genialate di Lamine Yamal, ma mettendoli continuamente alla frusta con le nostre ripartenze e facendogli passare così tanti spaventi che stanotte ripenseranno alla partita e diranno: ok, è andata bene. Dumfries se lo sogneranno fino al ritorno.
Con la nuova regola, un 3-3 in trasferta non è più una quasi vittoria ma un semplice pareggio. A San Siro si ripartirà da zero e loro, per questo, saranno i favoriti. Allo stato attuale pare che tornerà Lewandowski e forse non ci sarà Lautaro, vabbe’. Ma questa Inter di Champions, elevata a un livello di eccellenza e sempre in grado di fare di necessità virtù, può sognare la finale. E anche solo il fatto di essere qui a sognare, ragazzi, è un privilegio che dovremmo goderci un po’ di più.
Cosa sarebbe cambiato? Non molto. Avremmo pareggiato, non perso. Un punticino, una boccata d’ossigeno, una botta di vita. E quindi sì, rettifico: non sarebbe cambiato molto, ma un pochino sì. E allora, addì 27 di aprile, in debito di entusiasmo e di fantasia, parto dagli arbitri, da un’altra partita diretta un po’ così e viziata alla fine da un clamoroso errore. Che poi, a voler essere precisi, di errore tout court si poteva parlare in epoca pre-tecnologica, quando l’arbitro più o meno in buona fede certe cose poteva vederle o non vederle, valutarle bene o male, poteva cioè sbagliarle in quanto uomo solo, costretto vieppiù a prendere una decisione in un millisecondo.
Ma adesso?
Ammesso che una trattenuta in area che si protrae per qualche metro fosse impossibile da non vedere per l’arbitro – il pallone era diretto lì, dove cazzo guardava, scusate? -, com’è che non l’hanno vista quelli del Var? Com’è che non hanno richiamato l’attenzione dell’arbitro? O com’è che tutti insieme hanno deciso che quello indubbiamente non fosse rigore? L’avremmo pareggiata, forse. Non sarebbe cambiato molto, ma un pochino sì. E comunque speriamo che alla fine non balli un punticino, perché ci sarebbe davvero da incazzarsi. Un punticino. Ne abbiamo persi sei in una settimana. No, forse non ballerà un punticino. Ma se ballasse?
Ciò detto, il fallo di Ndicka su Bisseck, per il resto, è il singolo momento di una partita che abbiamo perso e che, onestamente, non abbiamo meritato di vincere. Tra le piccole sfighe di cui è tempestata la nostra stagione – pali, episodi controversi, infortuni – ci è capitata anche questa, di vedere incrociarsi il nostro destino e il nostro devastato stato psico-fisico con le due squadre più in forma del campionato, il Bologna domenica scorsa e la Roma oggi, partite precedute e seguite da dispendiosi mercoledì di coppa, che ci hanno prosciugato l’anima. Quella di oggi, con la Roma, era forse una sfida impossibile benché noi ci puntassimo tutte le nostre speranze: arrivavamo dalla tranvata con Milan e giocavamo con la prospettiva di una semifinale di Champions a Barcellona, un match già dispendioso prima ancora di disputarlo davvero.
A San Siro oggi è accaduta una cosa molto umana: l’Inter non ne aveva più. Non ne aveva già più prima di entrare in campo – hai perso al 94′ la partita precedente, ne hai presi tre dal Milan nel quinto derby di campionato uno peggio dell’altro, hai già la valigia pronta per Barcellona dopo esserti riposato un giorno in meno di loro causa morte di papa. Alla prima avversità non hai saputo reagire, rischiando l’imbarcata. Hai tenuto palla e concluso poco o nulla. Hai fatto il tuo sporco lavoro, ce l’hai messa tutta, ma non è successo niente. Non sei nemmeno fortunato, ma neanche un pochino, niente. E’ frustrante, è umano. Terribilmente umano.
Siamo tutti con loro, nella vittoria come nella sconfitta. Incondizionatamente, perché questa squadra lo merita, questo mister lo merita. Gli applausi dello stadio alla fine sono stati la cosa migliore della partita. Anche se tocca andare sotto la curva che ai suoi 20 minuti autoreferenziali di sciopero non rinuncia anche quando servirebbe trascinare la squadra dall’inizio alla fine (la curva che protesta per i biglietti – per i biglietti! – mi fa vomitare). Siamo tutti con loro perché la stagione non è finita qui, c’è ancora un mese da vivere, ci sono ancora i prossimi dieci giorni micidiali. Non è finita.
A un certo punto si doveva arrivare qui, alle strade che si dividono, ai trofei che svaniscono, alle situazioni che si complicano, ai tuoi avversari che affrontano Monza e Torino (le due squadre più inutili del camponato) e tu Bologna e Roma. Abbiamo cercato di convincerci che certe differenze non contassero, che bastasse la voglia, che bastasse l’orgoglio. Questa ultima settimana – seguita alla grande impresa con il Bayern – ci dimostra che non è così. Tre partite perse senza segnare un gol, che per l’Inter di Inzaghi è la cosa più innaturale del mondo. Dal tutto al niente in una sola settimana, perchè è tutto terribilmente umano. E frustrante.
Forza Inter, forza ragazzi. Non è finita. Vogliamo che non lo sia.
Dovendo morire tutti – perché voi sapete che andrà così, moriremo tutti, senza offesa – si potrebbe dire che il quinto strafottuto derby stagionale è stato l’inizio della fine. Cioè, letteralmente: il primo atto del finale (di stagione), che terminerà tra un mese quasi esatto, il 25 maggio, o nella più orgasmatica delle ipotesi sei giorni più tardi. Come primo atto, ecco, non è andato benissimo. Tanto che al concetto di inizio della fine potremmo rassegnarci a dare un senso un filino più apocalittico: insomma, non solo moriremo tutti – perché è umano che vada così, in un futuro più o meno prossimo – ma (rumore prolungato di tuoni) siamo già morti.
Nel mio cervellino da tifosotto, un significato supremo io davo al derby di Coppa Italia: quello del trampolino. Mi auguravo, anzi, beata ingenuità, proprio mi immaginavo un derby finalmente vinto, un derby booster di energie e vitalità in vista di impegni ancora più importanti nei sette giorni successivi, prima in campionato (in quell’Inter-Roma che ieri nel giro di un paio d’ore ha cambiato giorno e orario tipo diciassette volte) e poi in Champions a Barcellona. Non era la semifinale di ritorno della Coppa Italia con il match point in casa, no, alla Coppa proprio non pensavo. Inter-Milan era una partita trampolino.
Purtroppo è andata come peggio non poteva andare, se consideriamo che questa partita l’abbiamo stradominata per mezz’ora, per poi prendere gol al primo tiro, prenderne un altro per un misto di ignavia e di sfiga, vagare per il campo storiditi per una decina di minuti e poi riprendere inutilmente a macinare gioco e occasioni prima del colpo di grazia. Ci si può arrabbiare per una partita così? Sì, certo, ma anche no. Ce l’abbiamo messa tutta. Il problema è che quel “tutta” è da quantificare con realismo.
In tre giorni abbiamo perso due partite basilari. Quel che spaventa è che le abbiamo perse senza segnare un gol e non mi ricordo da quanti mesi, anni o lustri l’Inter non segnava gol in due partite di fila, boh, forse c’era ancora la lira. Anche Inzaghi a fine partita era seriamente preoccupato. Forse, come tanti di noi, avrà pensato ai due significati di inizio della fine e gli sarà venuto un brivido.
Ora che inizia la fine (della stagione) dobbiamo rimandare la fine (nostra). A essere oltremodo ottimisti, dopo quella che abbiamo visto stasera, si corre il rischio di sembrare un po’ ridicoli. Preoccupiamoci, invece. Con sobrietà. Per la prima volta da otto mesi a questa parte non siamo più dentro a tutto. Non so – non credo – che tolto il peso della Coppa Italia ci sentiremo più leggeri, non dopo uno 0-3 col Milan. Di sicuro, abbiamo altre sette partite da giocare (e il sogno di una ottava). Proviamo a pensarla così: sono poche. Proviamo a raccogliere tutto ciò che resta in energie e orgoglio. E a ripartire.
E’ l’inizio della fine, con quale significato ancora non si sa. Fosse quello peggiore, ringrazio sin d’ora l’Inter per la meravigliosa emozione protratta otto mesi. E se c’è ancora voglia e forza di protrarla ancora per un po’, ragazzi, non siamo qui con voi, tutti, sempre.
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #124, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto (ops, quasi tutto), è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)
Le stronzate che si dicono da tifosi – e tra tifosi – sono così innumerevoli ed ecumeniche che potremmo limitarci a trattare quella di Roberto Saviano, appunto, come una stronzata qualunque di un tifoso qualunque. Nel giorno in cui è morto il Papa potremmo qui, adesso, osservare intimamente un minuto di silenzio e riconoscere i nostri peccati – quelli commessi in qualità di tifosi: non basterebbe un minuto, penso, perchè ognuno di noi ha una rispettabilissima vita da cui prende 90 minuti (più recupero) di licenza ogni settimana (anche due volte la settimana) (gli interisti, in questo periodo, si trasfigurano spesso) e niente, fa o dice cose di cui un giorno potrebbe pentirsi, pur nella consapevolezza generale che il tifo sia una zona franca per i cervelli di chiunque.
Non è detto che ci si trasformi per forza in esseri mostruosi: a seconda delle occasioni si torna bambini o ci si avvicina alla morte, poi si riprendono sembianze umane e via così, fino alla successiva licenza. Per dire: la sera di Inter-Bayern noi interisti eravamo creature eteree a spasso per il paradiso, dopo Bologna-Inter (tre giorni dopo, parevano tre mesi) sembravamo gremlins che sparavano ai santi per tirarli giù uno a uno come al luna park. E’ il tifo, non possiamo farci niente. Cioè, potremmo. Ma non lo facciamo.
Non lo fa nemmeno Saviano, pensa un po’. Saviano, però, non è un tifoso qualunque. E soprattutto la stronzata che ha detto non è una stronzata qualunque. E’ una stronzata terribilmente specifica e dannatamente autorevole.
Voglio dire: se il mio amico Pippo dell’Inter club Borgoratto Mormorolo sul pullman che va a San Siro mi dicesse che “Caravaggio fa cagare perchè sicuramente tifava Atalanta”, io gli direi “sì, certo” e mi periterei di non sedermi con lui nel viaggio di ritorno (cioè, non avrei voglia di stare lì a dirgli “a parte la cosa dell’Atalanta, vabbe’, vieni con me una mezz’ora a Roma in San Luigi dei Francesi e poi ne riparliamo”, anche perchè mi direbbe Roma merda, Francia vaffanculo, forza Inter, vabbè, i tifosi dicono un sacco di stronzate). Se però fosse Sgarbi a dirlo con una storia sui social o in tv a reti unificate, “Caravaggio è un assassino mezzo matto e i suoi quadri fanno cagare”, il pesante e circostanziato giudizio su Caravaggio assumerebbe un rilievo un po’ diverso. Una stronzata, certo. Ma una stronzata d’autore. Un autore tanto autorevole che qualcuno potrebbe prenderla per buona, la stronzata.
A Saviano la storia delle infiltrazioni ‘ndranghetiste nella curva dell’Inter è piaciuta molto, professionalmente. Ci ha dedicato tempo, ne ha scritto, parlato, raccontato. E non mi stupisce, perchè Saviano si occupa di malavita organizzata e quella delle infiltrazioni ‘ndranghetiste nella curva dell’Inter è una storia di malavita organizzata, che ci piaccia o no. Non credo sia piaciuta a nessun interista, così come non sarà piaciuta nemmeno a nessun milanista per la loro quota parte. Figurarsi ai tifosotti come me, a cui non piacciono mafiosi e camorristi ma nemmeno le curve, a prescindere da qualsivoglia infiltrazione.
Ora, matchando il tifoso che c’è in noi con il professionista che c’è in noi, posso anche capire che in un attimo di black-out cerebrale tipico del tifoso a Saviano (che quindi stava occupando il suo tempo a gufare l’Inter: interessante, lo umanizza) sia scappata una frase sgradevole. Una frase che poggia su una realtà altrettanto sgradevole, anche se mettere in relazione la mezza rovesciata di Orsolini con la mafiosità della curva dell’Inter è piuttosto acrobatico, tipo la suddetta mezza rovesciata. Ma facciamo che tutto questo possa essere definito concepibile, nell’ottica di un tifoso del Napoli che sta guardando Bologna-Inter sperando che l’Inter perda e in effetti al 94′ prende un gol. Non posso garantire, per onestà intellettuale, che a parti rovesciate sarebbe filato tutto liscio, e che 7 milioni di interisti avrebbero detto tutti “ohibò, i partenopei hanno perso, bene, me ne compiaccio” e non magari “Aaargh! Forza Vesuvio!”, no, non lo posso garantire.
E’ la seconda parte della frase che non è accettabile. Perchè se “la curva più ‘ndranghetista del paese” può essere il giudizio di un esperto che poggia su circostanze purtroppo reali, dire che l’Inter “fa dell’ambiguità con i clan la sua cifra” è un’enormità diffamatoria cui spero che la società reagisca con fermezza nelle dovute sedi. Il rispetto che merita Saviano non è sconfinato, il credito che vanta per il suo impegno e per la sua rinuncia a una vita normale non gli può consentire di dire qualsiasi cosa impunemente. La cifra dell’Inter – tratto distintivo, impronta, segno, traccia, stile – è essere ambigui con la ‘ndrangheta? Ma che cazzo dici, Saviano? Parli della cifra dell’Inter come se parlassi della cifra di Genny Savastano. Tu, che di certi argomenti te ne intendi, più di chiunque altro, non puoi dire ‘ste cose. Non sei un curvaiolo del San Paolo. Sei Roberto Saviano.
La parole sono importanti e chi riveste un ruolo non può non sapere che le sue pesano molto di più. Se io dico che la carbonara fa schifo esprimo l’opinione scomposta di un signor nessuno, se lo dice Cannavacciuolo cambia la storia della cucina italiana. L’Inter, caro Saviano, ha un’altra cifra. E sai che ti dico? Tra le tue stronzate da tifoso e i piagnistei del tuo allenatore, vincere questo scudetto adesso diventa una questione di principio.
La prima certezza è che non siamo (più) capaci di giocare per lo 0-0. Abbiamo preso gol appena prima di andare a fare la doccia, come a Leverkusen, convinti di avercela fatta. Non è che abbiamo giocato male. Anzi a Bologna, più che a Leverkusen, ci siamo calati bene nel clima della partita. Ma di sicuro non abbiamo provato seriamente a vincerla. Anche a Torino con la Juve era andata così: ci saremmo accontentati di uno 0-0 e ce lo siamo presi in quel posto. Non siamo (più) una squadra da 0-0, non è il nostro pane. L’ultimo 0-0 in campionato è un Samp-Inter del febbraio ’23, 26 mesi fa. Da allora abbiamo fatto solo tre 0-0 tutti in Champions (Real Sociedad a San Siro, partita ininfluente, e Porto e City in trasferta, partite in cui uno 0-0 aveva un senso). Gli ultimi tentativi di accontentarsi di uno 0-0, o addirittura di programmarlo, sono dunque miseramente falliti.
La seconda certezza è che ultimamente – da quando cioè giochiamo a ciclo continuo – siamo parecchio vulnerabili rispetto alle nostre medie recenti. C’è solo un clean sheet nelle ultime dieci partite, nelle altre nove abbiamo subito 1 (6 volte) o 2 (3 volte) gol. Ne consegue, dunque, che per vincere dobbiamo sempre segnare due gol, oppure tre (tipo col Monza, mentre con Parma e Bayern è finita 2-2). A Bologna due gol non li avremmo segnati mai. Forse uno. Ma bisogna tirare in porta.
La terza certezza è che al 20 aprile, pur sconfitti a Bologna con un gol al 94′, siamo ancora dentro a tutto. Compreso il campionato, dove siamo ancora primi. Purtroppo ora a pari con il Napoli, che ha capitalizzato al 100% un turno favorevole (noi in trasferta contro la quarta in classifica in gran forma, loro con l’ultima depressa). Spoiler: sarà un turno favorevole a loro anche il prossimo, noi contro la Roma lanciatissima e loro contro il Torino, una delle squadre (con tutto il bene che posso volere al Toro) più inutili della serie A.
La quarta certezza è che, dopo la visione di Monza-Napoli e di Bologna-Inter, direi che noi non usciamo minimamente ridimensionati dal duello a distanza. Il Napoli ha avuto i suoi problemi a venire a capo di una partita ovvia, non è squadra che dia l’impressione di una particolare vena o di una grande sicurezza. E pensare che questa squadra possa vincere lo scudetto – una squadra che gioca la metà delle nostre partire e sembra sfinita uguale – è veramente agghiacciante (cit.).
La quinta certezza è che noi sfiniti lo siamo davvero e che è oggettivamente difficile che in questa spaventosa sequela di partite si possa tenere un rendimento elevato e uniforme. Ci saranno partite che andranno meglio e altre peggio. Dobbiamo sperare anche in un po’ di fortuna, che oggi per esempio ci avrebbe consentito di portare a casa un punto, non fosse altro che la partita era ormai finita. La fortuna, anche, che nessuno si faccia male. Oggi con Thuram invece di un Correa innocuo e di un ormai irritante Taremi sarebbe stata un’altra partita. O la fortuna di non dover fare per forza certi cambi: tipo tirare fuori Bastoni ammonito e mettere dentro Bisseck che sembrava essersi appena fatto una canna nei bagni del Dall’Ara. Un po’ di fortuna ce la meriteremmo, e che cazzo.
E’ successo meno di 10 anni fa. 31 ottobre 2015: allo stadio Presidente Peron di Avellaneda, provincia di Buenos Aires, vicino a dove la linea di centrocampo interseca perpendicolarmente quella laterale, viene scattata la foto che contiene tutto un destino. Diego Cocca, allenatore del Racing, sul punteggio di 3-0 chiama il cambio nel finale della partita con il Crucero del Norte, ultimo in classifica. E’ il 79′. Il tabellone luminoso si accende sul numero 22: esce Diego Milito, autore di una doppietta, per una meritata standing ovation. Il display vira sul 32: entra il 18enne Lautaro Martinez, per i suoi primi undici minuti da professionista.
Il Principe è il campione al passo d’addio, tornato nella sua squadra del cuore per chiudere la carriera dopo una lunga – e da noi gloriosa – avventura europea. Il Toro (il soprannome, azzeccato, gliel’ha dato un compagno di squadra) è invece al debutto assoluto, il ragazzino promettente a cui viene fatta assaggiare l’emozione della prima squadra in uno stadio strapieno. Un rito alla sua milionesima rappresentazione negli stadi di tutto il mondo. Ma riletto e rivissuto in chiave interista è un momento clamorosamente evocativo. Nessuno avrebbe potuto immaginare che razza di passaggio di consegne si stesse realizzando in quel momento nello stadio dell’Avellaneda.
L’Inter doveva ancora mettere seriamente gli occhi sul ragazzino – un po’ piccolo, in effetti, ma tosto. Lo farà nei mesi successivi, di fronte a relazioni sempre più interessanti. Già agli inizi della stagione 2017-18 l’affare viene intavolato e poi concluso. L’imberbe, acerbo, semisconosciuto Lautaro Martinez arriva a Milano a 21 anni, nel luglio 2018, si prende la maglia numero 10 (minchia, che faccia tosta) ma siede diligentemente in panca come riserva di quell’Icardi che da febbraio in poi, in collisione con il club e con Spaletti, gli lascerà parecchio spazio. Forse fin troppo per uno paracadutato dall’Argentina in un’Inter piena di casini. Era ancora un giocatore imperfetto, sbagliava molti gol, non parlava italiano (ci metterà un paio d’anni ad abbandonare lo spagnolo nelle interviste), tanta buona volontà ma boh, chissà, vabbe’, vediamo.
Il resto, ormai, è storia. Nella nostra, Lautaro si è già ritagliato un posto che forse neppure osava sognare. Ma che certamente, mese dopo mese, gol dopo gol, ha inseguito e voluto oltre ogni cosa. Poteva essere una meteora e invece è diventato il capitano. Non solo una stella (questo lo dicono le cifre, ma noi vogliamo andare oltre le cifre), non solo il frontman, ma il condottiero. E’ questa caratteristica è impagabile, inestimabile, e va oltre le infatuazioni da highlights o gli incensamenti da statistica. Lautaro, più di ogni altra cosa – un grandissimo centravanti, un giocatore generoso, un punto di riferimento dentro e fuori dal campo -, è diventato interista.
Questo passaggio non è così scontato. Non sarà magari per l’eternità – anche se piacerebbe a tutti – ma la dichiarazione d’amore di Lautaro per l’Inter è una delle cose più belle che ci siano capitate negli ultimi decenni, sentimentalmente parlando. E vaffanculo, non scordiamoci mai dei sentimenti in quest’epoca di bonus, big money ed expected goal. Non sottovalutiamo il fatto che ci sia ancora gente che si emoziona per una bandiera o per uno stadio, e non solo quando accede all’home banking. E che ci siano ancora campioni che apprezzano di mettersi una fascia sul braccio sinistro, non perché è un simbolo di prestigio o perché spicca bene sul fondo nerazzurro ma per quella certificazione di appartenenza – appartenenza vera – che resta vanto di pochi e patrimonio di pochissimi.
Icardi diventò capitano perché in quell’Inter un po’ così era il più forte, il più prospettivo, il più spendibile, il più fascinoso. Potremmo fare copincolla per Lautaro, ma questa non è un’Inter un po’ così, e soprattutto lui non è Icardi. Lautaro ci ha messo il cuore, il sudore, le lacrime, l’orgoglio. Lautaro si è infilato quella fascia con una solennità che fa quasi tenerezza, in un mondo arido e senza valori. Lautaro è capitano di un’Inter che gli piace, che ama. Un’Inter per la quale farebbe qualsiasi cosa, sapendo – altra immane differenza con Icardi – che questa Inter farebbe qualsiasi cosa per lui. Lautaro è capitano di se stesso: il Lautaro giocatore non tradirebbe mai il Lautaro capitano, il Lautaro giocatore vuole andare a dormire con la coscienza a posto al cospetto del Lautaro capitano. Il Lautaro giocatore e il Lautaro capitano lasciano il campo avendo speso tutto. Il Lautaro giocatore e il Lautaro capitano sono proprio la stessa cosa.
E’ meraviglioso vederlo giocare così – vedergli fare il capitano così – in quella che a conti fatti è la sua stagione più difficile, iniziata con troppe tossine nelle gambe, con qualche infortunio da stress, con pochi gol e relativi malumori, con qualche dubbio da parte di noi stolti tifosotti che non lo concepiamo in versione ridotta (sotto i 25-30 gol a stagione, per dire) (che ingrati). Quando è tornato lui al 100 per cento è iniziata la fase-2 della stagione dell’Inter, perchè con un Lautaro a questo livello, di lotta e di governo, di gol e di sacrificio, di pennellate e di randellate, nulla ci è precluso. Negli anni ha cambiato postura, grazie anche alla fascia. Il quel petto in fuori, in quella fronte alta, in quello sguardo che da tenebroso si è fatto maturo (spaventoso, per gli altri) c’è tutta la sua voglia di giocare in nerazzurro, di trascinare un popolo intero verso l’obiettivo. C’è la sua gratitudine verso l’Inter. Le sue prestazioni non sono il corrispettivo di un lauto stipendio. Sono altro. E finchè resteranno altro, ecco, nulla mai ci dividerà.
(nell’angolo Podcast, giunto nel frattempo all’episodio #129, io e il mio socio Max attendiamo sempre i vostri vocali al numero dedicato Whatsapp 351 351 2355.Cosa ci dovete dire? Quello che volete. Se riuscite a stare nel tema – l’Inter, il calcio, la vita – va bene. Cioè, si gioca ogni tre giorni, siamo dentro a tutto, è una stagione meravigliosa: vi mancano gli argomenti? Se non ci riuscite, va bene lo stesso. Chi siamo noi per impedirvelo?
(il podcast, oltre che su Spreaker – il cui player trovate qui sul blog – lo potete ascoltare anche su Spotify, Audible, Apple Podcast, Google Podcast e tutte le principali piattaforme. Non lo trovate? Prendete appunti – non è difficile – : scrivete “Settore” o “interismo moderno” nell’apposito campo e per incanto vi apparirà. E’ la tecnologia, bellezza, e non possiamo farci niente)